di Pietro Villari, 1993 e 2023. Tutti i diritti riservati.
Postato il 2 Maggio 2023 da thereporterscorner.com,
contiene anche un capitolo di un mio articolo edito dal quotidiano “La Sicilia”
l’8 aprile 1993.
Agli inizi dell’aprile 1993 il quotidiano “La Sicilia” dedicò
l’intera pagina “Cultura e Società. Le Scienze” a un una lunga e composita
relazione divulgativa, commissionatami dalla redazione alcuni mesi addietro.
Era costituita da più articoli che trattavano la preistoria dell’Isola di
Pasqua (1) e le esplorazioni archeologiche che avevo svolto
nei mesi di ottobre e novembre 1991, in una porzione dell’area settentrionale
ritenuta territorio sacro dalla tradizione. Vi ero
giunto dopo avere partecipato a una dura campagna di scavi in un
recinto sacrificale della Gran Piramide di Nazca, sita nel deserto costiero
peruviano, trasferendomi quindi a Santiago de Chile richiesto in qualità di
archeozoologo e stratigrafo al seguito di una spedizione Italo-Cilena
finanziata da privati. Tuttavia, poco prima di partire per l’isola, il governo
cileno decise di affidarmi gli incarichi scientifici in forma diretta e
riservata, attraverso un permesso che mi dava ampia libertà di condurre
nell’isola attività scientifiche in campo zoologico (e quindi anche
archeozoologiche), per conto del Museo Nacional de Historia Natural e al fine
di ingrandire le sue collezioni (2).
Per me quell’articolo, da stilare per conto di un quotidiano italiano, era
solo un tedioso modo di ottenere una discreta somma di denaro per pagare una
vita a quel tempo condotta da uomo libero e assetato di conoscenza, o meglio di
esplorazioni, viaggi e belle donne. Non pensavo che trent’anni dopo sarebbe
divenuto un documento d’interesse storico-etnografico di una remota comunità in
corso di fagocitazione, mascherata dall’ormai onnipresente “economia da
turismo sostenibile” da parte dello sfruttamento globale liberista.
La redazione de “La Sicilia” lo titolò a tutta pagina “I
giganti dell’Isola di Pasqua” (con odioso sottotitolo ammiccante
all’orgoglio siculo: “Appunti di viaggio di un archeologo
siciliano nella Polinesia orientale”). Ottenni un ampio successo di
lettori, avendo il giornale ricevuto una quantità di lettere e telefonate
positive, dai contenuti i più disparati. Mi fu quindi proposto di essere
inserito tra i collaboratori esteri del giornale, con l’incarico di scrivere a
pagamento ulteriori resoconti dei miei viaggi in terre esotiche. Dovevo fare
sognare i lettori, viaggiando con me all’avventura in una vita totalmente
altra (3).
Questo, mi si disse a promessa quasi fosse la chiave della porta di un
paradiso, avrebbe in alcuni anni fruttato anche il diritto di ottenere
l’iscrizione all’albo nazionale dei giornalisti. I denari li presi in quanto
ritenevo averli meritati, e dato che a quel tempo ero costantemente a tasche
vuote. Ma l’iscrizione all’Albo fu una “opportunità” che non volli sfruttare.
Desideravo rimanere libero di scrivere quel che volevo, senza vincoli di “etica
professionale” e altri simili lacci imposti dal sistema dominante,
consapevole che prima o poi avrebbero colto l’occasione per screditarmi,
radiandomi dalla congrega con le solite motivazioni di regime.
La mia risposta non fu presa bene, ma continuai per qualche tempo a
pubblicare articoli su vari quotidiani finché, come previsto, alcuni anni dopo
giunse ordine di chiudermi le porte di quelle testate giornalistiche di
sistema. Per meglio intenderci, quelle che ricevono i milionari fondi
assistenziali che lo Stato Italiano elargisce annualmente a sostegno dell’Informazione,
legandoli a sé. Continuai a pubblicare soltanto con il bimestrale Grifone sino
ai primi anni del nuovo millennio.
Sorto dal nulla l’anno addietro al mio arrivo, grazie a una cospicua
donazione di uno statunitense che inviò tutto quel che serviva per la
realizzazione al suo interno, sino alla prima decade del corrente secolo il
Toroko rimase uno degli ultimi esempi di discoteca fossilizzata agli standard
nordamericani della seconda metà degli anni 1980, con la particolarità di
essere frequentata da famiglie appartenenti alla comunità indigena. Questa sua
tipicità permetteva di conoscere gli usi e costumi pascuensi
intrattenendo brevi discussioni con la gente locale, desiderosa di parlare con
estranei o stando semplicemente seduti a un tavolino a osservare le usanze
presenti nelle relazioni sociali dei nativi. I turisti appartenenti alle classi
agiate che giungevano nell’isola preferivano un’altra discoteca, il Piriti, un
bel locale sito nei pressi dell’aeroporto, ben più costoso e con tutti i
confort richiesti nello standard occidentale.
Entrambe le discoteche sono sopravvissute. L’attività notturna inizia
all’una di notte, ed è possibile danzare sino alle cinque di mattina, al ritmo
delle moderne musiche polinesiane alternate da quelle sudamericane.
Quando una notte, accompagnato da gente locale, giunsi a cavallo innanzi a
quella che mi era stata definita quale la discoteca dell’Isola di Pasqua, il
Toroko, rimasi piuttosto perplesso in quanto esternamente sembrava la modesta
abitazione di una fazenda amazônica, interamente costruita con
impalco ligneo, priva di finestre, il tetto costituito da lastre in lamiera
ondulata. All’esterno vi era una serie di cavalli con le redini legate a una
staccionata, e una fila di ubriachi dormenti con le spalle al muro, le
bottiglie in mano e il cappello da mandriano calato a coprire parte del viso.
Appena varcata la soglia credetti di essere entrato fisicamente in una sorta di
miraggio surreale: su quello scoglio vulcanico, isolato nel mezzo dell’Oceano
Pacifico, esisteva una discoteca high tech d’avanguardia
munita di una imponente quantità di dischi degli anni 1980 e una buona scelta
di quelli del decennio addietro. Le pareti erano insonorizzate da imbottitura,
vi erano robuste sedie e tavolini in stile anni 1960 (capaci di reggere le
peggiori risse da saloon) e in un magazzino sul retro troneggiava
un proprio generatore di corrente elettrica.
Lascio la descrizione all’articolo che pubblicai nel 1993, qui riprodotto
nella versione originale, ovvero non tagliata dalla redazione per motivi di
spazio. Il terzo e ultimo mio articolo concernente l’Isola di Pasqua seguirà a
breve, è dedicato ai grandi cambiamenti operati nell’Isola in questi ultimi
trent’anni e alla inevitabile insorgenza di problematiche sociali e ambientali,
legate all’industria turistica, divenuta l’asse trainante dell’economia
isolana, all’inquinamento marino, all’innalzamento del livello dei mari e alla
diffusione di malattie epidemiche.
Da “La Sicilia”, 1993. Il Toroko, discoteca dell’Isola di Pasqua.
Isola di Pasqua, novembre 1991. Il cavallo è l’unico mezzo rapido per
arrivare al villaggio di Hanga Roa dai lontani sentieri della costa nord. Due
ore al passo, al trotto, al galoppo, su e giù per distese ora rocciose ora
erbose. Un manto argentato dalla luna piena.
È quasi mezzanotte quando annodo le briglie al grande palo innanzi
all’attuale tempio pascuense della musica, il Toroko.
L’immagine è quella di ogni fine settimana: una già lunga fila di ubriachi,
fradici di ogni sorta di alcolici & Cola (4). I buttafuori del
locale li hanno diligentemente disposti con le spalle addossate alla parete del
porticato, come a sorreggere l’edificio. La penombra e la polvere alzata dal
vento li rende cariatidi dormienti, il volto disperato dai problemi esistenziali
dei paria polinesiani. Il resto è musica che sembra lontana anni luce, quasi
provenisse da un’altra dimensione. L’odore del mare abbondantemente asperso
dalle alte onde che s’infrangono sul molo antistante.
Pongo una coperta sulla groppa del mio buon cavallo, affittato per una
manciata di dollari al mese, e salgo i gradini di legno verso quello che qui è
il paradiso della perdizione.
Lo è anche per me che vivo da settimane accampato nella landa deserta di
Puna Marengo, per meglio svolgere le mie attività di archeologo. Non si può
vivere senza musica, o forse ancora necessito di una razione di suoni e
movimenti frenetici del mondo mai abbastanza lontano al quale culturalmente
appartengo.
All’interno, il Toroko (termine Pascuense per “erba da
pascolo”) si prospetta poco rassicurante, sorta di saloon polinesiano
ove si spacciano alcolici e tabacchi a bassi prezzi da supermercato. L’entrata
è gratuita, l’impianto è di qualità, lauto dono di un americano eccentrico, o
piuttosto, annoiato.
A quest’ora il locale comincia a popolarsi di giovani, meno giovani e
anziani. Si dispongono ai tavoli come fossero posti assegnati da un teatro agli
abbonati o dall’esercito ai militari in trincea, ognuno nell’area destinata al
proprio clan familiare, al quale possono accedere gli amici appartenenti a
altri clan, se gli è consentito. Posso così immaginare come anticamente l’Isola
fosse divisa in tribù che popolavano aree diverse e si facevano una guerra
feroce, concettualmente simile a quella delle “faide” nell’Italia Meridionale.
Le ostilità sono cessate da tempo, ma le suddivisioni ed i mugugni
sopravvivono nonostante le decimazioni dovute alle pestilenze ed alle
nefandezze dei colonizzatori di turno.
Il giusto fragore ritmato della musica (occidentale, sudamericana,
polinesiana) consacra gli odori del pisco e del fumo equivoco
(dal quale l’appellativo del locale), che aleggia nella grande sala e nel
cesso, avvolgendo uomini e donne. Alcuni ballano da soli brilli nella loro
solitudine di una anzianità senza clemenza. Avvolge le coppie di freschi sposi,
o promessi, o di compagni occasionali, che si amano anche sulla pista senza
farsi troppi problemi. Esorcizzando il domani. E su tutto impera la moda tutta pascuense di
vestire e della gestualità tipica dei giovani dai diciotto ai sessant’anni.
Lunghi e crespi capelli e barbe, corpi abbronzati e tatuati, camicie
sbottonate, orecchini, stivali. Costruzioni a metà tra il clochard giramondo ed
il filibustiere d’altri tempi, innanzi ai quali le immancabili cacciatrici
occidentali di uomini-oggetto capitolano senza scampo, per qualche settimana di
frenesie da narrare alle amiche o, da anziane reprobe alle cresciute nipotine.
Più semplici le donne polinesiane. Altrettanto autentiche nella loro da
secoli conclamata femminilità esotica, spesso impietosamente brutte, talvolta
bellissime e irresistibili sirene. La loro gestualità è affascinante,
leggiadra. Sapore-odore di membra sode e vellutate, di onde spumeggianti e
fiori di tiarè.
Molte donne rifiutano il matrimonio, non desiderano padroni, ma si
circondano ugualmente di figli avuti con più uomini che, in tal modo, sono
vincolati a proteggerle da violenze. Quelle maritate o fidanzate sono
controllate da uomini spesso follemente gelosi, ben consapevoli della
predisposizione delle loro amate, delle loro straordinarie attitudini
passionali.
Agli uomini piace liberare la propria aggressività, esprimendola in
possanza. I più sono pescatori avvezzi ai pericoli del mare sempre ostile, che
sfidano giornalmente con le loro barchette. Sanno che nessuno potrà o vorrà
soccorrerli quando, a centinaia o migliaia di chilometri dalla loro sperduta
isola, le gigantesche onde del Pacifico potrebbero inghiottirli. O quando, a
caccia subacquea di aragoste, dovessero incontrare il feroce ed immenso
squalo-tigre.
Qualcuno è reduce dall’Europa, lontana terra mitizzata, dove ha lasciato
una famiglia formata per spirito di avventura: “ Non potevo vivere con
quella gente. Non sono una macchina. I miei avi erano guerrieri…”, mi
recita Pitaki, una sorta di maturo pirata-selvaggio con undici anni trascorsi
in Germania, un tempo esportato da una bionda walkiria, ovvero con moglie e
figli da dimenticare. Vive, come altri, con il proprio cavallo lungo le
praterie della costa nord (i territori sacri), dormendo nelle grotte. Talvolta
con la straniera di passa. Pescatore subacqueo, guida turistica, raccoglitore
di conchiglie in Polinesia… occorre poco denaro per vivere alla giornata (5).
Le quattro del mattino, domani è festivo. Il paradiso chiude le porte, e
sono tra i superstiti. Mangiamo una buona razione di pesce crudo seduti in
circolo tra le rocce del molo, offerto da chi nella notte ha pescato. Monto a
cavallo e mi avvio sul sentiero di nord-ovest, mi fermerò a dormire alcune ore
al riparo di uno sperone di roccia in una valletta poco distante dal villaggio,
avvolgo nella calda coperta già prestata al mio cavallo. Un ultimo sguardo al
cielo stellato.
Note (inserite il 2 Maggio 2023)
1) anche in questo secondo articolo dedicato a quest’isola, continuo
a usare i termini Pascuense e Isla de Pascua (e sue traduzioni in altre lingue
quali Isola di Pasqua in Italiano, e Easter Island in lingua Inglese) per
esigenze di coerenza letteraria, in quanto sino a trent’anni orsono ancora di
prevalente uso in ambito internazionale. Detto questo, non posso esimermi dal
concordare sul fatto che oggi il governo cileno a cui appartiene l’Isola, abbia
iniziato a usare la denominazione di origine Tahitiana, preferita da nativi:
Rapa Nui, e che la sua lingua sia definita Rapanui.
Si tratta di un dialetto polinesiano nel quale i linguisti hanno
identificato peculiari affinità con il Maori e il Tahitiano, che a causa di
periodi plurisecolari d’isolamento della popolazione isolana, ha creato
modificazioni e nuove terminologie sino a renderlo molto più simile a una vera
e propria lingua diffusa solo in quest’Isola. Gli abitanti di discendenza
indigena sono molto legati ad essa quale la maggiore delle ataviche e
distintive testimonianze culturali sopravvissute nell’isola.
2) per quanto concerne la definizione del mio incarico e il rapporto con le
Istituzioni cilene rimando alle note 2 e 11 dell’articolo: Villari P., 7 aprile
2023, Isola di Pasqua (Cile), 1991. Testimonianza di fenomenologia
N.O.E. (not ordinary experiences) vissuta nel corso degli scavi
archeologici condotti a Puna Marengo, The Reporter’s Corner,
disponibile online all’indirizzo https://thereporterscorner.com/2023/04/isola-di-pasqua-cile-1991-testimonianza.html
La versione in lingua Inglese è stata pubblicata il 10 aprile 2023:
https://thereporterscorner.com/2023/04/easter-island-chile-1991-not-ordinary.html
Per le mie attività svolte nell’Isola: Villari P., Saggio di scavo
nell’area di un “hare moa” sito in località Puna Marengo (Isla de
Pasqua, Chile), Ultramarina Occasional Papers, Number 3 (November
1997, pag. 1-12, Amsterdam;
Villari P., 8 aprile 1993, I giganti dell’Isola di Pasqua, in La
Sicilia, p. 32 (pagina intera con diversi miei articoli dedicati
all’argomento);
Villari P., 20 dicembre 2000, Eindpunt, Tokerau e la vecchietta, in Grifone,
organo bimestrale dell’Ente Fauna Siciliana, anno IX, n. 6 (fasc.48), pp.6-7.
3) del quotidiano “La Sicilia” desidero qui ricordare due amici di quegli
anni, ormai da tempo scomparsi: Giuseppe Sperlinga, valente appassionato di
astronomia e responsabile della Pagina delle Scienze presso la redazione di
Catania, e Gino Mauro, direttore della redazione di Messina.
4) il bar era piuttosto fornito e il barman era piuttosto abile nella
preparazione di una serie di cocktails. Rum, gin e pisco mescolati a Coca Cola
o una serie di sciroppi di vari tipi di frutta, mi sembrarono a quel tempo i
più richiesti dalla popolazione locale.
5) anni dopo lo rividi in una pellicola statunitense, proiettato su uno schermo di un cinema di Amsterdam. Assieme ad altri isolani era stato reclutato per diverse comparsate in Rapa Nui, il film diretto da Kevin Kostner.