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La Tecnocrazia e il Sistema di Potere in Sicilia. Parte VII. L’emblematica vicenda del ritrovamento di alcune delle collezioni appartenute al barone Corrado Cafici (1856-1954).

Autore: Pietro Villari, 17 Marzo 2023. Tutti i diritti riservati.

Il presente articolo si compone di una parte iniziale, pubblicata un quarto di secolo addietro da “Grifone”, organo bimestrale dell’Ente Fauna Siciliana (1), inerenti al mio ritrovamento avvenuto in Sicilia nel 1997, della raccolta malacologica del barone Corrado Cafici. A questa segue l’inedita descrizione di mie ulteriori sue collezioni d’interesse antiquariale, costituite da antichità da egli rinvenute nella seconda metà dell’Ottocento o pervenutegli in eredità dal padre Vincenzo (morto nel 1906).  

Come prevedibile, la mia intraprendenza attirò anatemi e danni puntualmente elargitimi dal sistema di potere tecno-burocratico addetto alla tutela e valorizzazione dei beni culturali regionali della Regione Sicilia. Un apparato in grado di costituire uno dei presidi funzionali a finalità lobbistiche, politico-clientelari e massoniche, proprie del composito vertice del sistema di potere dominante nell’Isola.

Nella fattispecie, entrai nel mirino di quel tipico insieme di personaggi “alla siciliana”, dominati da invidie e gelosie che, grazie a relazioni con ambienti clientelari dove regna il mercanteggio del “do ut des”, vengono “sistemati” (ovvero inseriti nel Sistema statale) con funzioni direttive in apparati Statali e Regionali. Nel mio caso, generalmente si trattava di dirigenti o docenti collocati nelle Soprintendenze e Dipartimenti delle tre maggiori Università e delle Soprintendenze, presenti in Sicilia. Personaggi che a quel tempo - ma accade ancora oggi - aveva accettato la connivenza con il sistema dominante regionale.

Era quindi inevitabile che, innanzi a studiosi che avevano scelto la difficile vita della non connivenza, ovvero la libertà intellettuale, pagata con l’esclusione da incarichi professionali d’eccellenza, i burocrati di sistema finissero per confrontarsi con la propria coscienza innanzi alle costanti prove d’inadeguatezza alle mansioni direttive che, in modo infamante erano giunti a ricoprire.

Ne conseguì che, essendo state ritrovate da uno studioso bandito dal sistema dominante, a queste preziose raccolte fu riservato un tutt’altro che felice trattamento. Esse non furono acquisite al patrimonio della Regione Siciliana e tornarono nel dimenticatoio.

Totalmente opposto fu invece il trattamento riservato alle raccolte di Ippolito Cafici (fratello minore di Corrado), al quale recentemente è stato dedicato ampio risalto in ambito museale a Vizzini, ove gli eredi e i loro amici hanno tra l’altro ricordato i rapporti della famiglia con la massoneria nel corso del diciannovesimo secolo.

Sulla connotazione e durata di questi legami, tuttavia, possiedo informazioni contrastanti -provenienti dal nipote Corrado - per quanto concerne il pensiero del barone Corrado Cafici all’indomani del fallimento delle speranze del movimento separatista siciliano e, soprattutto, in seguito a quanto fu diretto testimone nei primi anni della Repubblica Italiana sino alla sua morte.

 

La ‘scoperta’, il restauro e la catalogazione della Collezione Malacologica dei Baroni Cafici” (da Grifone”, ottobre 1998).

Il recupero al patrimonio storico e scientifico nazionale della Collezione Malacologica dei Baroni Vincenzo e Corrado Cafici (padre e figlio), ha tutti gli elementi per essere tramandata quale una delle fortunate scoperte antiquarie di questo fine secolo.

Nel corso dell’Ottocento la sezione dedicata agli esemplari terrigeni era una delle più note tra gli studiosi europei, che la arricchirono inviando campioni da tutto il mondo. Così come avvenne per altre raccolte allestite da aristocratici siciliani, se ne perse traccia agli inizi del Novecento.

Nella primavera del 1997 fui invitato a prendere visione di una antica collezione malacologica custodita in una casa di campagna. A primo acchito, pensai alla solita piccola giovanile raccolta di conchiglie dimenticata per decenni in qualche cassa.

La scoperta

In verità avevo ben poca voglia di effettuare il sopralluogo, essendo particolarmente impegnato negli studi, ma pressato dalle insistenze di un amico finii per accettare. Così, solo quando fui presentato e mi si rivelò l’illustre nome del proprietario, lo collegai a quello dei fratelli Ippolito e Corrado Cafici, noti naturalisti e paletnologi, e al di loro padre Vincenzo.

Assieme al barone Corrado Cafici, nipote dell’omonimo studioso, ci recammo in una casa di campagna ove, in un antico magazzino giacevano due alte cassettiere lignee, contenenti conchiglie.

Gli accatastati arredi di altri tempi, la penombra e la coltre di polvere davano all’ambiente ed alla collezione un aspetto misterioso e affascinante.

Spinto dalla mia passione per le scienze naturali, mi diressi verso le cassettiere. Aprendole, mi si presentarono centinaia e centinaia di scatoline anticamente manufatte, all’interno delle quali erano riposte conchiglie accompagnate da cartigli.

Passai il pollice su alcuni cartigli ricoperti di polvere grigiastra, ed alla fioca luce mi si rivelarono in una bella calligrafia d’altri tempi, didascalie d’impronta scientifica ottocentesca. Assieme al nome della specie ed alla località di campionamento, erano stati annotati anche i nomi degli studiosi che avevano inviato questi esemplari. Sbalordito lessi i nomi e talora la loro stessa calligrafia, di quanti figuravano nel Gotha della malacologia europea dello scorso secolo. Avevo innanzi uno dei tesori della ricerca scientifica siciliana di cui si era perduta traccia: l’opera di alcuni dei più grandi naturalisti siciliani di tutti i tempi.

In una cassettiera erano custodite le specie marine, nell’altra quelle terrigene. La collezione sembrava ancora in buono stato di conservazione, ma necessitava di una urgente e decisa pulitura a secco, di qualche restauro, così come le cassettiere attaccate dal tarlo.

Il restauro e la catalogazione

L’intera collezione malacologica venne trasportata a Messina, ove potei espletare tutte le operazioni di pulitura e di restauro dei reperti, ma anche di catalogazione non essendo nota la lista degli esemplari e il loro numero.

La procedura impiegata è stata la seguente:

1) le scatoline, le conchiglie ed il cartiglio sono stati puliti a secco, ovvero con l’ausilio di spazzolini e tubicini inalanti aria compressa;

2) il contenuto di ogni cartiglio è stato trascritto in un elenco, annotando anche il numero degli esemplari contenuti in ogni scatolina;

3) le cassettiere sono state smontate e sottoposte ad un trattamento antitarlo, a semplici pulitura ed apposizione di una vernice protettiva.

Come si può constatare, l’intervento è stato condotto al fine di una pubblica fruizione della collezione nel suo stato originario, senza alterare l’insieme che costituisce un importante oggetto di studio della storia della malacologia siciliana ed in generale europea dello scorso secolo, nonché una base sulla quale operare futuri studi propriamente malacologici.

La collezione

Il numero degli esemplari contenuti nella collezione ammonta a poco meno di 24.000, dei quali oltre 15.000 custoditi nella cassettiera A (conchiglie marine), e circa 9.000 nella Cassettiera B (conchiglie terrigene). Quest’ultima di rilevante interesse scientifico per la presenza di specie rare ma anche perché ancora oggi rappresenta una delle poche grandi raccolte europee. Le conchiglie marine sono per lo più riferibili a specie mediterranee, ma è anche presente una sezione con specie esotiche. Le conchiglie terrigene appartengono in massima parte a specie italiane, pur essendo numerose quelle provenienti dall’Europa Centrale, dai Balcani, dall’Africa Settentrionale, e dai continenti asiatico e americano.

Lo studio dei cartigli ha rivelato l’esistenza di intensi rapporti di scambio di esemplari e di informazioni tra i Baroni Cafici (Vincenzo e Corrado) e i maggiori malacologi europei dell’Ottocento. Compaiono con frequenza i nomi di Westerlund, Tiberi, Aradas, Bourguignat, Lothellerie, Minà Palumbo, Zuccari, Blanc, Conomenos. I più assidui rapporti, probabilmente di profonda stima ed amicizia, sembrano essere intercorsi con il Marchese di Monterosato, la Marchesa Paulucci, il Capitano Adami ed il Cavalier Benoit. Quest’ultimo dedicò loro una specie scoperta in Sicilia, la Pomatias cafici.

Vincenzo, Corrado e Ippolito Cafici

Studioso attento, solidamente preparato quanto modesto, già nella prima metà dell’Ottocento Vincenzo Cafici (Catania, 1818-1906) si distingueva nelle scienze naturali ed antiquarie. Animato da una profonda passione, possedeva una vasta e aggiornata biblioteca ed intratteneva rapporti di amicizia con molti naturalisti italiani e francesi. Dopo il 1860 continuò l’attività politica a favore della Sicilia, per la quale nutriva sinceri sentimenti patriottici, e per ben cinque legislature fu eletto senatore del Regno. I figli Corrado e Ippolito, che talvolta seguivano il padre nei viaggi a Roma ed a Firenze, poterono anche usufruire delle sue amicizie per iniziare una fitta corrispondenza con il mondo accademico europeo, dal quale furono accolti riconoscendo in loro le stesse doti del padre.

È a Vincenzo Cafici che si devono l’impianto delle collezioni successivamente ampliate dai due figli Corrado (1856-1954) e Ippolito (1857-1947): paleontologica e geologica (in seguito donate al Museo di Geologia dell’Università di Catania), archeologica (in gran parte donata nel Dopoguerra nel corso degli anni 1940 e 1950 al Museo di Siracusa) e malacologica.

Il campo di maggiore applicazione di Vincenzo Cafici fu quello degli studi malacologici, approfondito dal figlio Corrado al quale si deve la scoperta di numerose specie terrigene, quali Unio sebetinus nel corso delle ricerche lungo il fiume Sebeto presso Napoli; Valvata monterosati presso il fiume Anapo e dedicata al Marchese di Monterosato; Helix egestanaH. himerensisH. silvestriH.ciofaloi nella Sicilia Occidentale; H. ophisella e H. licodiensis scoperte presso Licodia Eubea; H. palumboi dedicata al Minà Palumbo; H. benoiti dedicata al Benoit; H. praeclaraH. cactorumH. xerophilaH. melanterozonaH. vizziniensis westerlundi scopertta in Sicilia presso Vizzini e dedicata al Westerlund.

Esaminando la collezione malacologica, ciò che colpisce è l’assoluta mancanza di una sia pur blanda enfatizzazione dell’importanza delle proprie scoperte. Le scatoline contenenti queste specie non mostrano alcun particolare segno di distinzione e sono disperse tra le altre.

Dalla copia della lettera inviata da Corrado Cafici al Bourguignat nel febbraio del 1886, purtroppo l’unico scritto privato degli studiosi del quale disponiamo, traspaiono profonda e decisa competenza e grande passione, ma anche estrema modestia e semplicità, doti che, come il padre e il fratello, conservò tutta la vita e lo imposero tra i più noti studiosi italiani dell’epoca.

Non sappiamo cosa abbia spinto il Barone Corrado Cafici a sospendere gli studi malacologici alla fine dell’Ottocento (motivo per cui la collezione pervenutaci è “fossilizzata” a quel periodo della ricerca scientifica), forse la nascente passione per la ricerca paletnologica e per le scienze agrarie che lo accompagnarono sino alla morte. Lo stesso avvenne al fratello Ippolito. È molto probabile che l’amicizia e l’intensa frequentazione con l’archeologo Paolo Orsi, Soprintendente alle Antichità della Sicilia Orientale, influirono notevolmente nella decisione dei fratelli Cafici di rivolgere la loro competenza di naturalisti nel campo della ricerca paletnologica.

La solida preparazione raggiunta da Ippolito e Corrado Cafici in questa disciplina portò alla collaborazione con l’Orsi (che al fine di condurre approfondite analisi inviava loro l’industria litica rinvenuta nel corso delle sue esplorazioni) e sia con istituzioni scientifiche europee. Nel corso degli anni 1920, ad esempio, i due fratelli parteciparono alla redazione del monumentale Reallexicon der Vorgeschichte di Max Erbert.

Accanto alle produzioni scientifiche, i Cafici erano dediti ad altre attività poco o affatto note a causa della loro grande riservatezza: i dipinti, ad esempio meritano ed attendono approfonditi studi.

Le figure che oggi si impongono ai nostri occhi sono quelle di personalità complesse, straordinariamente eclettiche, appartenenti ai più insigni rappresentanti di quella colta e antica aristocrazia che illuminò la Sicilia dalla seconda metà del Settecento sino ai primi decenni del Novecento.

Se tutte le raccolte costituite dai Baroni Cafici, malacologica, paleontologica, geologica, paletnologica, ci fossero giunte nella loro originaria integrità, ovvero non fossero state donate a più istituzioni statali (dove, bisogna sottolinearlo, ebbero un trattamento quantomeno definibile di scarsa tutela e competenza museologica), la Sicilia avrebbe oggi un consono Museo regionale di Scienze Naturali.

Se la forza di un popolo risiede anche nella conoscenza e nella celebrazione delle proprie radici, di coloro che con passione e valore lo hanno rappresentato a livello internazionale, è allora tempo che la regione Siciliana riconosca i meriti dei Baroni Vincenzo, Corrado e Ippolito Cafici. Se nel passato una più o meno inconscia volontà politica iconoclasta ha condotto a dimenticare o a tentare di ridimensionare personalità di grande valore, forse in quanto appartenenti al più antico ceto aristocratico, è oggi doveroso e necessario rendere loro giustizia e quegli onori che già da molto tempo avrebbero dovuto essere stati celebrati.

 

Venticinque anni dopo. Alcune considerazioni e ricordi personali della scoperta delle collezioni malacologica e paletnologica di Corrado Cafici.

È trascorso un quarto di secolo da quando Corrado Cafici, nipote omonimo del noto naturalista e paletnologo, mi contattò telefonicamente a nome di un nostro comune conoscente romano, che gli aveva parlato delle mie avventurose attività scientifiche e degli inevitabili contrasti con personaggi delle soprintendenze e delle università siciliane. In famiglia, mi disse tra le prime frasi, avevano avuto le stesse esperienze. Al telefono mi rivelò solo il nome, che credetti corrispondesse al cognome (“Sono il Sig. Corrado…”), aggiungendo che in un magazzino seminterrato sito in una sua casa di campagna vi era una collezione di conchiglie di famiglia.

Detta così, la faccenda sembrava una perdita di tempo, ma essendovi di mezzo il personaggio che stimavo molto, accettai la richiesta e lo incontrai all’indomani mattina lungo la provinciale Catania-Siracusa, a una decina di chilometri dall’innesto della strada per Lentini, in un’area antistante a un ristorante (credo si chiamasse “Il Cavallino” o qualcosa del genere).

Ero giunto in perfetto orario, ma lo trovai già in attesa innanzi alla sua auto. Ebbi subito un’ottima sensazione, in quanto nell’aspetto e nel socializzare somigliava parecchio al mio carissimo amico messinese Franz Riccobono, la medesima eccellente cura dell’ètiquette, celebrata con naturale scioltezza. Classe 1920, era un ultrasettantenne gentiluomo italiano d’altri tempi. Sin dall’inizio il colloquio fu per entrambi autenticamente piacevole.

Mi convinse a lasciare in quel luogo la mia auto, appartenente a una serie ormai rara e ricercata dai collezionisti: “In questo parcheggio è al sicuro”, riassunse in modo da fugare ogni dubbio, da uomo appartenente a un ceto generalmente rispettato da “chiddi”, “quelli” del crimine organizzato siciliano. Mi fece accomodare nella sua auto d’epoca, una sorta di salotto full optional su quattro ruote. Mi disse che ci saremmo recati in una sua casa di campagna per dare un’occhiata alla collezione.

Era una di quelle splendide e frizzanti mattinate primaverili del Catanese. Parlammo del clima in Olanda, delle colture di agrumi appartenenti alla sua famiglia curate da generazioni di campieri, di auto da collezione, di abiti sartoriali, emissioni postali del Regno delle Due Sicilie (2) e non ricordo che altro, in fluido ecletticismo che mi ricordò moltissimo le discussioni quasi giornaliere con Edoardo Borzatti von Löwenstern, mio mentore nel corso degli anni del mio internato postspecializzazione svolto presso l’Istituto di Antropologia dell’Università di Firenze dal 1984 al 1988.  

Alla fine ci trovammo su una stretta strada sterrata che si snodava tra colline incolte e brulle, site nei pressi di Vizzini. Incominciavo a preoccuparmi, quando tutto a un tratto arrivammo innanzi a una splendida villa di campagna il cui aspetto attuale era probabilmente dovuto a aggiunte nel corso della fine dell’Ottocento e degli inizi del Novecento. Era stata costruita nei pressi di una sorgente, credo attivata mediante un pozzo artesiano, con alberi, arbusti e piante da fiori che le rendevano una grazia da Eden a torta scalinata, perimetrata da un basso muro di cinta al di fuori del quale era posta la casa del guardiano. Un luogo ideale per un ritiro spirituale, o per trascorrere la vecchiaia tra l’armonia della Natura e i ricordi più cari.

Corrado mi fece visitare l’interno della dimora, dove mi fu concesso di ammirare i dipinti eseguiti dal suo celebre avo omonimo. In particolare ve ne era uno che mi colpì per la sua straordinaria forza espressiva, un contadino in tipico costume siciliano colto in un momento di riposo o di attesa, appoggiato a un cardine dell’uscio di un’abitazione, lo sguardo intenso. L’uso del rosso pompeiano e il panneggio per alcuni elementi del vestiario era magistrale, da artista di notevole valenza. Spero che, assieme agli altri quadri, possa essere un giorno esposto al pubblico.

Visitammo anche il giardino, dove tra le centinaia di piante, sia decorative che da frutto, mi affascinò la presenza di notevoli gruppi di palmette nane siciliane e di un’araucaria altrettanto centenaria. Una serie di antiche viti innestate (mi fu specificato con particolare letizia) con varietà da tavola bianche, rosate e nere siciliane, delle Isole Eolie e del Napoletano, correva attorno alla casa e nel giardino ornandola di passaggi a tunnel.

Arrivammo infine innanzi al seminterrato. Il vetusto portone ligneo faticava ad aprirsi, e il barone dovette chiamare il guardiano per risolvere il problema, scardinandolo, sollevando così una coltre di polvere all’interno, come lenti vortici cinerei che riflettevano il fascio di luce solare che adesso cercava di penetrare l’ambiente. Dovemmo aspettare una quarantina di minuti il rideporsi della polvere, durante i quali il guardiano ci servì un rinfresco in giardino.

Quando fu tempo di entrare, il barone si accorse che nel corso degli ultimi decenni sul pavimento si era formato un fine deposito scuro di ceneri sabbiose, evidentemente provenienti dalle consuete fasi eruttive parossistiche dell’Etna. Nell’ampio magazzino erano ammassati polverosi materiali di altri tempi, tra i quali parti di un’antica carrozza laccata, mobili, scatoloni rosicchiati da roditori dai quali fuoriuscivano porcellane, vetri, lampade, casalinghi ottocenteschi o ancor più antichi, tende e drappeggi scoloriti, sfilacciati e tarmati, innumerevoli mazzette di lettere di condoglianze, bordate di nero e legate da nastrini viola, ammonticchiate a formare monticelli essendosi pressoché disfatto il sacco che li conteneva; sacchi di juta squartati dalla vecchiaia e dal peso del loro contenuto, essendo colmi di giocattoli in legno e metallici, bambole di porcellana di varia grandezza. Una di queste, caduta malamente, con la testa spaccatasi in posizione grottesca. L’insieme restituiva l’idea di una cripta familiare nobiliare di un tempo per sempre perduto, un inghiottitoio di oggetti appartenuti ai protagonisti di quella illustre casata, come se vi fossero stati riposti per seguirli nel viaggio nell’Aldilà.

Mentre il barone e il suo custode erano rimasti fuori, ero penetrato da solo in quell’ambiente affascinante e surreale e, lentamente ambientandomi a quella luce, nell’ammirazione e nello sconcerto ebbi la sensazione di non avere alcun desiderio di profanarlo. Poi indirizzai lo sguardo a sinistra della porta e vidi i due alti mobili con vetrina, che la voce del barone stava descrivendomi. Mi disse di aprirli, in quanto le vetrate superiori erano talmente incrostate di polvere da non potersi vedere l’interno. Girai la chiave arrugginita giacente nella toppa, e aprii con molta difficoltà e cautela, per non ferirmi con l’eventuale frantumazione del vetro: mi si presentarono basse cassettiere colme di antiche scatoline colorate recanti scritte e al cui interno erano riposte conchiglie.

In breve mi resi conto che le due cassettiere contenevano un’imponente collezione di conchiglie formata nella seconda metà dell’Ottocento, e “fossilizzatasi” in quello stadio della ricerca scientifica. Per me, che amavo profondamente le scienze naturali e in particolare la malacologia, fu una scoperta sorprendente e intensamente emozionante. Una fonte di pochi secondi di felicità estatica.

Avevo visto abbastanza e la polvere stava iniziando a provocarmi problemi alla respirazione. Feci per uscire all’aperto quando notai una terza cassettiera lignea, del tipo anticamente in uso nelle tipografie, la aprii nel caso vi fossero presenti ulteriori reperti malacologici. Fu un’ulteriore indescrivibile sorpresa: si trattava della mitica raccolta paletnologica, istituita nella seconda metà dell’Ottocento, con i materiali provenienti dagli scavi condotti da Corrado Cafici in diversi siti dell’Eneolitico iniziale del Catanese. Migliaia di strumenti litici e schegge di lavorazione, e infine la famosa raccolta d’età Eneolitica iniziale di punte di freccia in selce locale rinvenuta negli scavi svolti attorno al 1870 in località Santo Cono (presso Licodia Eubea), risalente a oltre cinquemila anni fa, ad oggi la più importante della Sicilia.

Uscii all’aperto con il cuore in gola per le scoperte effettuate. Mi limitai a dire al Cafici che non mi aspettavo quel che avevo visto, ovvero un importante patrimonio d’interesse storico-scientifico che meritava un’esposizione museale. Il barone mi sorrise soddisfatto e mi chiese di fermarmi a Catania per pranzare assieme in un locale di sua predilezione, dove avremmo potuto parlarne comodamente. Tornammo quindi al parcheggio sulla strada provinciale e lo segui con la mia auto a Catania, dove mi fece posteggiare nel suo garage privato.

Attovagliati in attesa del pranzo, preferii solo chiedergli se avesse una reale idea dell’importanza di quel che conteneva quel suo deposito di campagna. Mi disse che lo aveva sempre saputo in parte, e che adesso aveva bisogno di indagare su una serie di fatti - a suo avviso criminosi - avvenuti ai danni della sua famiglia e che asseriva perpetuati da due personaggi. Dapprima, da un noto funzionario a quei tempi al vertice della Soprintendenza siracusana e, anni dopo, da un docente dell’Istituto di Geologia dell’Università di Catania del quale non ricordava il nominativo.

Un suo esimio pari, residente nel Ragusano, gli aveva inviato copia della prima parte dell’indagine che avevo pubblicato sulla rivista “Grifone”, inerente alla controversa vicenda della collezione numismatica del barone Pennisi di Floristella, personaggi e vicenda che conosceva molto bene in quanto appartenenti all’aristocrazia siciliana. Aveva quindi chiesto a un investigatore privato di raccogliere informazioni circa le mie doti di affidabilità professionale, giungendo alla decisione di contattarmi tramite un mio conoscente.

Desiderava affidarmi non soltanto l’incarico di svolgere sia l’espertizzo delle collezioni malacologica e paletnologica, ma che nel contempo tentassi di mettere in luce una vicenda laddove i suoi investigatori finivano puntualmente per arenarsi. Un incarico, quest’ultimo, che svolsi tramite i rapporti personali sui quali a quel tempo potevo ancora segretamente riporre affidamento, sia nella Soprintendenza siracusana che nell’Assessorato Regionale ai Beni Culturali e Ambientali.

Si trattava di scoprire quanto era accaduto al contenuto di 37 casse lignee, zeppe di reperti archeologici di alto valore commerciale, consegnate in forma di donazione nel 1947 alla Soprintendenza alle Antichità per la Sicilia Orientale, sita a Siracusa, e sull’esistenza di un catalogo di quei reperti corredato da loro foto d’epoca.

Inoltre, era profondamente amareggiato del fatto che le sale dedicate ai fratelli Cafici nel Museo Archeologico di Siracusa (sino agli inizi del 1987 situato in Piazza Duomo), al momento del trasloco non erano state rinnovate nella nuova sede del Museo costruito nel parco di Villa Landolina (3).

Ciò era in contrasto con l’accordo raggiunto negli anni 1947 e 1955 tra la famiglia Cafici e la Soprintendenza siracusana, in quanto le donazioni erano state effettuate espressamente in cambio della loro esposizione entro le “Sale Cafici”, dedicate dal Museo Archeologico di Siracusa alla memoria dei due fratelli mecenati.

Obiettai che sarebbe stato altamente pericoloso, per entrambi, occuparsi di quella vicenda. Si trattava di un ambiente dove oltre a enormi interessi politico-clientelari, aleggiavano persino sospetti di coinvolgimento diretto in vicende zeppe di strane coincidenze. Non ultimo, un caso con aspetti surreali che mostrava legami con un “suicidio eccellente”, quello di un architetto svizzero in un wagon-lit Siracusa-Roma utilizzando due fucili da caccia puntati alla gola e poi riposti sul letto... Volli accennargli di quest’ultimo, avvenuto nel 1984 al tempo degli scavi nell’area del costruendo Santuario della Madonna delle Lacrime a Siracusa, ma mi accorsi che era perfettamente al corrente della vicenda, al punto di specificarmi alcuni dettagli. Questa discussione influì positivamente sui nostri rapporti di lavoro (4).

Nonostante la premessa, accettai volentieri la sua proposta. Ormai, la mia carriera di archeologo in Italia era stata distrutta da quegli stessi ambienti che avevano tradito la fiducia della famiglia di Corrado verso lo Stato Italiano. Anziché gettare alle spalle il mio passato di archeologo in Italia e di riconsiderare la possibilità di trasferirmi immediatamente, come anni prima programmato, dall’Olanda nella splendida Polinesia Francese (5), ritenni che sarei espatriato soltanto dopo avere fatto luce sulle attività siciliane dei miei detrattori, esponendole pubblicamente. A quel tempo, non avevo preso coscienza del fatto che la malvagità delle persone spregevoli si nutre anche dell’odio istigato nelle loro vittime, e che sono ben altre le difese non violente che riescono efficacemente ad allontanarle.

Il barone aveva previsto la mia risposta, ma non mi aspettai la frase “Allora… qua la mano. Da questo momento, sarei lieto se passassimo a un rapporto confidenziale”. Fu l’inizio di un’amicizia genuina, schietta e spesso divertente, stroncata anni dopo dal veloce aggravarsi di suoi gravi malanni senili e dal conseguente sopraggiungere della morte.

Nelle settimane successive, Corrado mi rivelò le tristi vicende alla base della dissoluzione delle collezioni private dei fratelli Cafici iniziata nella seconda metà degli anni 1940.  Dapprima per opera del Soprintendente alle Antichità della Sicilia Orientale, Luigi Bernabò Brea (6).  Questi aveva a quel tempo visionato le collezioni di Ippolito Cafici e lo aveva convinto nel 1946, l’anno antecedente alla morte, a donare (con lascito olografico tuttavia stilato nel 1947) la ricca collezione al Museo Paolo Orsi di Siracusa, cosa che puntualmente si realizzò nel 1948.    

Il fratello di Ippolito, il già ultranovantenne Corrado Cafici, facilitò in ogni modo il rispetto del volere del fratello, giungendo a permettere al Bernabò Brea di portar via tutta la collezione archeologica contenuta in ben 37 casse lignee. Stando a quanto mi assicurò il nipote Corrado, confidando nel Soprintendente, suo nonno non aveva richiesto alcuna catalogazione preliminare dei reperti, accettando che sarebbe stata effettuata come promesso dallo stesso Bernabò Brea, in tempi brevi negli uffici della Soprintendenza siracusana.

Le informazioni fornitemi da Corrado in quella primavera del 1997, mi furono preziose in quanto, a causa della stretta parentela e lunghi periodi di coabitazione, nel corso dei suoi primi trent’anni aveva avuto modo di conoscere molto bene le attività dei due fratelli Cafici. Era stato quindi diretto testimone del fatto che, dopo la morte dello zio Ippolito, alla famiglia Cafici non venne mai inviata nemmeno una semplice lista degli oggetti donati, né tantomeno le fotografie di questi. Eppure si trattava di un insieme che aveva un indubbio alto valore commerciale oltre che storico-artistico. Corrado mi assicurò la sua certezza che l’espertizzo del valore della donazione non fu mai espletato, anche perché i materiali non furono mai catalogati dalla Soprintendenza. E, se eventualmente lo furono in seguito, questo dovette avvenire senza che alla sua famiglia fosse stata inviata comunicazione. In ogni caso, l’attività della donazione era avvenuta senza che alla famiglia fosse stata data la possibilità di controllare eventuali mancanze.

È opportuno ricordare che una simile situazione si verificò in quei decenni anche per la Collezione numismatica dei baroni Pennisi di Floristella, vicenda alla quale recentemente in questo blog ho dedicato due articoli accompagnati da considerazioni, grazie anche all’aiuto a quel tempo fornito da Corrado a contestualizzarla anche tramite i ricordi e le documentazioni in possesso di altri aristocratici siciliani, ai quali venni da egli presentato (7).

Nel 1955, anno successivo alla morte di Corrado Cafici, il Bernabò Brea tornò alla carica con una informale richiesta agli eredi di donare sia la collezione paletnologica di questi e sia una decina di reperti preistorici e d’età greca appartenuti alla raccolta formata nel corso del 1800 dal padre, il barone  Vincenzo Cafici. Tuttavia, memori di quanto era accaduto otto anni addietro, in occasione della donazione della collezione di antichità archeologiche appartenuta a Ippolito, questa volta i Cafici si mossero con molta prudenza. Consegnarono solo alcune scatole contenenti strumenti litici provenienti da siti di età neolitica dell’area etnea, richiedendo la loro immediata catalogazione e valutazione valida ai fini fiscali. Ma essi non mancarono di rinnovare al Soprintendente Bernabò Brea la richiesta di avere finalmente consegnate, e in modo formale: il primo elenco dei reperti, la loro numerazione progressiva di accesso al museo, la completa catalogazione scientifica dei reperti pertinenti la collezione di antichità archeologiche donata da Ippolito Cafici. E, non ultimo di avere specificato il contenuto di ognuna delle 37 casse, le foto di ogni reperto e l’ammontare della valutazione di mercato nell’anno 1948, ai fini del recupero dei benefici fiscali.

Secondo quanto riferitomi con amarezza da Corrado Cafici nel 1997, il Soprintendente rispose solo con una missiva di ringraziamento, come era avvenuto nel caso della donazione della collezione di Ippolito Cafici. E mai ricevettero alcuna catalogazione e/o documentazione fotografica inerenti a questi materiali donati. Seguendo il destino della raccolta malacologica, anche quella paletnologica pertinente all’industria Eneolitica siciliana formata nella seconda metà dell’Ottocento da Corrado Cafici, finì nel dimenticatoio delle “stranezze” operate dall’Amministrazione Regionale siciliana (8).   

A quel tempo, la mia preoccupazione di studioso consisteva nel destino che sembrava essere riservato ad entrambe le due collezioni di Corrado Cafici, malacologica e paletnologica, che avevo appena scoperto. In particolare, temevo che finissero in una di quelle collezioni private, come era accaduto a molte altre collezioni siciliane Ottocentesche, dove prima o poi sarebbero state saccheggiate da mercanti locali che le avrebbero vendute a collezionisti e antiquari dell’Italia Settentrionale o d’Oltralpe, ricavando somme sostanziose (9).

Si trattava di collezioni appartenenti alla storia della ricerca scientifica e della formazione di collezioni antiquariali presso famiglie aristocratiche in Sicilia, che in tal modo le avevano salvate dall’espatrio. Avevo instaurato un buon rapporto con Corrado e la sua compagna, assieme alla quale riuscimmo a convincerlo di prendere contatti con l’Assessorato Regionale ai Beni Culturali e Ambientali e per l’Identità Siciliana e con la Soprintendenza ai BB.CC.AA. di Catania quale suo ufficio periferico di competenza territoriale.

Questa iniziativa era a mio avviso il primo passo fondamentale sia per rendere note allo Stato Italiano non soltanto la scoperta delle collezioni e la loro localizzazione, ma anche spingerlo a attivare le operazioni di tutela e di salvaguardia dell’insieme dei reperti, anche quale unicum d’interesse storico-scientifico. In particolare, la raccolta malacologica rappresentava un’importante testimonianza dell’elevato livello di preparazione nella ricerca scientifica malacologica raggiunto da Corrado Cafici nello studio dei molluschi polmonati, nell’arco temporale tra la seconda metà del diciannovesimo e gli inizi del ventesimo secolo, rimasto miracolosamente per così dire “fossilizzato” nelle condizioni espositive e descrittive tipiche di quel periodo.

Inoltre, in base alle vigenti leggi regionali siciliane, il possesso di collezioni d’interesse culturale contenenti reperti databili a oltre cinquant’anni, doveva essere comunicato formalmente all’Ufficio di competenza, sito a Palermo presso una struttura dell’Assessorato Regionale ai BB.CC.AA.

Per prevenire il verificarsi di quei problemi che la famiglia Cafici aveva patito a seguito delle donazioni effettuate negli anni Quaranta e Cinquanta, Corrado nella sua qualità di proprietario in linea ereditaria (ovvero tramite il padre Giuseppe Cafici, figlio di Corrado) delle collezioni in oggetto, decise su mio consiglio di trasmettere due separate lettere informative all’Assessorato e, per conoscenza, alla locale Soprintendenza (Catania).

Una era diretta all’Ufficio di competenza per le collezioni d’interesse naturalistico, accompagnandola dal fascicolo contenente la mia dettagliata catalogazione dei reperti, loro quantità e l’espertizzo del valore complessivo di mercato in quell’anno. La seconda missiva informava del possesso dei resti della collezione d’interesse paletnologico, la loro sommaria catalogazione e valore di mercato.

Per la stesura di queste missive chiesi consiglio al Generale Roberto Conforti, da alcuni anni trasferito al Comando della Brigata sito a Roma, al quale erano sottoposte tutte le sedi periferiche - regionali - dell’allora denominato Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Artistico (T.P.A.). A questi avevo riassunto la situazione e confidato i miei timori sul futuro di entrambe le raccolte. Così, il Barone Cafici alle sue comunicazioni alle Istituzioni regionali allegò anche i due miei espertizzi compilati su sua richiesta nella qualità di proprietario della ditta olandese Archeological Centre (10), specificando altresì la mia qualifica di laureato in scienze naturali con indirizzo geografico-archeologico, e di archeologo in possesso di diploma di specializzazione in preistoria, nonché di incaricato dell’espertizzo del valore di mercato di beni d’interesse archeologico e naturalistico.   

In seguito, Corrado Cafici mi disse che dopo aver inviato la lettera pertinente alla collezione malacologica, utilizzando come per le altre il servizio postale statale RR (raccomandata con ricevuta di ritorno), aveva aspettato invano risposta per oltre un anno. E questo nonostante avevo chiesto (su diretto suggerimento del Generale) a Sebastiano Tusa di interessarsi della vicenda (inviandogli tra l’altro copia del catalogo e della corrispondenza intrattenuta sia dal Cafici che da me con le istituzioni regionali). In quegli anni non avevo ancora iniziato a mettere in luce i rapporti intercorrenti tra il Conforti e i Tusa, padre e figlio.

Stanco di attendere anni, Corrado mi riferì telefonicamente di avere venduto la collezione malacologica ad un’antiquaria di Catania che lo frequentò nei suoi ultimi anni, della quale non volle confidarmi le generalità.

 

Il terzo ritrovamento: i resti della raccolta Vincenzo Cafici di vasi figurati d’età greca

In segno di amicizia, nella primavera del 1997 Corrado Cafici un giorno mi invitò a visitare l’imponente Palazzo Cafici costruito dai suoi avi nel centro di Catania, in via Sant’Eulipio con accesso principale al n. 54. La parte spettante a suo nonno Corrado era costituita da una tipica abitazione delle classe agiate catanesi del Settecento, occupante l’intero primo piano del palazzo, con una infinità di ampie stanze e saloni a soffitto alto. Sembrava essere stata abbandonata da decenni, ormai svuotata di gran parte dei beni mobili, eccetto che in un enorme salone dove una montagna di libri giacevano su un tavolone. In una stanza minore vi era un’antica scatola da scarpe da donna, contenente due file ben ordinate di missive affrancate, pertinenti a una periodica corrispondenza tra parenti che risaliva agli anni venti dello scorso secolo. In quel centinaio di lettere vi era il resoconto della vita quotidiana nella villa di campagna presso Vizzini.

In un’altra stanza, celati da un gruppo di assi lignee, trovai tre scatoloni di fattura più recente, all’interno dei quali rinvenni alcuni pregevoli reperti ceramici di età greca, avvolti in fogli ingialliti di giornali datati agli inizi degli anni Sessanta. Si trattava di un insieme di grande valore artistico e storico-archeologico, e chiesi a Corrado della loro provenienza.

Nel 1906, una preziosa raccolta di antichità appartenuta al bisnonno Vincenzo Cafici (Corrado non ricordava se posseduta per eredità o acquisti, ma certamente risalenti al corso dell’Ottocento), era pervenuta in eredità alla morte di questi, divisa in due quote disuguali, ai figli Corrado e Ippolito. La parte spettante a Ippolito fu in seguito donata con lascito testamentario allo Stato che ne prese possesso nel 1947. La parte ricevuta da Corrado, giunse nel 1954 in eredità al figlio Giuseppe e da questi in seguito al figlio Corrado (11).

Avvertii immediatamente il Generale Roberto Conforti al Comando Nucleo Carabinieri T.P.A. di Roma, con il quale alcuni mesi addietro avevo già parlato anche della programmata vendita all’asta in Svizzera di rare monete greche, un tempo appartenenti alla collezione del barone Pennisi di Floristella ed evidentemente trafugate di recente.

Al proposito della scoperta dei vasi d’età greca il Generale mi consigliò di attivarmi al più presto, al fine di favorire l’acquisizione dei reperti al patrimonio regionale, raccomandandomi di non rendere pubblica la notizia del ritrovamento. Avrebbe allertato del fatto la Soprintendenza di Catania tramite la sede regionale del T.P.A. in Sicilia, ma nel frattempo avrei dovuto chiedere al Cafici di inviare una missiva alle Istituzioni di competenza (Assessorato Regionale BB.CC.AA. e Soprintendenza ai BB.CC.AA. di Catania), corredata in allegato della mia descrizione del piccolo gruppo di reperti di età greca, dichiarandone il loro valore di mercato.

Circa una settimana dopo, Corrado mi informò che una funzionaria della Soprintendenza, avrebbe effettuato un sopralluogo nell’abitazione in cui era domiciliato, dove aveva preferito trasportare i reperti per tutelarli, dopo averne da me appreso il valore.

Il barone mi ritelefonò in Olanda qualche giorno prima del controllo. Era in preda all’agitazione, in quanto non aveva fiducia nello Stato. Qualcuno lo aveva convinto che alla Soprintendenza avrebbero ideato di tutto pur convincerlo a effettuare donazione, e che in caso contrario avrebbero paventato il loro sequestro cautelativo, ai fini della catalogazione e valutazione dei diritti di possesso privato. Lo rassicurai dicendogli che avrei preso un volo aereo per raggiungerlo a Catania, presenziando in qualità di esperto di parte, affiancando un suo parente avvocato nello svolgimento delle operazioni di constatazione di detenzione dei reperti.

La funzionaria mantenne un comportamento affabile, scattò foto di ogni reperto e compilò un verbale che fu firmato dai presenti. L’incontro durò alcune ore e fu interamente filmato dall’avvocato che ebbe anche cura di registrare le conversazioni, utilizzando una videocamera professionale.

Tempo dopo, come aveva previsto, il vertice della sezione archeologica della soprintendenza iniziò a telefonargli con una certa frequenza, chiedendogli il motivo della mancata dichiarazione di possesso dei reperti già nei decenni addietro e una quantità di informazioni che non lasciavano presagire niente di buono. Ritelefonai al Comando TPA per avvertire della situazione, che pur non avendo il potere di intervenire nell’immediato sulle attività della Soprintendenza catanese, sollecitò l’interesse del responsabile della sede regionale del T.P.A. a Palermo.

Convinsi il barone a permettermi di eseguire una serie di dettagliate foto dei reperti in oggetto, nonché il calco di un reperto in bronzo  di età greco arcaica per mie esigenze investigative delle quali era in parte al corrente. Ne feci riprodurre una copia che, assieme ad altre riproduzioni di reperti acquisite nell’Italia Centrale, costituì un prezioso aiuto nello svolgimento della mia ricerca scientifica nel mercato internazionale dell’antiquariato archeologico e delle falsificazioni, giungendo a inserirmi in particolari “ambienti” dove appresi anche di vicende accadute in Sicilia (12). Fu l’unica mossa produttiva nella mia collaborazione con Corrado Cafici.

Alla fine il Corrado decise giustamente di delegare tutte le attività all’avvocato di fiducia, avendo a suo dire avuto conferma da fonti affidabili, che in Soprintendenza iniziava a profilarsi l’ipotesi di procedere con un sequestro cautelativo delle collezioni. Subentrarono le amicizie politiche di grosso calibro, per intenderci quei personaggi che scelgono e riescono a imporre i nominativi dei soprintendenti e dei loro dirigenti di sezione, e ne determinano la nomina a ogni cambio di governo, e tutto finì nel dimenticatoio della farraginosa macchina burocratica isolana.

Non ho più avuto notizie di questa importante raccolta, contenente reperti tra i più belli e rappresentativi della produzione greca in Sicilia. Ne conservo con tristezza i negativi delle foto a colori, ormai sbiaditi dal tempo.

 

La raccolta Corrado Cafici di strumenti litici provenienti da Santo Cono di Licodia Eubea.

La collezione contenente l’industria litica, attribuita all’Eneolitico iniziale del Catanese, fu invece fortemente richiesta dal noto collezionista di antichità preistoriche siciliana, l’Avv. Primo Veneroso di Sciacca, nell’Agrigentino, al quale però Corrado rifiutò di cederla ritenendolo persona legata a ambienti indegni.

Avendo appreso dei miei rapporti con il barone Cafici, il Veneroso mi contattò per convincermi ad acquistarla personalmente con il fine di cedergliela in seguito. Al mio diniego giunse persino a farmi telefonare per ben due volte dal suo amico Sebastiano Tusa, archeologo, a quel tempo dirigente della Regione Siciliana con il grado di Soprintendente ai BB.CC.AA. Il Tusa si spinse a offrimi in cambio la stipula di un incarico di studio, ben retribuito, pertinente a una importante quantità di resti ossei di cervi databile agli inizi del V secolo a.C., rinvenuti nel corso di scavi in un deposito votivo dell’area detta della Malophoros sita nel parco archeologico di Selinunte (13).

In pratica, avrei potuto ricominciare a lavorare quale archeozoologo professionista nella Sicilia Occidentale, ma soltanto se mi fossi piegato ai meccanismi del “sistema” siciliano, dando prova di capacità di prodigarmi in una connivenza attiva e di alta affidabilità in situazioni a dir poco borderline. Profondamente disgustato, ne parlai immediatamente di persona con Corrado Cafici, che si commosse per la lealtà dimostratagli. Attraversai alcuni mesi di profonda depressione. Avrei voluto tornare a lavorare in Sicilia, dove le mie aspirazioni scientifiche ormai da un decennio erano puntualmente neutralizzate da quella realtà farcita da giochi di potere lobbistici, condotti da massoni e mafiosi siciliani e loro conniventi, che su tutto decidevano senza lasciare alcuno spazio a un cambiamento. Inoltre, più andavo avanti - per reazione - con le mie inchieste private per conoscere le verità e cercare così di difendermi, ovvero più pentoloni puzzolenti scoperchiavo, più si rafforzavano le attività di coloro che avevano interesse a screditarmi con maldicenze per crearmi il completo vuoto attorno.

Tornando a Corrado Cafici, questi mi chiamò alcuni giorni dopo, dicendomi che dopo essere stato contattato da un suo pari del Palermitano offertosi quale mediatore, aveva raggiunto un accordo propostogli dal Veneroso. Avrebbe rilasciato una dichiarazione scritta, autenticata presso un ufficio pubblico di Catania, nella quale garantiva di ricordare che i suoi celebri avi avevano avuto rapporti di scambio di reperti archeologici con il padre del Veneroso nel Dopoguerra. Il fatto era ritenuto vero dal Veneroso ma ignoto e quindi negato da Corrado, che tuttavia si trovava in una situazione di pressioni psicologiche che, numerose, gli pervenivano da personaggi potenti per spingerlo ad accettare le offerte del Veneroso. In particolare, mi confidò di avere paura per la salute dei suoi agrumeti e delle attività commerciali a essi legate. Così, Corrado gli inviò la dichiarazione per posta, poche righe rispetto a quanto “suggeritogli” in una minuta dal Veneroso, rifiutando ancora una volta d’incontrarlo.

Negli anni seguenti appresi che il documento aveva avuto molta importanza per l’Avv. Veneroso, che necessitava prove atte a legittimare il suo possesso d’importanti reperti d’interesse archeologico, anni addietro sequestratigli nel suo palazzo di Sciacca su ordine della magistratura agrigentina.

Oltre a inviargli il documento che il Veneroso, a suo dire, aveva di fatto estorto con le pressioni, Corrado gli comunicò per telefono che mi avrebbe ceduto la collezione come da questi richiestogli. Credendo che avessi accettato l’offerta del Tusa di cedergliela poco dopo, il Veneroso gli rispose che accettava le sue decisioni e che non avrebbe insistito oltre. 

Lo stesso Veneroso mi telefonò per avvertirmi degli sviluppi dell’operazione e per garantirmi che il Tusa avrebbe rispettato i patti: i miei problemi di lavoro in Sicilia sarebbero finiti con la mia compravendita della collezione paletnologica. A quel punto telefonai al Cafici e, senza specificare al telefono il motivo, gli chiesi d’incontrarci all’indomani nell’appartamento di sua residenza a Catania, a quel tempo sito in via G. D’Annunzio. Il motivo di tale precauzione risiedeva nel fatto che il Veneroso (già noto esponente della fratellanza massonica “giuridica”) aveva il potere di ottenere informazioni e contatti ovunque ne avesse il bisogno, persino presso importanti vertici di Istituzioni statali a Roma.  

Quando Corrado mi ragguagliò sul motivo della sua decisione, senza che ne fossi stato messo per tempo a conoscenza, volle anche rivelarmi quali fossero le sue finalità. Mi consegnò uno scatolone contenente estratti di pubblicazioni di paletnologia scritte dal nonno e una busta contenente appunti e missive da questi ricevute da noti studiosi italiani del periodo a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. La compagna, che era presente all’incontro, s’inserì nel dialogo dicendo commossa che era un dono per la mia biblioteca, e per il comportamento leale che le ricordava quello del fratello, deceduto prematuramente tempo addietro.

Mi rivelò che di recente avevano ricevuto diversi avvertimenti, con una tempistica che gettava gravi sospetti su quelle che definiva “le macchinazioni del Veneroso”, pervenuti da conoscenti che riferivano voci di una mia pessima reputazione in base a infamità che si rifiutò di riferirmi. Un esempio di come agisce la “macchina del fango”, risposi. Corrado replicò affettuosamente di non preoccuparmi e di focalizzare la mia attenzione sul fatto che aveva deciso di vendermi la collezione paletnologica al prezzo dieci volte inferiore a quello offertogli dal Veneroso.

L’operazione, pur lusingandomi per la fiducia, non mi attirava affatto. Cercando di non offendere la sua sensibilità, risposi che acquistando la collezione a prezzo così basso avrei attirato le ire sia del Veneroso che di Sebastiano Tusa, al quale questi era legato da antica amicizia. I due, evidentemente, rinnovavano i rapporti intercorsi molti anni addietro in quel di Selinunte, tra un ancora giovane Veneroso e il Soprintendente Vincenzo Tusa, padre di Sebastiano (14).  

Rifiutai di vendere la collezione all’Avv. Veneroso, cosa che venne da questi considerata un grave affronto e, come prima conseguenza, mai piu' ricevetti alcun incarico professionale dalle Istituzioni statali e regionali in Sicilia. Tuttavia, la vera “punizione” giunse una dozzina di anni dopo, quando rientrai in Sicilia per difendere l’ampia area archeologica di Monte Belvedere - Pianura Chiusa di Fiumedinisi, ove ha tra l’altro sede il Castello Svevo, ovvero le surreali devastazioni apportate tramite cementificazioni e sventramenti con ruspe da personale dirigente della locale Soprintendenza e da una ditta appaltatrice dei lavori banditi dalla locale amministrazione comunale, al tempo in cui sindaco era Cateno De Luca (15).

Alcuni anni addietro, fortemente sostenuta dai discendenti di Ippolito Cafici, il Comune di Vizzini volle istituire una sezione museale cittadina dedicata alle attività scientifiche e politiche degli esponenti di primo piano della famiglia Cafici nei secoli scorsi. Il tutto si svolse sotto l’occhio vigile della locale Soprintendenza.

L’inaugurazione fu affiancata da un convegno, del quale ebbi notizia mesi dopo da una giovane che si presentò quale collaboratrice di una testata giornalistica della provincia catanese. Mi chiese il motivo del mio silenzio sull’evento, avendo ricevuto da un collega la copia del mio articolo pubblicato da “Grifone” nel 1998 e incuriosita dal fatto che nel corso del convegno un archeologo le aveva fatto il mio nome, asserendo che custodivo una importante parte dell’archivio delle corrispondenze intrattenute da Corrado Cafici con paletnologi italiani e stranieri di quel periodo.

Non le chiesi chi le aveva fornito quel mio numero di cellulare, che cambiai il giorno stesso trattandosi di un numero riservato. Mi limitai a rispondere che vivendo in Olanda non ne avevo saputo nulla, e che ormai nutrivo scarso interesse alla vicenda. Inutile riferirle che Corrado Cafici, avendo un quarto di secolo addietro rifiutato di cooperare con la Soprintendenza di Catania, era stato probabilmente cancellato dalla lista dei personaggi da citare, includendo nel trattamento anche le sue collezioni. Ne risultò che la figura del suo avo omonimo passò in secondo piano rispetto a quella del fratello Ippolito, non saprei dire se per motivi familiari o per le limitate capacità dei curatori di quella mostra dei tesori paesani.

Come prevedibile, la giovane insistette sul tema dell’ingiustizia e dell’indignazione per creare una diatriba funzionale ai suoi fini giornalistici, secondo la consuetudine di mantenere la verginità professionale facendo carriera con il culo degli altri. Preferii quindi rispondere che ormai non avevo alcun contatto con gli ambienti delle soprintendenze e delle università siciliane, e che il compito di indagare ormai apparteneva solo ai giornalisti professionisti come lei.

Se ne guardò bene dal farlo. Avrebbe dovuto spiegare, ai lettori del suo giornale di provincia, com’è strutturato e come funziona il sistema del potere dominante che decide e controlla tutte le attività della società siciliana. Prima, però, avrebbe dovuto trovare il modo di addolcire il garante della testata, il quale solo a leggere le prime righe dell’articolo in condizioni normali si sarebbe imbestialito, dandole quantomeno dell’imbecille. Ma lei non era il tipo da suicidarsi professionalmente. Non per un ideale lontano anni luce dalla sua realtà, legata alla necessità di sopravvivere in quell’Isola dei Dannati. Una che sa stare al suo posto, senza versare notizie fuori dal vaso.

 

Note

1) Villari P., 31 ottobre 1998, La “scoperta”, il restauro e la catalogazione della Collezione Malacologica dei Baroni Cafici, Grifone, organo bimestrale dell’Ente Fauna Siciliana, anno VII, fasc.5 (35), pp. 2-3.  

2) Alcune settimane dopo, nel corso di una fiera filatelica tenutasi a Verona, scoprii dai Bolaffi di Torino che la collezione Cafici, iniziata dal bisnonno Vincenzo, godeva da lungo tempo fama nazionale.  

3) Colgo l’occasione per ricordare come l’operazione comportò uno scempio ambientale, in quella sua brutale consuetudine operativa che costituisce un monumento all’arroganza del cementificio politico-clientelare siciliano, compromettendo irrimediabilmente l’antica bellezza dei luoghi, come fosse una calcolata profanazione perpetuata da chi odia la manifestazione dell’armonia.

4) Mi riferisco al (controverso) suicidio dell’architetto Paul Ernest Auberson, al quale ho dedicato il diciannovesimo capitolo di un mio romanzo, inserendo anche alcuni cenni relativi a questa vicenda:

Villari P., (2006) 2013, L’Indagine Orfica. Terza edizione, Archaeological Centre ed., Olanda, pp. 1-324. ISBN 9789082069518 (Cap. 19, pp. 210-235).

5) Un aneddoto che dedico ai giovani costretti a emigrare, affinché riflettano sulla onnipresente possibilità del verificarsi d’imprevisti. Nel dicembre 1991, prima dell’aggravarsi delle condizioni di salute di Djellah van Walt van Praag, deliziosa compagna di viaggi avventurosi, avevamo programmato già nei dettagli di stabilirci in un’isoletta della Polinesia Francese.

Avevamo accettato l’offerta pervenutaci da una coppia di anziani suoi amici di famiglia, ai quali necessitavano partners affidabili per gestire le loro coltivazioni di vaniglia di qualità pregiata, iniziate decenni addietro per sostenere la comunità hippy della quale facevano parte, poi lentamente estintasi. Non avendo figli né parenti disponibili, sarebbero stati felici di accoglierci nella gestione delle attività e, con i lauti guadagni, di sostenere il nostro progressivo rilevamento della loro proprietà. Le informazioni che aveva raccolto il padre di Djellah, anziano ex ambasciatore olandese giramondo, erano entusiasmanti: un sogno da vivere in quella sorta di Blue Lagoon.

Tuttavia, ebbi il buon senso di comprendere che mi sarebbe stato impossibile godere quel Paradiso, se torturato dalla consapevolezza di avere lasciato alle spalle, impunite, le gravi infamie che avevo subito in quell’orrore sociale ancora chiamato Sicilia.

Fui fortunato a non impegnarmi finanziariamente in quell’attività. L’anno seguente Djellah iniziò ad avere gravi problemi di salute, scoprì di avere un cancro devastante, sopravvisse all’operazione, ma alla fine il male ritornò con voracità tale da ucciderla. Mi ammalai gravemente anch’io e persi ogni interesse per quel paradiso che si sarebbe trasformato in un inferno, in quanto l’isoletta polinesiana era piuttosto distante e a volte per giorni non raggiungibile dall’unico ospedale specializzato nell’area, sito nell’Isola di Tahiti.

La giovane olandese che divenne la mia nuova compagna, e i cinque figli che in seguito avemmo, non avrebbero sopportato a lungo i ritmi di una vita pressoché solitaria in quell’Eden primordiale. Il ricordo delle foto dell’Isola mostratemi nel 1992, quella bellezza struggente del paesaggio, l’essenzialità delle capanne e della vita scandita dalle fasi della Natura, torna talora ancor oggi a ospitare i miei sogni inquieti.  

6) per i miei rapporti intercorsi con Luigi Bernabò Brea rimando agli articoli:

Villari P., 26 ottobre 2022, Lipari anni 1980. Luigi Bernabò Brea e le offerte sacre del dio Eolo; la solitudine di Leonardo Sciascia nel Cinema Eolo. E altri aneddoti. Pubblicato in The Reporter’s Corner:

https://www.thereporterscorner.com/2022/10/lipari-anni-1980-luigi-bernabo-brea-e.html 

Villari P., 3 gennaio 2023, Fantasmi di processi mai nati. 3) Il dossier scomparso “Collezione numismatica Pennisi di Floristella”. Seconda parte: quando la Regione Siciliana sborsò oltre quattro miliardi di lire. Pubblicato in The Reporter’s Corner:

https://www.thereporterscorner.com/2023/01/fantasmi-di-processi-mai-nati-3-il.html

7) Villari P., 19 dicembre 2022, Fantasmi di processi mai nati. 2) Il dossier scomparso “Collezione numismatica Pennisi di Floristella”, Prima parte: il carteggio. in The Reporter’s Corner. In particolare leggasi il capitolo “Come giunsi a localizzare e effettuare lo studio del Carteggio Pennisi di Floristella”  (e quanto specificato in quella sede in nota 5).

https://www.thereporterscorner.it/2022/12/fantasmi-di-processi-mai-nati-2-il.html

Villari P., 3 gennaio 2023, Fantasmi di processi mai nati. 3) Il dossier scomparso “Collezione numismatica Pennisi di Floristella”. Seconda parte: quando la Regione Siciliana sborsò oltre quattro miliardi di lire. The Reporter’s Corner:

https://www.thereporterscorner.com/2023/01/fantasmi-di-processi-mai-nati-3-il.html

Gran parte dei preziosi contatti, copie di documenti e chiarimenti rilasciati in via confidenziale da personaggi siciliani a conoscenza della vicenda Pennisi di Floristella per la stesura degli articoli pubblicati nel 1998 e nel 2000, furono facilitati dall’appoggio fornito dal barone Corrado Cafici.

8) rimando a quanto ho già ampiamente espresso sull’argomento in molti articoli pubblicati da questo blog, tra i quali segnalo:

Strutture operative transnazionali e il network sopranazionale Deep States. Un criminilogo nell’Arca di Noah, (ex thereportersblog.com 30 luglio 2018, non più attivo) dal 18 giugno 2018 consultabile all’indirizzo:

https://thereporterscorner.com/2018/06/strutture-operative-trasnazionali-e-il.html

La Tecnocrazia e il Sistema di Potere siciliano, Parte IV. Come evitare un processo per associazione a delinquere e divenire la direttrice di uno dei più importanti parchi archeologici d’Europa(ex thereportersblog.com 13 agosto 2019, non più attivo) dal 19 Giugno 2020 trasferito all’indirizzo:

https://www.thereporterscorner.com/2019/08/la-tecnocrazia-e-il-sistema-di-potere.html

 La Tecnocrazia e il Sistema di Potere in Sicilia. Parte V: il festschrift, il “cerchio magico”, e la costruzione del mito dell’Intellighenzia tecnocratica, in The Reporter’s Corner, 12 agosto 2022.

https://thereporterscorner.com/2022/08/la-tecnocrazia-e-il-sistema-di-potere.html

9)  vicenda collezione numismatica dei baroni Pennisi di Floristella, op. citate in nota 7.

10) L’Archeological Centre nacque in Olanda con il preciso intento di fornirmi le credenziali necessarie al fine di svolgere, legalmente, tutte le attività inerenti alla raccolta diretta di informazioni negli ambienti del collezionismo e del commercio di antichità d’interesse archeologico. Particolare attenzione era da me dedicata alle attività che dalla Sicilia si diramavano a livello internazionale e viceversa, nonché alle vicende nelle quali apparivano personaggi appartenenti alle Soprintendenze, Musei e Istituti Universitari isolani e loro relazioni con personalità di spicco della società siciliana.

A distanza di 27 anni dalla fondazione dell’Archeological Centre, la maggior parte dei risultati non sono stati divulgati, alcuni anche per il motivo di essere stati da me comunicati alle Istituzioni statali di competenza giuridica, con le quali necessitava intrattenere rapporti nel caso di dati d’interesse criminologico nelle nazioni interessate. Le ricerche e gli studi effettuati sulle riproduzioni di ceramiche archeologiche prodotte in Italia, furono invece oggetto di due monografie pionieristiche pubblicate nel 2013 e 2014 (riferimenti bibliografici in nota 11). 

11) Secondo Corrado Cafici, il nome Giuseppe fu scelto dall’avo Vincenzo in onore di due personaggi dell’Ottocento ai quali era stato legato politicamente: Giuseppe Mazzini, che aveva frequentato da giovane condividendo gli ideali Risorgimentali, e Giuseppe Garibaldi con il quale aveva combattuto in Sicilia contro l'esercito Borbonico.

12) Si trattava di un manico di padella (pàtera) in bronzo del VI sec. a.C., recipiente che si presume legato a usi rituali svolti nell’ambito di cerimonie religiose. Foggiato nella pregevole figura di un kouros, era l’unico reperto archeologico che Corrado custodiva nel suo caveau casalingo. Portai il calco a Roma, presso uno specialista indicatomi al Comando, che eseguì una copia quasi perfetta, rifinita in base ai dettagli fotografati. Al suo interno fu però inserita, al momento della fusione con la tecnica della cera perduta, una minuta lastrina in acciaio recante un contrassegno moderno, in modo da rivelarla ad eventuali esami di laboratorio quali la XRF.  

Oltre che a Londra e ad Amsterdam, in seguito utilizzai con notevole successo questa riproduzione anche per entrare nel giro dei maggiori collezionisti della Sicilia Centrale e Occidentale, segnalatimi quali in stretto contatto con personaggi appartenenti alla piramide del potere dominante siciliano. Iniziai così ad apprendere preziosi particolari di vicende siciliane con risvolti nazionali e internazionali, e a compilare nominativi, loro relazioni d’affari e dirette osservazioni nel “mercato clandestino” svolto nelle provincie siciliane: una mole di dati che illuminò il campo delle mie conoscenze. Fu un peccato dovere cessare ogni attività quando ormai vicino a compilare l’organigramma, in quanto tradito dalle rivelazioni che arrivarono in Sicilia da Roma. Le mie attività furono rivelate nel corso di un processo tenuto in Sicilia per le attività di un noto mercante internazionale, ritenuto in rapporti con il vertice mafioso siciliano. Nel corso del processo un sottufficiale dei carabinieri rivelò l’esistenza di un mio rapporto inviatogli, concernente tra l’altro sospette attività e rapporti d’amicizia intrattenuti in quel di Selinunte da Sebastiano Tusa. In gergo militare una simile rivelazione è definita tecnica del fuoco amico, quella che vigliaccamente neutralizza la propria avanguardia colpendola alle spalle.

Come da accordi, la copia del kouros fu distrutta anni dopo, fusa nella stessa fonderia che l’aveva prodotta.

Nel 2006, parte di quel che avevo scoperto nel corso dell’esperienza di infiltrato in quell’ambiente, mi permise di scrivere e pubblicare la prima edizione del mio romanzo “L’Indagine Orfica - Le vie oscure dell’archeologia siciliana”. L’ultima edizione, datata al 2013, contiene gli  aggiornamenti di quella mia lunga ricerca nel settore delle contraffazioni archeologiche e della loro vendita quali originali nelle case d’asta internazionali e gallerie antiquarie.

Per le vicende legate alle repliche o imitazioni di vasetti di rari vasetti di vetro dell’antichità, invito il lettore a consultare su questo blog l’articolo (in lingua inglese):   

Villari P., Illusory manipulations and auction houses. The mechanism of transformation of modern imitations into precious antiquities. (ex thereportersblog.com8 Marzo 2019), trasferito in The Reporter’s Corner dal 19 giugno 2020

https://www.thereporterscorner.com/2019/03/illusory-manipulations-and-auction.html

Villari P., Egyptian style core-formed glass forgeries, white collar crimes and national treasures. How professional misconduct and misconstruction can compromise the authentication and appraisal process. (ex thereportersblog.com31 luglio 2018), trasferito in The Reporter’s Corner dal 18 giugno 2020

https://www.thereporterscorner.com/2020/06/egyptian-style-core-formed-glass.html

Villari P., 2014, Il vasetto di vetro dell’Antico Egitto venduto per 90.000 euro fatto in Italia per pochi spiccioli, pubblicato da Coscienze in Rete (non consultabile dal 2022):

http://coscienzeinrete.net/arte/item/1965-il-vasetto-di-vetro-dell-antico-egitto-venduto-per-90000-euro-fatto-in-italia-per-pochi-spiccioli

Dal

Per le contraffazioni archeologiche, rimando alle monografie:

Villari P., 2013, Guida alle recenti riproduzioni italiane di ceramiche archeologiche, vol.I, pp. 1-224, Archaeological Centre ed., Roma.

Villari P., 2014, Guida alle recenti riproduzioni italiane di ceramiche archeologiche, vol.II, pp. 1-378, Archaeological Centre ed., prima edizione stampata a Amsterdam; seconda edizione, dicembre 2014, Roma).

13) Ho avuto modo di conoscere a fondo questo personaggio nel corso di quasi quarant’anni, sin dagli scavi nella Grotta dell’Uzzo (in provincia di Trapani) nell’estate 1976, per motivi professionali o nel corso di varie indagini dove spesso saltava fuori il suo nome. Alla controversa figura dell’archeologo e massone Sebastiano Tusa, e a quella del padre, il Soprintendente Vincenzo Tusa, massone risultante negli elenchi della Loggia Propaganda 2 quale affiliato all’occhiello del Maestro Venerabile  Licio Gelli, ho dedicato diversi articoli in questo blog. Rimando il lettore ad alcuni di questi nel caso volesse approfondire le modalità di ascesa alla politica di un tipico rampollo della tecnocrazia siciliana:

Villari P., La Tecnocrazia e il Sistema di Potere siciliano... Parte III: la Destra neoliberista e i neo-Ronin della stegocrazia, (ex thereportersblog.com5 Giugno 2019), dal 19 Giugno 2020 trasferito in The Reporter’s Corner.  

https://www.thereporterscorner.com/2019/06/la-tecnocrazia-e-il-sistema-di-potere.html

Villari P., La Tecnocrazia e il Sistema di Potere siciliano... Parte II: nel nome del padre, del figlio e della Stegocrazia. (ex thereportersblog.com16 maggio 2019), dal 19 Giugno 2020 su The Reporter’s Corner.  

https://www.thereporterscorner.com/2020/06/la-tecnocrazia-e-il-sistema-di-potere_19.html

Villari P., La Tecnocrazia e il Sistema di Potere siciliano che attraverso la morte delle sue creature celebra sé stesso e si rigenera. Parte I: nozioni introduttive. (ex thereportersblog.com17 aprile 2019), dal 19 Giugno 2020 su The Reporter’s Corner  

https://www.thereporterscorner.com/2020/06/la-tecnocrazia-e-il-sistema-di-potere.html

14) La vicenda fu da me approfondita una decina di anni dopo, in gran parte raccontatami dall’Avv. Primo Veneroso in qualità di testimone dei fatti e corredata dai nominativi dei principali attori. La riassumo brevemente qui di seguito, in quanto penso costituisca un valido esempio per comprendere quali affari in Sicilia intercorrano a certi livelli del potere, e le squallide modalità con le quali vengono svolti.

Si trattava di una raccolta di vasi d’età greca, proveniente da vari siti della Sicilia Centro-Occidentale, quasi tutti provenienti da Selinunte, e in minore misura da Agrigento, Eraclea Minoa e Solunto. Le cronache “ufficiali” la riportano quale venduta a una banca siciliana negli anni 1950 da un ingegnere dell’Agrigentino, quale proveniente da antiche collezioni di famiglia. In realtà, era un insieme di piccole raccolte appartenenti a più collezionisti della Sicilia Occidentale, che l’avevano quasi interamente formata acquistandola a prezzi irrisori da tombaroli locali, in modo quindi illegale. Il soprintendente Vincenzo Tusa aveva fornito alla banca acquirente il proprio espertizzo, per il buon esito del quale i collezionisti gli avevano promesso un premio extra di cinque milioni di lire (la promessa rappresentava un accordo illegale, in quanto Tusa in quell’attività rappresentava l’esperto dell’Istituzione bancaria acquirente).

Tuttavia, la promessa fu tutt’altro che mantenuta: innanzi a altri collezionisti partecipanti all’operazione, al momento di riscuotere la somma, l’Ingegnere mostrò al Soprintendente la sua borsa vuota, pronunciando a voce alta e in modalità de rimprovero la frase “Io non la pago!”. La vicenda divenne talmente nota che circolò per decenni, riesumata a ogni convegno o conferenza al quale in soprintendente partecipasse in quella parte dell’Isola. A detta del Veneroso, i motivi di questo rifiuto scaturivano da un comportamento giudicato grave, al punto di sottoporre l’alto dirigente regionale a una plateale e umiliante punizione.

Il gruppo di collezionisti aveva tra l’altro avuto il potere di rendere disponile la banca a prestarsi a questa operazione criminale, camuffandola da opera mecenatica, finanziando tra l’altro gli scavi della ricca necropoli di Selinunte diretti da Vincenzo Tusa. Questi si spinse a impiegare una massa di tombaroli, facendo passare la sua decisione quale un’opera umanitaria, quale in parte effettivamente era.

Ma in Sicilia c’è  sempre un lato oscuro in queste operazioni. Tutti i testimoni da me interpellati concordavano sul fatto che, alla sera, gli operai concludevano il lavoro di scavo per iniziare quello di apertura di una parte delle tombe, prelevando il contenuto d’interesse antiquariale. I reperti venivano immediatamente venduti, sotto la supervisione di mafiosi locali, a collezionisti e mercanti mediante un’asta tenuta innanzi a ogni tomba. Questa prassi mi fu tra gli altri confermata, con l’aggiunta di particolari, anche dall’avvocato Primo Veneroso pochi anni prima della sua morte (avvenuta nel settembre 2014), specificando in qualità di testimone anche alcuni nominativi dei presenti. Appresi inoltre che, da giovane, il Veneroso era solito accompagnare l’Ingegnere quando si recava in auto anche in altre aree della Sicilia, dove acquistava antichità presso simili aste illegali o per sceglierli tra gli stock di reperti immagazzinati da mediatori, i quali svolgevano la loro attività grazie alle protezioni dei poteri locali.

15) Dapprima quale direttore di scavo preposto dall’Istituto Italiano di Archeologia Sperimentale e in seguito dalla University of South Florida, fui oggetto di un’operazione diretta a screditarmi e isolarmi (in termini mafiosi definito “mascariato”) non soltanto professionalmente, ma soprattutto al fine di impedirmi di testimoniare, rendendomi non credibile, nell’ambito di un processo nei confronti di una dirigente regionale accusata per associazione a delinquere. Il risultato fu che dalla fine del 2008 sino al 2010 (tempi burocratici) venni attenzionato da indagini preliminari svolte dalla magistratura, a causa di un verbale redatto con accuse pesantemente infamanti sul mio operato, che si palesarono sin dall’inizio totalmente infondate e quindi subito rigettate dal giudice delle indagini preliminari. Tuttavia, il risultato delle lungaggini ottenuto dai miei detrattori era stato raggiunto.

Cito l’episodio per indicare come questa metodologia viene disinvoltamente usata dal vertice del vero potere dominante in Sicilia, per eliminare (character assassination) chi cerca di contrastarne le attività affaristiche. La finalità primaria è quella d’infangare l’immagine pubblica e privata della vittima, in quanto è molto difficile scrollarsi di dosso narrazioni tossiche, rimanendo queste sempre almeno in parte incollate al destinatario. Il trattamento serve anche da monito, rivolto a quanti volessero emulare le contestazioni nei confronti del comportamento di personale dirigente delle Istituzioni dello Stato, qualsiasi siano la dimensione e le conseguenze per i crimini da questi eventualmente commessi.

Per le tecniche di “mascariamento”, rimando al mio articolo:

Villari P., 12 settembre 2018, Sicilia. Riflessioni sui recenti decessi di due dei migliori investigatori della polizia, in particolare leggasi il Cap. La stagione dei veleni del Parco dei Nebrodi, in The Reporter’s Blog (non più attivo), dal 18 giugno 2020 trasferito in The Reporter’s Corner, all’indirizzo:

https://www.thereporterscorner.com/2018/06/Sicilia-riflessioni-sui-recenti-decessi.html

  

Archaeological Centre-Villari Archive: pubblicazioni scientifiche

In questa sezione è presentata una selezione di pubblicazioni scientifiche di Pietro Villari (monografie, articoli editi da riviste speciali...