La Regione Siciliana e gli interventi di "riqualificazione" operati con cementificazioni e fondi per lo sviluppo rurale: il surreale caso dell'area del Castello di Fiumedinisi.

di Pietro Villari, archeologo e naturalista

Articolo del 16 Gennaio 2024 - Aggiornamento Fotografico: 29 Febbraio 2024

Ultime modifiche: 08 Aprile 2024


 


 


 

 



Monte Belvedere (Fiumedinisi, Sicilia Nordorientale): 

Fig. 1 - il grande piazzale realizzato spianando un'area del complesso monumentale d'interesse naturalistico e culturale (Foto dell’Autore del presente post, Gennaio 2024. Tutti i diritti riservati) L'entità del danno è parzialmente testimoniata dalla sezione stratigrafica, contenente un antico strato di ceneri e carboni d'interesse archeologico, probabilmente formatosi al tempo dell'esistenza di un riparo sottoroccia, in seguito crollato. Si tratta di una unità stratigrafica meritevole di un approfondito studio archeobotanico, che andrebbe salvaguardata anziché essere lasciata all'azione erosiva degli agenti atmosferici e ai possibili danni effettuati dai visitatori.

Fig. 2 - Castello Belvedere (Foto dell’Autore del presente post, Gennaio 2024. Tutti i diritti riservati). Il triste risultato dei controversi restauri effettuati negli anni 2005-2006, ai quali si sono sommati gli effetti delle sollecitazioni generate dai lavori operati con mezzi meccanici all'interno del monumento, edificato su un costone roccioso che negli ultimi decenni ha peggiorato le sue condizioni d’instabilità. La foto mostra parte del muro perimetrale del mastio, l'area che dal 1196 in avanti, nel corso di oltre sessant'anni, accolse periodicamente i componenti della famiglia Hohenstaufen, i regnanti svevi di Sicilia. Almeno parte del muro è destinata a collassare a breve, e costituisce un grave pericolo sia per gli addetti ai lavori che per i visitatori.

Figg. 3 e 4 - Rocca Perciata ((Foto dell’Autore del presente post, Gennaio 2024. Tutti i diritti riservati). Alcune evidenze dell'instabilità strutturale, che rende il monumento incompatibile con un uso turistico. Il crollo dei massi potrebbe investire anche parte del piazzale adiacente sul lato sinistro e del sentiero che conduce al Castello.  

 

La recente deturpazione rappresenta il sequel dei danni, irreparabili, arrecati alla stessa area circa diciotto anni fa. Il risultato eclatante e surreale qualora fosse accaduto nell’ambito di una società civile, è l’espressione della somma delle gravi incapacità sia tecnico-scientifiche e amministrative della dirigenza regionale siciliana, e sia di pericolose modalità di usare il potere politico. Ecco quindi i nuovi spianamenti con ruspe, distruzioni con mezzi di disgaggio, e la cementificazione nell’area sommitale del Monte Belvedere di Fiumedinisi, con tutta probabilità ancora in corso mentre inizio a scrivere questa disgraziata storia (16 Gennaio 2024).

Purtroppo, questo è solo un capitolo della costante distruzione che, nel corso di mezzo secolo, ha progressivamente compromesso la ricchezza e la bellezza di quello che, sino alla fine degli anni 1960, fu l’imponente patrimonio ambientale e culturale del territorio compreso tra le valli dell’Allume e del Fiumedinisi. Anni dei quali conservo ancora molti ricordi.

Inizio quindi a contestualizzare la vicenda sulla base di mezzo secolo di esplorazioni archeologiche e naturalistiche, ricerche storiche e attività pubbliche divulgative, che a vario titolo, accademico e professionale, ho condotto anche a livello internazionale. Un'attività costretta a divenire anche una lotta lotta impari per la tutela e salvaguardia di quest'area, effettuata anche con l’appoggio di validi colleghi. Una rotta di collisione con gli interessi di una rete di poteri consolidati in un “sistema” monolitico complesso, che non disdegna di esercitare con arroganza anche metodologie non ortodosse di annichilimento dei pochi che tentano di opporsi. Ormai esso impera praticamente incontrastato a livello regionale, con legami di livello nazionale e internazionale (1).

 

Oltre mezzo secolo di devastazioni del patrimonio comunale

L’attuale processo di devastazione è da considerare uno degli effetti del fenomeno di abbandono delle campagne, che raggiunse il suo apice negli anni 1970, al quale il governo cercò di opporre un controverso “piano di sviluppo” delle aree rurali siciliane. Tra le misure d’intervento, vi fu l’elargizione di sovvenzioni statali per la realizzazione delle strade sterrate di penetrazione agricola, che si rivelò particolarmente letale per l’assetto ambientale, in quanto nella pratica era delegato all’operato di “ruspe selvagge”, che le realizzavano in poche settimane travolgendo ogni cosa avessero innanzi.

Si trattava di un’attività sfrenata, profondamente odiata dagli anziani contadini nelle aree collinari che ne comprendevano le conseguenze e si prodigavano a predirne gli svantaggi, rimanendo tuttavia inascoltati da chi avrebbe dovuto valutarne la validità delle argomentazioni. Si stavano attuando devastazioni condotte senza alcun riguardo nei confronti dei caratteri e problematiche costituenti il panorama geologico, e delle antiche protezioni dal dilavamento dei pendii collinari. Nel comprensorio ionico del Messinese, quest’ultime erano spesso costituite dagli impianti di frutteti e boschi secolari (castagneti, querceti, uliveti), associati a una vastissima rete di terrazzamenti con muri a secco (le “armacere”), sapientemente erette da operai scalpellini e mantenuta in efficienza, nelle aree critiche quali gli erti pendii, con periodici piccoli interventi di restauro.

Compromessa dall’opera dissennata delle ruspe che condusse in breve al conseguente prevedibile instaurarsi del dilavamento dei terreni, fu aggravata dall'abbattimento di alberi e incendi per favorire il pascolo sui terreni lasciati incolti. Si sommarono anche danni provocati dall’ingordigia speculatrice del commercio di legname. Soltanto a Fiumedinisi, negli anni 1980 erano particolarmente attive ben tre segherie.

L’abbattimento di alberi secolari, ovvero la distruzione di un intero patrimonio naturalistico, accadde senza alcuna possibile realistica attività di controllo delle Autorità e, dato di fatto che permette di focalizzare il contesto, notiamo il perfetto tempismo della contemporanea apertura di strade sterrate, sia pubbliche che private. Quasi sempre, le concessioni di permessi comunali per l'esecuzione privata di strade sterrate private e per il loro innesto in quelle di pubblico transito, venivano rilasciate senza richiedere validi studi di valutazione dell’impatto ambientale, degli interventi destabilizzanti, o di vincolarle alla garanzia di erigere valide protezioni di contenimento e sistemi di scolo delle acque piovane. D'altronde non esistevano studi sullo stato di conservazione e composizione delle ampie aree boschive private e sul loro uso.

Gli effetti dell'uso sconsiderato delle ruspe e della rarefazione di intere aree boschive collinari, si palesarono negli anni 1970 e 1980, quali cause degli ingenti danni provocate dalle tragiche tracimazioni dei torrenti Fiumedinisi e Allume. A questo fenomeno si sommarono le conseguenze del pascolo di armenti, condotto in modo intensivo in quelle aree che, sino agli inizi degli anni 1960, erano state per molti secoli adibite alla coltivazione. Difatti, con il quotidiano passaggio di mandrie bovine, ovine e caprine lungo i sentieri del Monte Belvedere e contrade adiacenti, parte dei terrazzamenti medievali iniziarono dapprima a essere intaccati da piccole frane.

Nel corso dei decenni successivi, si aggiunse l’azione degli agenti atmosferici, in grado di causare l’instaurazione di un acceleramento del processo di dilavamento del terreno anche in aree che conservavano resti d'interesse archeologico. Dagli anni 1990 iniziarono così a verificarsi ulteriori devastazioni condotte con l’utilizzo di metal detectors sia da singoli appassionati di antichità che da gruppi criminali provenienti dall’entroterra etneo.

A partire dagli anni 1970, durante i quali iniziò un forte sfruttamento dell’area quale sedi di attività intensive di pascolo, la voracità di capre e pecore nei confronti delle foglie di gelso – preferite per il loro contenuto zuccherino – causò in pochi decenni tagli di fronde che furono determinanti nel fenomeno della rarefazione e scomparsa del bosco di gelsi che si estendeva tra parte della Pianura Chiusa e le ultime balze meridionali del Monte Belvedere (2). Soltanto in queste ultime, oggi resistono alcune decine di alberi, soprattutto laddove sono protetti da rocce e difesi da alti e fitti rovi a fusto di consistenza legnosa. Probabilmente allestito in età medievale, nel 1700 questo bosco occupava ancora dimensioni molto più ampie delle attuali, essendo legato oltre all’abbondante raccolta dei benefici frutti, al lucroso allevamento del baco da seta. I bozzoli venivano raccolti e lavorati sia a Fiumedinisi che nella frazione Allume di Roccalumera, per ottenere tessuti da commerciare o per confezionare parte della dote matrimoniale a carico delle famiglie delle spose.

Le recenti attività delle ruspe e quelle intensive e quindi desertificanti di allevamento, spazzarono via anche l’armoniosa bellezza dell’area della sorgente Acqua Rossa. Essa era situata lungo il percorso che collegava le miniere di allume (attive quantomeno sin dall’età romana) site ai margini dell’odierno borgo che da esse trae il nome, tramite un’antichissima mulattiera che giungeva al casale di Budicari dominato dal Palazzo Rosso, procedendo sino a quello dell’Acqua Rossa e da qui infine al casale della Pianura Chiusa (3)

Fatto ancor più grave, alla fine degli anni 1980, una nuova strada concepita in modo dissennato, distrusse la fonte di fattura normanno-sveva usata per l’approvvigionamento del Castello, posto a circa duecento metri in linea d’aria da questo, nell'antico e un tempo vastissimo castagneto che si estendeva nelle contrade Deni e Brunno. Presumo che il toponimo di quest’ultimo derivi da brunn, ovvero “fonte”, come ho potuto apprendere anni fa in quel di Tubinga, in territorio Svevo, quell’area della Germania Meridionale dove ancora oggi si parla un dialetto molto simile a quella che fu la lingua nativa degli Hohenstaufen, oggi incomprensibile ai Tedeschi centro-settentrionali. Nell’attuale lingua tedesca il termine indica anche un pozzo d'acqua potabile) (4)

 

Nel caso arrivasse un turista, di quelli abituati agli standard europei…

Per ritornare all’area del Monte Belvedere, nel corso degli ultimi cinquant’anni, quel che resisteva dell’antico sistema rurale è stato dapprima abbandonato per decenni al saccheggio e alla desertificazione e, negli ultimi tempi, sta iniziando a materializzarsi una nuova fase, creata all’ombra di una controversa concezione degli interventi di “riqualificazione” ritenuti necessari allo sviluppo rurale.

Certamente, non credo sia facile conciliare con le attività agrarie la creazione di quello che dovrebbe essere denominato “Piazzale del Cemento”, ovvero un intervento spurio, considerata la sacrale monumentalità e la millenaria armonia dei luoghi, oggi compromessa irreversibilmente. Una spianata cementificata, concepita quale area terminale di una chilometrica strada di penetrazione rurale, sterrata, stretta e tortuosa, con pendii spesso erti e curve pericolose in quanto totalmente priva di protezioni, aperta tra rocce e terreni spesso franosi e precipizi… Difatti, fu proprio a causa di queste carenze che anni fa vi furono due decessi, in un’auto precipitata nel vuoto.

In definitiva, dopo un percorso da incubo automobilistico, il turista in cerca di paesaggi naturali giunge innanzi alla sconcertante visione dell’imponente opera cementizia e inizia a farsi delle domande. Quale valore aggiunto vorrebbe rappresentare quel piazzale pacchiano, ottenuto ruspando e cementificando parte dell’area monumentale d’interesse naturalistico e culturale della sommità del Monte Belvedere? Perché aggiungere un’ulteriore deturpazione inserendo nell’opera un decoro geometrico non consono al patrimonio culturale del luogo? 

Poco dopo, il turista inizia legittimamente a preoccuparsi constatando che la porzione a sud-ovest del piazzale è posta presso un alto costone roccioso, orrendamente lesionato, e con fratture beanti che affatto rassicurano il viandante… Il pericolo sussiste anche lungo il sentiero che s’inerpica sino al maniero.

Last but not least, giunto all’interno del Castello Belvedere, il turista continuerà a constatare di essere in balia della sorte nel momento in cui si troverà a fotografare il muro interno del mastio, quello alto e gravemente lesionato dal quale, come in bella vista è possibile verificarne il risultato, si stacca talora qualche pietra o conglomerato murario. Il danno è da ritenere una delle conseguenze dei lavori di "riqualificazione" datati al 2005-2006 e di quelli attuali, entrambi eseguiti sia con mezzi meccanici che provocano prolungate scosse sussultorie e ondulatorie in quell’area geologicamente instabile, e sia con controversi interventi restauro eseguiti mediante consolidamenti e integrazioni murarie.  

Nell’allontanarsi in fretta dall’area, il malcapitato si chiederà: 1) come sia possibile che l’area non sia stata quantomeno dichiarata inagibile per il pericolo di crolli: 2) quali siano le vere finalità delle opere di “riqualificazione” finanziate nonostante la palese instabilità del sostrato roccioso ed essendo quindi almeno parte del monumento irrimediabilmente condannata a crolli e infine a franare lungo i pendii delle valli sottostanti. Un pericolo reale, forsanche disastroso, funesto e a breve, come accadrebbe nel caso nell’area si registrasse un evento sismico di particolare potenza distruttiva. 

Bisognerebbe forse iniziare a chiedersi, soprattutto nei meandri politici e tecnocratici della Regione Siciliana, cosa potrebbe accadere se un avventuroso gruppo di turisti tedeschi, si fosse recato in pellegrinaggio a visitare l'area e, nello sconcerto, avesse documentato la situazione con un video e molte foto dettagliate, divenendo testimoni come altri prima di loro, di uno della serie di episodi di una vicenda scabrosa che dura da un ventennio. E, se inviassero una circostanziata lettera a chi di competenza a Berlino e Bruxelles, e a quei media tedeschi non amanti della classe politica e burocratica italiana?

Ritenere di essere perennemente in grado di silenziare gli oppositori del sistema di potere dominante a livello regionale, corrompendoli con l'affidamento di lavori pagati con denari dello Stato o, nel caso degli irriducibili, distruggendoli con la consueta metodologia che inizia insinuando il discredito e che talora conduce alla morte sociale, questa volta in presenza di turisti stranieri tra l’altro qualificati, apparrebbe non soltanto maggiormente complicato del solito, ma anche rischioso per la stabilità interna dell'organizzazione (5).  

La presentazione di circostanziate interrogazioni in sede parlamentare europea ha raramente avuto effetti sui responsabili di simili vicende. Quel che invece preoccupa le lobbies sono gli effetti economici determinati dal danno d'immagine sul turismo a livello regionale, in questo caso l’affidabilità gestionale non soltanto della Regione Sicilia, ma anche delle capacità di controllo operato dalle preposte pubbliche Istituzioni della Repubblica Italiana e non ultime quelle dell’Unione Europea inerenti ai finanziamenti da essa concessi in prestito ai singoli Stati membri sulla base di garanzie.

Siamo difatti innanzi a una vicenda di un progetto concepito, accettato e attuato attraversando una quantità di uffici tecnici di istituzioni comunali, regionali, statali e infine dell’Unione Europea, senza che nessun politico, tecnocrate, burocrate, imprese private e liberi professionisti, per non parlare dei parrucconi universitari, delle associazioni in difesa dei beni culturali e ambientali, e dei giornalisti d’inchiesta, mettessero in evidenza che si tratta della stessa area monumentale sia naturale che culturale già oggetto di danni devastanti perpetuati già dal primo intervento operato negli anni 2005-2006. Adesso si è arrivato all’esecuzione di un progetto definito “riqualificante” ma che costituisce un pericolo sia per il sito che per la pubblica incolumità, che in modo sfacciatamente al limite del surreale, sta provocando danni irreparabili con fondi destinati all’armonico sviluppo di aree rurali depresse. Spingendo i responsabili a potersi ritenere talmente potenti da potere continuare anche questa volta a danneggiare gravemente e in modo ben prevedibile, persino un monumento medievale quale il Castello di Fiumedinisi, che fu di proprietà dei regnanti svevi del casato Hohenstaufen. Tenendo anche presente che la vicenda si collega a fatti e personaggi pubblici che nel corso degli ultimi vent’anni sono stati notoriamente al centro di indagini svolte dalla magistratura italiana e dall'Ufficio antifrode dell'Unione Europea.

Comunque vada, non si comprende come questo tipo d’investimenti pubblici possa essere di aiuto per un realistico sviluppo rurale del territorio che, effettivamente, avrebbe tanto bisogno di un valido piano programmato (quantomeno a livello provinciale) di ricostituzione delle antiche opere di terrazzamento delle pendici collinari, della messa in sicurezza delle strade di penetrazione agricola, della captazione e deflusso controllato delle acque piovane e sorgive in eccesso, e della ricostituzione delle antiche reti di canalizzazione e stoccaggio delle acque per uso irriguo e, contemporaneamente, di una programmazione della piantumazione di frutteti e aree boschive. E invece nulla di tutto questo, solo progetti che includono cementificazioni e altre attività che rievocano tristemente logiche di un sistema politico-clientelare che nella pratica fu appena scalfito da valide ma ormai vecchie indagini.

In una situazione sociale ed economica quale quella di Fiumedinisi, paese ridotto a circa 1300 abitanti, le attività di primario interesse rurale dovrebbero essere finanziate e completate prima ancora di quelle della filiera agro-turistica. Qualche centinaio o migliaio di turisti all’anno, di quelli con colazione a sacco, impietosamente soprannominati “mordi e fuggi” non possono essere considerati idonei a generare uno sviluppo sostenibile del turismo basato sulle filiere "culturale" e "paesaggistica-naturalistica". Tantomeno se associate ad attività condotte con deturpazioni, quali ne sono testimoni gli spianamenti creati da ruspe per far luogo a piazzali cementificati, e altre follie paesane, frutto delle profonde incapacità professionali della classe dirigenziale locale regionale che si accompagnano a quelle politiche.

 

Una tipica vicenda alla Siciliana

Quanto si sta perpetuando ai danni del patrimonio ambientale e culturale di Fiumedinisi è una delle conseguenze dell’inquietante cappa di omertà istituzionali che, da decenni, permette di silenziare gravi vicende perpetuate impunemente con denari pubblici. Si tratta di danni spesso irreparabili, avvenuti anche a causa della totale assenza di richieste del formale riconoscimento regionale di parti del territorio quali “aree archeologiche”, dell’emissione di vincoli di tutela paesaggistica, e di approfonditi studi geofisici per la determinazione del grado di instabilità strutturale dell’area sede del Castello Belvedere, lasciandolo in tal modo al deterioramento o, più recentemente, a restauri e scavi inadeguati.

I principali responsabili di questa surreale situazione sono personaggi ben noti, alcuni ancora ai vertici del sistema preposto dalla Regione Sicilia alla tutela, salvaguardia e valorizzazione di questo prezioso scrigno di beni pubblici.

Ribadisco il contenuto di quanto nel corso degli ultimi decenni ho reso partecipe, nella mia qualità professionale di naturalista e archeologo, anche tramite circonstanziati esposti. Alcuni di questi sono stati scritti assieme a numerosi colleghi stranieri, appartenenti a diverse università europee e nordamericane, e indirizzati alle Istituzioni di specifica competenza provinciale, regionale e nazionale e all’organismo anti-frode della Commissione Europea. 

Tra le molteplici iniziative svolte nel 2007, desidero ricordare quelle nell'ambito della riunione annuale dell'European Association of Archeologists (EAA), quell'anno tenuta presso l'Università  di Zadar (Croazia) dove venne da me indetta una sessione dedicata alle problematiche d'interesse criminologico nella provincia di Messina. Nel corso degli interventi, particolare attenzione venne dedicata alla lunga e circostanziata relazione della dott.ssa Katerina Ploska dell'Università di Cardiff. Facendo seguito alle prededenti relazioni di altri studiosi inerenti alle attività di dirigenti  archeologi a quel tempo operanti nella Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Messina, volle occuparsi degli aspetti legali (la studiosa possedeva anche una laurea in Giurisprudenza e un master in materia di protezione europea dei Beni Culturali) delle distruzioni operate a Fiumedinisi nel corso degli anni 2005-2006.   

Quel che sta accadendo a Fiumedinisi conferma, purtroppo, quanto negli ultimi anni avevo previsto e scritto in diversi articoli pubblicati in questo blog e in altri siti online. Appare oggi improcrastinabile, per evitare ulteriori episodi di devastazione del patrimonio pubblico, la necessità di riaprire le indagini archiviate, approfondendole anche sotto altri aspetti d’interesse criminologico, sino ad oggi mai affrontate, sull’operato di un gruppo di dirigenti regionali. Mi riferisco a quanto ad esempio già evidenziato dal Gruppo Investigazione Criminalità Organizzata (GICO) della Guardia di Finanza (Procedimento Penale n. 3037/03 RGNR Mod.21) e dall’European Commission – OLAF European Anti-Fraud Office (Case OF/2007/0022). Resta da valutare anche l’operato di alcuni elementi appartenenti ad altri apparati dello Stato.



Note

1 – Ne ho già scritto in questo blog, ma credo sia opportuno anche qui accennarne brevemente. Una dozzina di anni fa durante le mie ricerche per comprendere quel che stava accadendo alla mia vita professionale, iniziai a prendere atto dell’esistenza dapprima di quella che sembrava un’oscura scala di poteri della quale riscontravo spesso conferma in velati accenni contenuti entro consigli bonari e ammonimenti, talora affatto amichevoli, dispensatemi nel corso di conversazioni a vario titolo avute con politici di lunga carriera, avvocati, dirigenti pubblici, accademici e imprenditori di livello internazionale e, non ultimo, un noto monsignore che poco prima di lasciare frettolosamente l’Italia si rivelò prodigo di informazioni. Il quadro che ne uscì è quello di un sistema piramidale monolitico, che si ammanta di diritti autoreferenziali “aristocratici”, ovvero costituito da elementi privilegiati di vario grado, che si considerano “aristoi” ovvero “i migliori” della società, in grado di essere utili al conseguimento delle finalità che l’organizzazione decide di perseguire.

In quanto tali, nell’esplicare il loro operato non ammettono ingerenze esterne al monolite, e in caso di problemi si rivolgono per via gerarchica ai vertici locali della loro organizzazione affinché si discuta l’argomento, si conduca una indagine e, infine, eventualmente si reagisca attivando le contromisure di difesa comunicandole a livello locale e regionale, che a sua volta decide se informare anche i vertici nazionale, e questi quelli internazionali.

In particolari circostanze, il lavoro sporco generalmente eseguito da unità di affiliati distribuiti a livello provinciale o regionale, viene affidato a unità esterne, generalmente ditte di fiducia, mediante “contractors” che seguono protocolli prestabiliti, concernenti il come, dove e quando sia necessario intervenire, nella fase iniziale, neutralizzando l’attenzionato in uno stato di morte sociale. Si tratta quindi di una sorta di omicidio del personaggio, delle sue integrità carismatiche, quali moralità, professionalità, attendibilità. La prassi del protocollo, richiede una serie di episodi-gradino, stadi di sofferenza da percorrere verso la denigrazione e quindi la degradazione sociale (“il basso”). In questi casi, ogni stadio punitivo è sempre accompagnato da riferimenti simbolici di ambito esoterico impartite seguendo la regola detta “del contrappasso”, di dantesca memoria e interamente comprensibili solo agli alti gradi iniziatici.

Per quanto ai “profani” possano sembrare folli tesi “complottiste”, la finalità di questo trattamento è considerata primaria dal vertice del sistema, e implica la fede in antichissime concezioni di origine esoterico-religiosa. Tra queste vi sono le metodologie impiegate per la lenta estrazione della forza vitale che conduce all’annichilimento del condannato, sia in quanto privato di un potere che altrimenti (si ritiene) questi potrebbe trattenere e adoperare dopo la morte fisica, e sia in quanto questo potere può essere estratto e trasmesso per gli scambi di poteri tra diversi piani esistenziali, come ad esempio avviene nel corso dei rituali di offerta sacrificale. La continuazione del provvedimento in una eventuale seconda e ultima fase, a completamento della prima, può essere considerata quale l’apposizione del sigillo fatale a chiusura del procedimento.

2 – avendo valutato le prime avvisaglie della distruzione, iniziai a fotografarlo a partire dal 1973. Agli inizi dell’estate 1979 fu oggetto di un mio breve filmato.

3 –  della quale ricordo la mia prima visita da ragazzino in una mattina agli inizi dell’estate 1965. A quel tempo, innanzi ad essa vi era un antico piccolo spiazzo lastricato in pietra calcarea locale, levigata dal calpestio nei secoli, ed era come immersa nell’ombra di un’ampia copertura arborea di gelsi, fichi bianchi e un maestoso alloro. Secondo quanto appresi nel 1976, gli anziani della zona tramandavano che le foglie di questo alloro avessero particolari proprietà attenuanti i violenti dolori intestinali, che fosse noto già prima del soggiorno di Garibaldi nella zona, avvenuto nel 1860 e che il tronco sembrava avesse avuto la forza di divaricare la fessura della roccia nella quale la pianta era nata. Cito questi miei vecchi appunti in quanto credo sia interessante evidenziare come questa narrazione popolare mostri la fusione di due miti in chiave simbolica: alloro=eroe e viceversa.

A margine posso testimoniare che, sino alla fine degli anni 1960, il ricordo e la stima nei confronti di Giuseppe Garibaldi quale Eroe dei Due Mondi, erano ancora molto vividi negli anziani di quell’area della fascia costiera ionica del Messinese. Ne ricordavano le gesta tramite gli spettacoli dei cantastorie itineranti e i racconti pieni di particolari esagerati o aggiunti nell’arco di un secolo, della presenza dell’Eroe quale ospite nell’abitazione del Col. Interdonato, che fu uno dei suoi ufficiali nella spedizione dei Mille. Per l’occasione, il paese cambiò denominazione divenendo l’attuale Nizza di Sicilia, in omaggio alla città natale del Generale che, tuttavia, ottant’anni dopo (nel Secondo Dopoguerra) passò alla Francia assieme a tutta la splendida Savoia.

Nei pressi della fonte Acqua Rossa (denominazione probabilmente dovuta al colore dei depositi ferrosi un tempo lasciati sulla roccia calcarea con cui era costruita) esistevano antichi edifici rurali ancora abitati da anziane coppie di contadini, nel corso dei decenni sostituiti da alcune famiglie di pastori e mandrie di bestiame. Con l’apertura della strada sterrata Allume-Acqua Rossa-Fiumedinisi, negli anni 1970 vennero sradicati gli ultimi alberi rimasti e ruspata gran parte della pavimentazione a secco dello spiazzo innanzi alla fonte.  

A simboleggiare l’arrivo della modernità anche in quei luoghi, maldestramente cementificata, la parete rocciosa dalla quale l’acqua sgorgava divenne un misero muro a intonaco di cemento perfettamente liscio, dove l’acqua ancora oggi esce da un tubo di ferro sovrastato da una scritta incisa nel cemento fresco, per ricordare ai posteri il cognome del sindaco (Nottola) e la data. A fianco, un abbeveratoio di cemento per il bestiame, e a meno di due metri innanzi la strada sterrata,  polverosa in estate, fanghiglia in inverno. In seguito alle proteste per la scomparsa del piccolo frutteto che rappresentava un delizioso sollievo contro la calura estiva, ai lati della fonte si piantarono due alberelli del tutto estranei all’ambiente, due pini dei quali oggi ne rimane solo uno, una sorta di alieno che in quel paesaggio genera un misto di compassione e rabbia, in quanto unico sopravvissuto a ormai quasi mezzo secolo dalla distruzione dell’antico frutteto.

L’area è da molti decenni ormai divenuta un pascolo in via di desertificazione, e ha perso totalmente quella sua struggente armoniosa bellezza rurale, gli odori delle piante in quell’ombra salutare, il canto di numerosi uccelli che giungeva da ogni parte, al quale si accompagnava lo scroscio dell’acqua che cadeva su una lastra di pietra sulla quale gli abitanti del casale ponevano a riempirsi gli orci e le anfore da acqua (bummuli e quattare).

4 – Ne ho ancora vivo ricordo in quanto la frequentai innumerevoli volte, per dissetarmi e riempire la mia borraccia. Agli inizi degli anni 1970, il manufatto si conservava ancora in ottime condizioni, eccetto le antiche strutture site all’esterno, adoperate per la raccolta e la canalizzazione delle acque, delle quali restavano tracce perimetrali, in seguito anch’esse svanite quale conseguenza dei lavori operati dalla ruspa.

L’incantevole, semplice, essenziale, ma al contempo severa architettura medievale della fonte, immersa in un antico bosco di castagni, a quel tempo ancora ben curato. In estate, era un’autentico piacere inoltrarsi nella rinfrescante sua galleria della lunghezza di circa sei o sette metri. Era un camminamento in linea retta tra due pareti alte e strette, in parte escavate nella roccia e in parte erette a muro a secco, con piccoli blocchi di pietra, incastrati l’un l’altro sbozzandoli a scalpellina. La volta era realizzata a sesto acuto in stile normanno-svevo. In fondo, la galleria si concludeva innanzi a una parete rocciosa dalla quale sgorgava un’acqua dal sapore minerale, deliziosa, come in genere lo sono tutte quelle che scaturiscono da rocce metamorfiche con forte prevalenza filladica.

L’acqua doveva originariamente cadere entro una vasca in pietra, mancante da tempo immemorabile. Difatti, traboccando dalla vasca veniva raccolta entro una canaletta scolpita nella roccia, ancora esistente negli anni 1980 ed in parte ricoperta da muschio. Visto dall’esterno, l’accesso alla fonte si apriva in un alto muro a secco dell’antico terrazzamento che interessava l’intero castagneto, proteggendolo dall’erosione del suolo per effetto del dilavamento. Il muro a secco era qui stato eretto a ridosso di due affioramenti rocciosi e appariva quale una sorta di portale sensibilmente incavato di sbieco rispetto al fronte di terrazzamento, con vertice a sesto acuto ottenuto con lastre di pietra armoniosamente disposte di taglio.      

Da questa fonte si dipartiva una conduttura tipologicamente attribuibile al corso del tredicesimo secolo, costituita da coppi in terracotta di forma a U, ognuno della lunghezza di circa 40 centimetri. Erano stati ottenuti con stampi, presumibilmente lignei, e cotti in fornaci tramite lunghe tecniche di cottura graduata, sino a raggiungere un’alta temperatura, attorno ai 900-950°C, in modo da garantire una maggiore resistenza ad urti e tensioni. L’interno era stato impermeabilizzato da uno strato di vetrina diluita e vernice marrone-manganese, alcune delle quali decorate all’esterno con questa vernice, da una linea orizzontale sinuosa posta a simboleggiare l’acqua.

Gran parte del percorso iniziale della conduttura era stata distrutta dalle antiche frane, purtroppo ampie e profonde, che interessarono l’intero pendio sottostante alle mura occidentali del Castello sino alla Rocca Perciata. Riuscii tuttavia a localizzare la rimanente parte dell’acquedotto in una balza sottostante al Castello, seguendone le tracce sino a un’antica vasca, e da questa diramarsi infine verso le abitazioni site sulla Pianura Chiusa, all'inserzione dell'antica mulattiera che s'inerpicava sino alla sommità del Monte Belvedere. Era quindi ovvio che, quantomeno in età Sveva, le balze terrazzate che dal Castello si raccordavano con la Pianura Chiusa fossero state interamente fornite da un sistema di canalizzazione delle acque, al fine dell’utilizzo di una irrigazione differenziata a seconda delle esigenze stagionali e della varietà delle piante coltivate. Questo potrebbe significare che in quell’età il paesaggio intorno al Castello non era caratterizzato interamente da coltivazioni intensive quali frumento e vitigni, come sappiamo certamente avvenne in età moderna, ma probabilmente anche lussureggiante con giardini a frutteto o altro, che solo accurate indagini archeobotaniche potrebbero in parte rivelarne la presenza.

Desidero infine ricordare che parte del sentiero fiancheggiante questo acquedotto dalla Pianura Chiusa sino alla fonte sopra descritta, utilizzata per le necessità del Castello e delle abitazioni circostanti ad esso collegate in particolare quale contado, fu distrutto negli anni 1980 dall’instaurarsi di una fase di piccoli movimenti franosi e conseguenti approfondimenti da dilavamento, dalle conseguenze devastanti, successive alle modalità di apertura di una strada sterrata, oggi in parte spazzata via. Realizzata con ruspe di grandi dimensioni e automezzi da trasporto di materiali per la costruzione di tralicci dell’elettrodotto, ma pianificata sulla carta con la tipica arrogante incuranza burocratica di quel tempo, in linea retta, anziché rispettare le reali e fondamentali necessità di protezione del territorio. Basti dire che per effettuare queste opere, la società non necessitava richiedere autorizzazioni alle istituzioni di competenza. Si trattava di quel Piano Nazionale di elettrificazione delle contrade rurali, che anche in quest’area provocò ingenti danni all’antico sistema difensivo del suolo, rappresentato dalla millenaria rete di terrazzamenti e piantumazioni arboree opportunamente scelte.


Archaeological Centre-Villari Archive: pubblicazioni scientifiche

In questa sezione è presentata una selezione di pubblicazioni scientifiche di Pietro Villari (monografie, articoli editi da riviste speciali...