di Pietro Villari, 27 Luglio 2023. Tutti i diritti riservati.
Le nuove generazioni degli establishment filo-occidentali
nel periodo globalista.
Le missioni scientifiche provenienti da Paesi del Blocco
Occidentale, che oggi giungono in Giordania trovano una realtà culturale in
parte non molto diversa da quella di alcune nazioni dell’Europa Meridionale e
in parte di migliore efficienza, quali le infrastrutture governative di stampo
anglosassone. A primo acchito, la causa è attribuibile a fenomenologie
collaterali a processi di acculturazione agli standard occidentali, come la
diffusione del commercio globalizzante e il costante contatto con il turismo di
massa proveniente dai Paesi Occidentali (1). Tuttavia, vi è anche
un’altra causale raramente presa in considerazione dai media, sviluppatasi
contemporaneamente al disastroso progetto globalista del Nuovo Ordine Mondiale.
Cospicui gruppi di elementi selezionati tra le nuove generazioni delle classi
medie e alte dell’establishment di Paesi anche non strettamente legati al
sistema dominante occidentale, sono state inviate a soggiornare diversi anni
nelle migliori università occidentali per perfezionare i loro studi
universitari. Un piano che ha provocato profondi cambiamenti in quelle
università, rappresentando ormai gli allevamenti all’ingrasso del novellame dei
regimi filo-occidentali, dove le grandi compagnie multinazionali vanno a caccia
di talenti da legare ai loro carrozzoni.
La primaria finalità politico-economica di questi periodi
di emigrazione all’Estero di quella che, nei loro Paesi di appartenenza, è
stata valutata quale la crème delle
giovani generazioni, è di sottoporla a processi di manipolazione per
acculturarla e standardizzarla ai modelli anglosassoni, in particolare
nordamericano e britannico. I legami stabiliti con istituzioni e personaggi
dell’establishment dei Paesi Occidentali da una parte di questi allievi nel
corso della permanenza formativa, continueranno a essere intrattenuti,
rinnovati e eventualmente intensificati al ritorno nei loro Paesi di origine.
È utile anche ricordare che al loro arrivo nelle
Università straniere, le Istituzioni di competenza del Paese accogliente aprono
un fascicolo personale al quale ogni soggetto interessato non avrà mai formale
notizia, né la facoltà di poterli visionare in futuro. Non vi sarà alcuna
possibilità, quindi, per richiedere eventuali rettifiche per la presenza
d’informazioni parzialmente errate o totalmente infondate. Nel fascicolo
vengono conservate le informazioni salienti, comunicati dagli archivi
municipali e giudiziari delle autorità del Paese di provenienza, alle quali
vengono aggiunti i dati raccolti nel corso della permanenza nel Paese ospite
(monitoraggio iniziale, controlli periodici, eventuali menomazioni fisiche e
psichiche sopraggiunte e altri eventi di particolare interesse ai fini
attitudinali, ecc.).
Si tratta di una raccolta di dati che purtroppo non è
condotta solo da agenzie governative, ma anche da strutture informative
operanti al riparo di permessi conferiti per ricerche di mercato,
al servizio di grandi società private, dove l’incrocio con le strutture dei
Deep States nazionali e organizzazioni lobbistiche soprannazionali costituisce
forse il lato più inquietante, in quanto si tratta ormai di situazioni
tecnicamente impunibili senza l’introduzione di nuove leggi condivise a livello
internazionale.
È quindi ovvio che tutte le informazioni relative a
vicende proprie della sfera professionale quali la corruzione o le connivenze
con ambienti criminali, o comportamenti della sfera privata considerati
borderline o eticamente sconvenevoli, costituiscono una preziosa arma utile a
determinare eventuali future coercizioni con effetti sia sul decorso sia della
vita professionale che di quella privata. Esse possono difatti concorrere a
determinare le dimissioni o il licenziamento da importanti cariche governative
o in società private, sino all’avvio di procedimenti penali gravemente
infamanti. Il dossieraggio spesso condotto con metodi
spregevoli e ben farciti di falsità, è oggi tra le maggiori cause di morte
sociale.
Un mondo arcaico scomparso in pochi decenni
La Giordania di oggi è una realtà culturale impensabile
al tempo del mio soggiorno, ormai datato a trentasei anni fa. L’incremento
demografico e la necessità di disporre di risolse idriche per soddisfare i
bisogni anche delle coltivazioni e degli allevamenti, cresciuti in modo
esponenziale, hanno costituito una delle principali problematiche governative
da risolvere. Negli ultimi due decenni, gli sforzi hanno impegnato buona parte
delle risorse economiche disponibili, essendo strettamente collegate ai programmi
di sviluppo nel settore del turismo, della cultura, delle risorse energetiche,
della ricerca scientifica e nella istituzione di ospedali. Il risultato è
quello di essere divenuta la nazione del Vicino Oriente maggiormente emancipata
e stabile, sia a livello politico che economico.
Uno dei pilastri su cui si fonda questo benessere è
l’approvvigionamento e la diffusione delle risorse idriche, grazie alla
presenza di un enorme giacimento acquifero fossile nel Deserto Meridionale
giordano, che oggi rifornisce anche parte del territorio dello Stato di
Israele. Sono stati attivati molti pozzi, tra i quali quello di Qa Disi, che
con una estrazione annuale di circa 100 milioni di metri cubi rifornisce di
acqua potabile la capitale Amman e diverse coltivazioni estensive (2).
Nel Marzo 1987, Qa Disi era
ancora un accampamento beduino con le tipiche tende di spessa lana nera, i
cammelli, le greggi di vivaci capre nere, i pazienti asinelli arabi, alcune
jeep. Era popolato da poche centinaia di beduini, fedeli osservanti delle leggi
coraniche e tradizionalmente devoti al loro sceicco.
La missione archeologica italiana presso la quale
conducevo le mie ricerche scientifiche era alloggiata alla meglio, poco
distante dalla dimora dello sceicco, fra i resti della “Bonifica Italiana”
della quale nelle cronache recenti sembra essere svanito persino il ricordo. Fu
un tentativo a quel tempo decisamente prematuro di sedentarizzare i beduini,
tentando una conversione tout court da pastori ad agricoltori.
Conclusa la cooperazione e partiti gli esperti italiani,
la popolazione era da parecchi anni tornata alle ataviche attività. In uso era
rimasto solo il pozzo artesiano, dal quale veniva pompata una deliziosa acqua
fresca che a quel tempo non sapevamo fosse altamente pericolosa assumere senza
particolari trattamenti (3).
Lasciate inutilizzate, le casette in mattoni e cemento
erano ridotte in pessime condizioni. Era stato necessario “bonificare la
Bonifica”, faticando parecchi giorni per rendere abitabili le stanze di alcune
per uso privato di ogni ricercatore, e quelle necessarie alle attività di
studio, la cucina, il refettorio e non ultime le latrine e le docce.
Sin dalla prima metà degli anni 1970, il territorio era
esplorato dal Prof. Edoardo Borzatti von Löwenstern, direttore dell’Istituto di
Antropologia dell’Università di Firenze e del prestigioso Centro Studi per
l’Ecologia del Quaternario in quello ospitato. Quell’area del Deserto
Meridionale giordano apparteneva a una tribù bedu il cui
sceicco, Juleil Soudan Abu Kayed risiedeva a Qa Disi e sin dagli inizi aveva
sempre assicurato una benevolente protezione e assistenza alla missione
italiana, anche tramite la sua gente.
Una situazione oggi inimmaginabile, essendo quella nostra
area di studio divenuta parte del Parco Nazionale di Wadi Rum, che dal 2011 è
un sito protetto dall’UNESCO World Heritage. Ampio 700 chilometri quadrati, per
accedervi oggi è necessario acquistare un biglietto dal costo corrispondente a
Euro 6,42 e osservare il regolamento di standard internazionale. In base a dati
pubblicati nel 2018, nell’anno precedente il parco aveva attratto 162.000
turisti, con un incremento del 97% rispetto al 2016. Il 13% proveniva
dalla città di Aqaba, sul Mar Rosso, che aveva registrato ben 640.000 turisti
alloggiati nei suoi alberghi (30.000 di questi provenienti da crociere) (4).
L’abbraccio della “Ministrona”
Marzo 1987. Assieme ad alcuni colleghi partecipanti alla
missione ero partito da un aeroporto di Roma alla mattina, se non ricordo male
da Ciampino, con un volo diretto contenente pochi passeggeri destinazione
Amman, la capitale della Giordania. Quando atterrammo, sulla scaletta
dell’aereo ci accolse una forte calura a me familiare nelle estati siciliane e
maltesi, così come il medesimo paesaggio brullo attorno a quegli aeroporti.
Fummo subito prelevati da un delegato del Ministero della
Cultura giordano che, affiancato da alcuni militari, ci scortò sino a un’ampia
sala adibita per le operazioni di controllo doganale. Vi erano già state
deposte le nostre attrezzature scientifiche, contenute in una decina di casse
lignee di forma a parallelepipedo, dipinte in verde e con tipiche scritte a
stampatello in bianco. Ottenute da una dismissione dell’esercito italiano, le
casse erano state cedute all’Istituto parecchi anni prima e bisogna ammettere
che a prima vista l’insieme sembrava riferibile a una fornitura di armi usate
di equivoca provenienza.
In una era contenuto un potente cercametalli statunitense
di ultima generazione che, appresi in quell’occasione, era un dono che
soddisfaceva un espresso desiderio dello sceicco che ospitava la missione
archeologica italiana a Qa Disi. Colui che a quel tempo esercitava informale
potere di vita e di morte su ogni cosa si muovesse tra le nude rocce e le dune
di sabbia costituenti il Deserto Meridionale giordano.
I militari presenti al controllo iniziarono a rilevare
problemi relativi sia al cercametalli che alle apparecchiature fotografiche, in
particolare i potenti e ingombranti zoom per catturare
immagini a lunga distanza e i palloncini a elio ai quali venivano fissate le
macchine fotografiche per le serie di foto dall’alto in autoscatto (i droni
furono inventati decenni dopo).
Il responsabile della missione archeologica, Prof.
Edoardo Borzatti von Löwenstern, era uno scienziato che conoscevo da circa
quattro anni. Nutrivo una profonda stima per le sua preparazione professionale
quale paletnologo e nel campo delle scienze naturali applicate all’archeologia.
Inoltre, al netto delle sue eccentricità che a volte sfioravano la paranoia, mi
aveva colpito la sua istintiva onestà e propensione al bene da gentiluomo
d’altri tempi.
Edoardo, come con sana umiltà preferiva farsi chiamare
anche dai giovani laureati, tentò di spiegare che era tutto regolare
trattandosi del medesimo equipaggiamento adoperato negli anni precedenti, e che
da lì a poco sarebbe arrivata la funzionaria responsabile per le Antichità
della Giordania.
Aspettammo ancora un’ora è alla fine si materializzò un
drappello di uomini in abito scuro, con al centro una donnona in tailleur XXL
che si diresse a braccia aperte verso il nostro Edoardo, di taglia
piccola e gracile, che immobile la guardò con sguardo rassegnato. “Eccola,
quella è la Ministrona” mi disse con fare divertito il collega Fabio
Vianello “Guarda quello che gli fa adesso!...”. La giovane collega
Barbara Ingels, fedele assistente del Borzatti, si rifugiò alle nostre
spalle dove iniziò a ridere e tossire.
Come se temesse che potesse sfuggirle, la funzionaria
allargò le braccia e raggiunse con eccezionale rapidità il Prof, avvinghiandolo
in un abbraccio surreale. Fu una scena da cartoons: la minuta
figura vestita alla esploratore tedesco, con sahariana e pantaloni alla zuava
bianchi, cintura e bandoliera in cuoio bruno così come gli alti stivali,
sprofondarono sin quasi a scomparire, immerse nell’abbraccio della donna, che
lo sollevò e lo scosse come un fuscello, le gambe e le braccia di lui tese ai
lati, con le mani aperte per lo spasimo.
La testa immersa nell’enorme seno, con il volto rosso
rivolto in alto, in cerca d’aria, Edoardo Borzatti von Löwenstern riuscì
nonostante tutto a pronunciare una delle sue note esilaranti battute, brevi e
sarcastiche, con accento fiorentino: “Com’è buona lei!”. La frase era
presa in prestito da un film comico degli anni 1970, con l’attore Paolo
Villaggio del ruolo del ragioniere Fantozzi.
Il nostro Edoardo a quel tempo era così. Non perdeva mai
l’occasione per una battuta, allentando eventuali tensioni o spezzando la
monotonia delle lunghe ore di studio che tutti assieme trascorrevamo nel
Laboratorio di Ecologia del Quaternario, a Firenze, così come nelle lunghe
marce del deserto. Era un umorismo alla toscana, spietatamente caustico, eppure
contaminante.
Dopo averlo spupazzato con autentica gioia, la donna
mollò la presa per dedicarsi alla formale stretta di mano ai partecipanti,
stritolando quella di Fabio nell’impeto scaturito dall’emozione di rivederlo.
Ridemmo ancora nel vedere il nostro prof ansimare privo di
fiato, con i lunghi baffi scombinati e il vetusto casco da esploratore
germanico adesso pendente sugli occhi. La funzionaria lo fissò preoccupata
chiedendogli “Per lei qui è piuttosto caldo, eh?” Avendogli rivolto la
domanda in Inglese, lingua ostica sia a lui che al Pardini (noto per la
ricorrente frase “Non parlerò mai quell’idioma da pescatori nordici…”),
rispose solo con un gesto di convenienza.
Qa Disi, marzo 1987
Essendo buona parte dei miei colleghi impegnati nei
rilevamenti di incisioni rupestri (5), generalmente preferivo
effettuare le mie esplorazioni archeologiche in solitudine, in un’area montuosa
a nord di Qa Disi, talvolta accompagnato dal collega Fabio Vianello (6).
Solo in un caso ci muovemmo tutti assieme, quando dovemmo
localizzare i resti di un insediamento eneolitico segnalato nella famosa Pietra
di Jebel Amud (7). Mi offrii volontario per inerpicarmi su una
collina rocciosa sovrastante una piccola struttura, un muretto a secco
emergente dalla sabbia del deserto a causa dei venti che avevamo incontrato
dopo una lunga marcia. Con mia grande sorpresa da quell’altezza mi si rivelò
l’intera area dell’abitato sopravvissuta oltre cinquemila anni, con le basse
mura perimetrali delle capanne e dei recinti per il bestiame villaggio. Scattai
alcune foto a ricordo della scoperta e avvertii i miei compagni con alcune
grida e segni.
A quel tempo non esisteva internet, né la telefonia
mobile (tantomeno satellitare di uso civile) o la possibilità di comunicare via
SMS. Se durante l’esplorazione accadeva qualcosa, nella migliore delle ipotesi
bisognava attendere che all’appello della sera fosse constatata l’assenza e
scattasse l’allarme, pur dovendosi aspettare sino all’indomani mattina affinché
si avviassero le ricerche.
Partivo all’alba, dopo una rapida colazione ad alto
nutrimento. Lasciavo scritto un appunto con l’indicazione dell’area nella quale
stavo dirigendomi e m’incamminavo con l’aria ancora intrisa del freddo pungente
della notte.
Lo zaino in spalla, pantaloni resistenti ma leggeri, in
cotone, le pedule alpine, i calzettoni di lana, gli schinieri antivipera, kit
medico di pronto intervento, camicia con ampie tasche con i documenti
personali, la matita con il taccuino per le osservazioni da annotare, il jacket senza
maniche e dalle dodici tasche, la bussola e il binocolo allacciati al collo e
riposti in due tasche pettorali, le borracce per un totale di quattro litri di
acqua, la mappa del territorio su cui riportare i ritrovamenti, la crema di
massima protezione solare.
Nello zaino la macchina fotografica e i rullini in una
borsa di cuoio, al riparo del caldo e della terribile sabbia di quarzo del
deserto che avrebbe smerigliato le lenti, infiltrandosi dappertutto, il
contenitore con quadretti di zucchero, un rotolo di ampi fogli tondi di pane
beduino, un pezzo di sotto crosta di parmigiano reggiano stagionato, una mela.
Fazzoletto rosso al collo. Gli occhiali polaroid con paraocchi, il cappello a
larga falda, la piccozza da geologo “Eastwing” compagna di tutta una vita professionale,
appesa al cinturone in cuoio toscano sul mio fianco destro e il lungo coltello
multiuso nella fodera al fianco sinistro.
Ricordo ancora quell’indescrivibile senso di fiducia
nella mia prestanza fisica, indispensabile in quella sconfinata libertà
originata dalla visione di quegli interminabili paesaggi desertici, dalla
perfetta solitudine in quel caldo secco che sembrava asciugare ogni dolore
esistenziale, riducendo qualsiasi problema all’essenza, sbriciolandosi
anch’esso in granelli in quell’oceano di sabbia rossastra dal quale emergevano
isole di rocce nude di colore nero (basalto) o talora rossicce (stratificazioni
arenarie ad alto contenuto ferroso).
Nei decenni seguenti, dopo avere condotto esplorazioni e
scavi in deserti presenti in altre aree del pianeta, iniziai a comprendere che
ogni deserto ha un suo ben distinto carattere, un insieme di dati non soltanto
ambientali e paesaggistici, che interagisce con l’inconscio umano, con il
risultato di lasciare emergere percezioni differenti quando si dimora in ognuno
di essi.
Nei film, gli attori che attraversano i deserti sono
sudati, distrutti dalla fatica. Nel deserto giordano, invece, non versai una
sola goccia di sudore: l’evaporazione era istantanea e la sete inesistente, ma
se non si beveva regolarmente per colmare la disidratazione, dopo parecchie ore
ne arrivavano le conseguenze.
Gli occhiali con lenti paraloid di massima protezione e i
paraocchi laterali furono provvidenziali non solo per evitare la cecità
dall’esposizione ai raggi solari, ma anche l’abrasione della superficie oculare
operata dai minuti granelli di quarzo.
Grazie al binocolo tascabile, ultraleggero e con
risoluzione 7x21, su uno spuntone situato lungo un’erta parete rocciosa
localizzai una struttura emisferica, a forno, costituita da lastre litiche.
Dopo avere impiegato parecchia fatica nell’inerpicarmi per raggiungerla, al suo
interno trovai un cumulo di frammenti appartenenti a un grande vaso globulare
d’impasto marnoso, decorato in rilievo sulla spalla da un cordone a impressioni
digitali. I caratteri del vaso suggerivano che l’insieme fosse riferibile agli
inizi dell’Età del Bronzo, probabilmente una sepoltura o un’offerta votiva. Ad
alcune decine di metri, inerpicandomi sulla nuda roccia trovai una serie di
piccole cavità contenenti acqua stagna. Considerato il loro grado di abrasione,
erano state scolpite in antico, allineate in posizione digradante dall’alto
verso il basso, queste ultime di maggiori dimensioni. Mi chiesi se si trattasse
di un luogo sacro sito nei pressi di una sorgente, esistente prima del totale
avvento di quel deserto (8).
La Missione Archeologica italiana e i figli dello
sceicco.
Quella di Qa Disi fu la mia prima missione archeologica
nel Vicino Oriente. In quei giorni avrei compiuto trent’anni, e con
mio sommo piacere nella qualità di archeologo preistorico, ero stato invitato dal
professore von Löwenstern, in quanto avevo sino al mese precedente tenuto
lezioni di archeozoologia presso l’Istituto di Antropologia dell’Università di
Firenze del quale era direttore. Alla missione partecipavano diversi colleghi
toscani del Laboratorio di Ecologia del Quaternario dove mi ero internato sin
dal 1984.
Tra i partecipanti vi era anche il direttore del Museo di
Storia Naturale di Livorno, Dott. Gianfranco Barsotti, con il quale tempo
addietro avevamo condiviso l’esperienza di scuoiare e disossare una
vecchia tigre in uno zoo, dopo aver prima aspettato l’effetto mortale del
veleno iniettatole da un veterinario. La povera bestia era stata donata allo
zoo, gravemente malata e sofferente, da un circo italiano che alla fine decise
di abbatterla a causa degli improvvisi, terribili ruggiti di dolore anche in
piena notte, che provocavano le urla di altri animali ospiti della struttura e
le comprensibili proteste degli abitanti della zona.
Scuoiare e disossare quell’enorme tigre dal corpo ancora
caldo, constatare la consistenza e il peso delle masse muscolari, fu
un’esperienza indimenticabile che mi fece intuire alla lontana le profonde
paure e il notevole coraggio dei gruppi familiari della preistoria, e dei
cacciatori delle tribù arcaiche del pianeta ancora esistenti in quegli ultimi
decenni del ventesimo secolo.
A differenza dell’atteggiamento verso altre spedizioni
scientifiche europee che avevano soggiornato nella zona, i beduini mostravano
una particolare disponibilità per quelli che anche qui, in mezzo al deserto,
eravamo chiamati “italiani brava gente”. Partecipavano alla nostra
presenza con discrezione, ma era impossibile non notare la loro forte curiosità
e il fascino che generava la nostra semplicità di proporci e la rilassata
allegria, quel continuo scherzare su ogni cosa, a volte coinvolgendoli sino a
ridere anche loro.
Da buon siciliano mi ero abbronzato in fretta, suscitando
perplessità nel gruppo dei più anziani dei trentotto figli dello sceicco (negli
anni seguenti ne nacquero parecchi altri), che con un giro di parole destinato
a prevenire eventuali offese, chiesero al Pardini se avessi lontane origini
Siriane (9). Risposi di essere diverso dai miei colleghi in quanto
nativo della Siqiliya (Sicilia, in Arabo), suscitando sorrisi
e gesti di apprezzamento. Mi aspettavo che pronunciassero anche qui la
parola mafia, e invece appresi che gli insegnanti inviati dal
governo giordano avevano nel corso delle loro lezioni parlato del Mediterraneo,
e delle grandi conquiste dell’Islam in Europa, in particolare in parte della
Spagna e l’intera grande isola di Siqiliya, possedendole per molti secoli.
Negli ultimi decenni, americani, australiani, inglesi,
tedeschi… avevano evitato di intrattenere rapporti di amicizia con elementi
della popolazione, di fornire notizie sul loro contesto culturale di
provenienza, forse temendo pregiudizi di ambito religioso e quindi guai. A me
accadde il contrario: i nostri ospiti erano solo assetati di conoscenza, di
poter collocare se stessi in una visione spazio-temporale più ampia dei loro
limiti nazionali, avere i mezzi per comprendere l’opera, ovvero il volere e il
potere del Dio che amavano, temevano e pregavano assiduamente. Non a caso una
sera, forse spinti dal padre, mi chiesero cosa si pensasse degli “uomini
delle tende nere” in Europa. Risposi descrivendo l’Europa quale un’entità
multiculturale, per cui la domanda aveva risposte differenti.
Fui subissato di domande sulla Sicilia, che concordavano
di ritenere un grande giardino coltivato da discendenti di conquistatori arabi
e per non rischiare di essere frainteso, risposi tramite un traduttore, un
anziano che decenni addietro aveva lavorato con gli agronomi italiani. Una
delle cose che li stupì maggiormente fu la presenza di tante lingue e dialetti
in un’area così piccola come l’Europa, pur appartenendo tutti alla stessa
religione cristiana. Le loro domande erano per me molto interessanti, in quanto
per la prima volta vedevo il mio mondo da angolazioni a me sconosciute. Quando
un giorno mi fu schematizzata, tracciandola sulla sabbia, la mappa del basso
mediterraneo secondo il loro vecchio insegnante della “vera fede”, la
costa africana era posta a settentrione e la Sicilia, Malta e Creta a
meridione, ingigantite e irriconoscibili. Mi resi conto che quelle isole erano
importanti in quanto celebravano l’antica potenza dell’Islam che i fedeli
ritenevano un giorno sarebbe nuovamente esondata, conquistando il mondo.
Dall’inizio di quegli incontri tutto cambiò nei miei
rapporti con la governance beduina, a iniziare dai permessi di
ricerca scientifica, potendo adesso accedere anche in aree vietate agli
estranei.
Così, Edoardo Pardini mi chiese di aiutarlo (in quanto
von Löwenstern tergiversava) e in quella situazione non riusciva a perfezionare
i suoi studi sui caratteri fisici della popolazione di Qa Disi, in particolare
le misurazioni craniche e la determinazione del colore degli occhi. Ritenni
opportuno parlarne con uno dei figli dello sceicco, che ne parlò al padre.
Dagli sviluppi della vicenda ne nacque un aneddoto che in quegli ultimi anni
1980 conquistò la hit parade dei salotti fiorentini.
Come rischiare la pelle per studiare il colore degli
occhi della popolazione Bedu.
Dopo alcuni giorni il Pardini ottenne la collaborazione
richiesta. L’accordo era che avrebbe esaminato ogni clan familiare presente a
Qa Disi e che gli esami sarebbero stati condotti in una comoda tenda
beduina. Edo avrebbe effettuato le misurazioni, e io li avrei
trascritti sotto sua dettatura in un registro già preparato per la schedatura,
accompagnandoli da eventuali annotazioni. Avevamo redatto anche un prontuario
contenente singoli termini anatomici, medici, gradi di parentela, e frasi di
circostanza al fine di manifestare in lingua araba il nostro rispetto e
gratitudine agli esaminati.
Posizionata e aperta su due lati in modo da mantenere una
piacevole circolazione di aria fresca all’interno, nella grande tenda di lana
nera sarebbe entrato solo un piccolo gruppo familiare alla volta. All’esterno,
alcuni uomini attendevano al corretto svolgimento dello studio e della fila di
individui da esaminare. Come d’uso, indossavano la kephia di
cotone con motivi rossi su fondo bianco, che avvolgeva il capo, ampie vesti
bianche, alla vita una larga fascia di stoffa, nella quale era fissato il
fodero contenente il tradizionale pugnale a lama ricurva, un’arma che all’uso è
in grado di produrre effetti tragicamente devastanti.
Venne fatto entrare il primo gruppo, due uomini e tre
donne ai quali fu chiesto di scoprire il capo. Cosa che fecero con timore. A
quel punto, Edoardo pose sul tavolone una borsa di pelle ed una valigetta a
cassettiera, del tipo da rappresentante di gioielli. Dalla prima tirò fuori,
uno dopo l’altro e con rumore di ferraglia, una serie di strumenti da
misurazione che, pur conoscendoli e avendone già usato alcuni, devo ammettere
che in quelle circostanze suscitarono anche in me un istintivo ribrezzo.
Come se non bastasse, con nonchalance aprì di botto la
valigetta, che meccanicamente si mostrò una gradinata di cassetti ognuno
contenente decine di occhi di vetro incassati nel velluto scuro, con le pupille
di varie tonalità di colore e particolarità (10). L’insieme aveva
l’aspetto tremendamente realistico di una collezione di occhi estratti a
discapito di chissà quanti poveri disgraziati.
La combinazione degli strumenti di misurazione, alcuni
dei quali a forcipe, e gli occhi giacenti nei bizzarri contenitori era
piuttosto macabra e tutt’altro che rassicurante e, come prevedibile, provocò le
acute urla di paura delle donne e quelle di disprezzo guerriero degli uomini.
Le guardie entrarono immediatamente, e dopo avere constatato l’efferatezza di
quanto gli si presentava innanzi, si posero a protezione del gruppo gridando
rabbiosi una raffica di domande, forsanche avvertimenti e probabilmente qualche
insulto in lingua araba.
Il Pardini peggiorò la situazione come solo uno
scienziato del suo calibro, candidamente con la testa tra le nuvole, stava
riuscendo a compiere. Rispose in lingua italiana con occhi spiritati,
alternando sghignazzi a suo modo rassicuranti e cenni delle mani, nelle quali
teneva un calibro in acciaio con asticelle curve e appuntite: “Ma no, venite
qua, poveri cari… ah-ah-ah… devo solo prendere alcune misure, nulla più!...
Insomma, venite...” e indicando i loro occhi, prendeva in mano un bulbo
oculare di vetro dopo un altro e a suo modo mimava l’attività di misurazione e
di comparazione, ma con un risultato che sembrava volesse significare
un’estrazione. “Questi sono solo campioni!...ah-ah-ah…”, e li
agitava davanti ai beduini ormai in preda alla paura più profonda. Così, le
guardie ci spinsero fuori dalla tenda in malo modo e “i nostri esemplari”,
come asetticamente li chiamava il Pardini, ne approfittarono per dileguarsi.
Alcune ore dopo giunse il figlio prediletto (11) dello
sceicco, Sayed. Il padre lo aveva mandato a lavorare in una base militare
americana, dove aveva prontamente imparato la lingua inglese, evitando in base
alla sua buona educazione islamica, di ripetere le consuete intercalazioni di
espressioni volgari. La situazione gli fu subito chiara e tutto si risolse in
breve. Lo avevo già visto una sera, defilato in retrovia, ad ascoltare le mie
risposte alle domande che mi rivolgevano i suoi fratelli maggiori. Era un
giovane dotato di una mente di primordine e di una educazione raffinata, alla
quale aveva associato una qualità ereditata dal padre e con questi
accuratamente coltivata: l’arte della conversazione.
Constatai così il notevole grado raggiunto, nonostante
avesse solo ventitré anni, nello studio e nella memorizzazione del Corano, e
una accurata conoscenza delle discipline tradizionali amate dagli arabi di
rango elevato, dalla filosofia alla matematica passando dalle scienze naturali.
Sarebbe stato un erede straordinario, e lo sceicco (12) ne era
pienamente cosciente. D'altronde, più alto è il numero dei figli, più alta è la
possibilità di ottenere un erede di grandi qualità apprezzate dal suo popolo.
Gli presentai le mie scuse per quanto avvenuto, ma scosse
una mano per indicare una situazione compresa e superata, e con mia sorpresa
m’invitò a accompagnarlo a ispezionare un’oasi sita in quel vasto deserto. Una
immensa piscina attorniata da un antico palmizio. Per arrivarci attraversammo
una distesa deserta di fango indurito, piatta, al punto di essere un sorta di
autostrada priva di confini. Fu la prima volta che mi capitò di osservare il
tipico fenomeno del miraggio, nella fattispecie un insieme di palme antistanti
a un vasto specchio d’acqua, che comparì e si dissolse all’orizzonte, nel
tremolio dell’evaporazione. Mi lasciò un senso di smarrimento amplificato dalla
notevole calura, pur avendo assistito comodamente seduto nella jeep e non dopo
ore di martoriante cammino in groppa a un dromedario.
La conversazione fu molto piacevole. Chiedevo degli usi,
costumi e tradizioni della sua gente e in cambio gli chiarivo quanto avevo
appreso dell’archeologia preistorica, degli ultimi studi sulle raffigurazioni
incise sulle rocce del Deserto Meridionale giordano (dove già a quel tempo
Edoardo Borzatti von Löwenstern ne aveva catalogate oltre diecimila), degli
studi sull’origine delle attuali faune selvatiche della Giordania. Si soffermò
sulla caccia, una delle attività preferite della classe aristocratica araba,
soprattutto quella con il falcone, che io conoscevo attraverso gli studi
pubblicati da Federico II di Svevia con la collaborazione del figlio Manfredi.
Rientrammo a Qa Disi nel primo pomeriggio e nel separarci
mi invitò a cena nella sua tenda dove conobbi la moglie, una giovane donna di
rara fine bellezza, della quale era profondamente innamorato e dalla quale era
sinceramente ricambiato. Attendevano un figlio, e per lei aveva rifiutato di
esercitare il suo diritto alla poligamia. Mi colpì la sua sincera ammirazione
per l’organizzazione sociale israeliana, in particolare la coesione presente
nei kibbuz, un fatto che anni dopo mi indusse a chiedermi se queste
convinzioni fossero state alla base del suo omicidio, avvenuto ad Amman dove si
trovava per svolgere alcuni incarichi per conto del padre (13).
Avendo espresso il desiderio di poter osservare il
comportamento delle iene e, ancor più, quello delle volpi del deserto, si offrì
di organizzare una battuta di caccia alle gazzelle (gazāla, in arabo)
per l’indomani notte, nel corso della quale avremmo certamente potuto osservare
anche altri animali selvatici. Avrebbe curato personalmente la preparazione di
quanto necessario: armi e munizioni, il kit medico di pronto intervento, un
veloce fuoristrada, una guida armata di kalashnikov, alimenti e
bevande e quant’altro. Da parte mia, avrei convinto l’amico e collega Fabio
Vianello a unirsi all’avventura, ben sapendo che per suo carattere non si
sarebbe tirato indietro.
Come andare a caccia di gazzelle in piena notte e finire
in un affascinante rituale.
Partimmo in quattro a tarda sera. La guardia del corpo al
volante, e al suo fianco Sayed con uno dei kalashnikov a
portata di mano, Fabio ed io occupavamo i sedili posteriori. Alle nostre spalle
il sole era già scomparso all’orizzonte, illuminandolo di un rosso infuocato.
Ci muovemmo in direzione opposta, verso le tenebre che lentamente iniziavano a
scendere sul confine desertico con il regno saudita.
Avevamo percorso circa due ore di pista, e ci trovavamo
attorno alla mezzanotte innanzi a una stretta gola rocciosa. Alla guida adesso
vi era Sayed, che rallentò sino a passo di marcia, finchè davanti ai fari si
materializzarono due militari fasciati dalla kefia e armati di
fucile. Mi accorsi che avevamo fatto un ampio giro a semicerchio, quando
riconobbi le divise della Guardia Beduina di Wadi Rum, luogo noto al pubblico
Occidentale per le famose scene del film storico “Lawrence of Arabia” (14).
Un militare graduato, con mantellina rossa e pistola alla
mano, si avvicinò al lato del guidatore con fare poco rassicurante. Senza alcun
preambolo iniziò uno scambio di frasi in arabo con apparente tono minaccioso.
Alla fine l’ufficiale dette uno sguardo ai sedili posteriori della jeep,
fissandoci a lungo. Quindi si allontanò, e con certa apprensione chiedemmo a
Sayed cosa stesse accadendo. Con altrettanto fare preoccupato il nostro amico
ci rispose che dovevamo seguire i militari nella vallata, ma non sapeva
spiegarsene il motivo.
Nell’oscurità si accesero i fari di due camionette che ci
scortarono per circa venti minuti. Alla fine arrivammo in un’ampia vallata
illuminata da un falò, ove erano posteggiati parecchi fuoristrada. Radunati
presso un riparo sotto roccia, una moltitudine di uomini gridava in coro a
circa duecento metri da noi. Scorgemmo musici e danzatori beduini. Sayed ci
guardò ridendo: si trattava di una cerimonia iniziata la sera precedente, un
matrimonio al quale avevamo avuto l’opportunità di assistere anche se
stranieri. Era evidente che adesso eravamo in condizioni di parità con quello
che era accaduto nella tenda grazie al Pardini. Ne fui felice e iniziai a
ridere anch’io di gusto per lo scherzo ben congegnato.
Seduti in grande cerchio presso gli anziani, ci fu
offerto di condividere un forte caffè alla beduina, in tazzine di pregevole
fattura ottomana, oggi direi certamente Iznik, e non ci sarebbe molto da
stupirsi se fossero state parte del bottino di chissà quale antico attacco
predatorio. Azioni del genere erano state comuni sino a circa una cinquantina
di anni addietro. D'altronde, il deserto possiede una straordinaria capacità di
assorbire immense quantità di sangue e di far scomparire in pochi anni i resti di
intere armate.
Dopo aver cercato con lo sguardo attorno, con molta
discrezione chiesi al nostro amico arabo dove fossero le donne. Mi indicò
alcune figure coperte di mantelli scuri, sedute in cerchio davanti ad un fuoco
acceso presso un altro spuntone roccioso, a circa cinquanta metri dal nostro.
La promessa sposa era posta al centro del gruppo, ma in posizione di alcuni
metri più avanzata e affiancata dalla madre. Innanzi ad essa, a circa trenta
metri, una fila di uomini che avanzavano e indietreggiavano tenendosi a braccetto,
e nel contempo gridavano cantilenando all’unisono una frase araba, ripetendola
monotonamente senza sosta. Ne domandai il significato a Sayed, che tradusse: “Il
tuo uomo è forte, il tuo uomo è buono, il tuo uomo è bello”.
Fummo invitati con insistenza a sostituire alcuni
componenti della fila, e per circa mezzora, cinque passi avanti e cinque
indietro, assieme a Fabio e Sayed intonammo anche noi quella melodia che,
suppongo, dovesse risultare irresistibile alla sposa. Dal tramonto all’alba la
giovane e le sue parenti assistettero immobili a quella danza, con stoica
dedizione che forse l’avrà condizionata o convinta per la vita.
Talvolta, alla musica ed ai cori di grida si univano gli
spari di pistole, fucili e mitraglie. La cerimonia continuò sino al tramonto
del giorno seguente, con un lunghissimo pranzo a base di una montagna di riso
sormontato da carne di montone e di pollo condita con burro acidulo. Ci
addormentammo accanto ai fuochi e rientrammo al campo all’alba di alcuni giorni
dopo. Volpi e iene le incontrammo in altre occasioni.
La sera prima di lasciare il deserto giordano avevo
rivisto per l’ultima volta Sayed e la moglie, e per l’occasione feci dono del
mio coltello, sino a quel momento portato sempre addosso durante le mie
solitarie esplorazioni naturalistiche e archeologiche in Europa e infine in
Giordania. Era il modello contenente il survival kit al gran
completo, divenuto popolare tramite l’attore Silvester Stallone nel primo film
della serie “Rambo”.
Il piacevole interrogatorio a Amman
Tempo dopo decisi che era tempo di raggiungere la
capitale Amman, sita a nord, dove mi presi alcuni giorni di riposo in un
delizioso albergo consigliatomi da Fabio. Giunsi nella metropoli dopo un
illuminante viaggio in autostop durato circa mezza giornata svolto in camion da
Aqaba, dove mi ero recato a pranzo con alcuni colleghi della missione per
festeggiare la partenza. L’autista, era un egiziano mio coetaneo che, felice di
non viaggiare in solitudine come gli avveniva quasi tutti i giorni lungo quella
tratta, si rivelò un inaspettato cicerone che mi descrisse il suo modo di
vedere la società giordana.
Arrivato ad Amman l’egiziano ebbe la gentilezza di
accompagnarmi sino all’albergo dove Fabio mi aveva prenotato una
camera, una struttura gradevole con ampia vista sul famoso colonnato del
Forum romano di Philadelphia. Il direttore mi invitò nel suo ufficio, dove nel
corso del rito del benvenuto in presenza di una eccellente tazza di tè, mi
fornì il necessaire raccomandatogli da Fabio. Ricevetti così
una lista di indirizzi di ristoranti, una stecca di sigarette Camel senza
filtro (quella che i miei colleghi chiamavano la “Bamba del Deserto”,
una deliziosa rarità di produzione riservata agli ufficiali dell’aviazione
giordana, contenente il nero tabacco siriano Latakia e chissà quale sostanza
vagamente rilassante, e il numero di telefono dell’accompagnatrice turistica
preferita da Fabio, una giovane donna dal fare sensuale e affascinante, che
parlava con scioltezza molte lingue tra le quali l’italiano. Fu una guida
deliziosa, leggiadra e erudita.
Svolgeva quel lavoro da parecchi anni e fu anche una
fonte di informazioni, benché già note in Italia persino ai giornali, su fatti
dei quali nell’accampamento beduino nessuno parlava, quali ad esempio certe
esecuzioni durante gli eventi del cosiddetto Settembre nero (15).
Tuttavia, spesso interrompeva quelle “confidenze” chiedendomi dei risultati
della missione archeologica, notizie personali dei partecipanti, il
comportamento dei beduini, gli avvenimenti che mi avevano colpito, con quale
mezzo avessi raggiunto Amman. Era un modo da manuale di sondare, in modo
piacevolmente amichevole, cosa avessi fatto e saputo.
Fabio mi aveva abbondantemente avvertito del principale
lavoro della donna e se da un lato mi astenni dal fare la stupidaggine di
fornirle notizie false o tendenziose, mi limitai alle informazioni già note al
governo giordano o a eventuali altri di quell’area. Tralasciai quindi di
riferire sui rapporti di amicizia con Sayed, le confidenze ricevute, eventuale
uso di alcolici da parte di componenti della missione e provenienza della
bevande (non tollerate dalla legge islamica) o le mie riflessioni su quanto visto
o appreso. Quando infine la giovane si spinse a pormi domande nel momento meno
opportuno, mi limitai a sorriderle fissandola a lungo negli occhi, e finalmente
cambiò atteggiamento.
Mi fermai ad Amman alcuni giorni, all’alba dell’ultimo ci
salutammo amichevolmente e, come da programma, mi recai all’aeroporto dal quale
presi un volo diretto a Roma. Ovviamente, mi recai al check in non
prima di avere controllato accuratamente se nel mio bagaglio fosse stata
aggiunta qualcosa di compromettente.
Note
1) ne ho già messo in
evidenza i meccanismi nell’articolo pubblicato il 19 giugno 2023 su
questo blog: Rapa Nui (Isola di Pasqua, Cile). L’incerto futuro di una
remota comunità dell’Oceania agli inizi della crisi egemonica nel mercato
globale
https://www.thereporterscorner.com/2023/06/rapa-nui-isola-di-pasqua-cile-lincerto.html
2) è da notare che
l’acquedotto Qa Disi – Amman è stato completato dall’impresa turca GAMA, un
fatto che corroborato da altri eventi recenti indica il grado di espansione
della potenza economica e politica turca nell’area, piuttosto attiva negli
ultimi decenni non solo nella fascia nord africana ma anche nel Vicino Oriente.
Il fatto è eclatante, considerato che si tratta di un’area che appartenne
all’Impero Ottomano sino alla fine del Primo Conflitto Mondiale, ovvero a circa
un secolo addietro, perso a causa della Rivolta Araba (1917-1918) finanziata da
Inghilterra e Francia.
3) alcuni anni fa, ricerche
idrogeologiche effettuate dagli statunitensi a Qa Disi, hanno accertato che
l’acqua estratta dai pozzi del Deserto Meridionale della Giordania contiene
sostanze radioattive (in particolare radium, toro e barium). Essendo le
quantità superiori a quelle tollerate dall’organismo umano, devono quindi
essere trattate prima del loro uso sia potorio che per le coltivazioni, per cui
il governo giordano ha già da tempo provveduto a istituire il regolare
trattamento di tutte le acque estratte. Bisogna altresì specificare che le
formazioni rocciose risalenti al Cambriano/Ordoviciano contengono sempre alte
quantità di radium, in qualunque luogo del pianeta esse si trovino.
Approfonditi accertamenti sono stati condotti dalla IAEA, l’Atomic Energy
Agency e un estratto della ricerca è disponibile online all’indirizzo:
4) in Ahmed Bani Mustafa,
29 gennaio 2018, The Jordan Times (consultato in data
11-07-2023) https://www.jordantimes.com/local/97-cent-increase-wadi-ram-visitors-13-cent-aqaba
5) oltre diecimila gruppi
d’incisioni di varia grandezza eseguite su rocce, massi, lastroni litici,
prodotte da varie culture databili tra la preistoria e gli inizi del ventesimo
secolo.
6) allievo prediletto da
Edoardo Borzatti von Löwenstern, Fabio Vianello ne era divenuto in seguito
prezioso assistente presso il Laboratorio di Ecologia del Quaternario. Ci
frequentammo molto nel corso degli anni trascorsi a Firenze, facendo entrambi
parte di una folta combriccola di studiosi in varie discipline che la notte era
dedita a vagare da una festa a un’altra. Fabio morì in un incidente aereo
avvenuto attorno alla metà degli anni 1990, assieme ad una cara collega e due
validi giovani ricercatori, mentre con un aliante sorvolavano il sito
preistorico di La Pineta (Isernia) per effettuare alcune
foto degli scavi in corso ai quali partecipavano. Fu una grave perdita per la
ricerca paletnologica italiana.
7) una delle più antiche pietre
topografiche oggi note, datata tra il 3500 e il 3000 a.C., identificata da
Edoardo Borzatti nel 1979. Vi sono scolpite con grande precisione le vie di
comunicazione e insediamenti inerenti a un territorio di 2500 chilometri quadrati.
8) raccolsi i frammenti del
vaso e li depositai nel magazzino del nostro accampamento a Qa Disi. Dopo la
mia partenza, Fabio Vianello ottenne un permesso dalle Autorità di competenza
giordane, e inviò l’insieme al Laboratorio del Centro Studi per l’Ecologia del
Quaternario a Firenze, dove il vaso venne restaurato nel corso degli anni
seguenti.
9) ricordai il fatto circa
vent’anni dopo, quando la stessa domanda mi fu rivolta anche a Kiev, in
Ucraina, da due ex ufficiali siriani stupiti dalla mia straordinaria
somiglianza con il nipote prediletto del mufti di Aleppo,
deceduto ancora giovane anni prima e in circostanze che non mi furono chiarite.
Mi fu detto che il religioso di Aleppo sarebbe stato certamente felice di
conoscermi, ma non ne ebbi la possibilità a causa dello scoppio della guerra
civile in Siria.
10) sembra che si trattasse
di un’antica collezione appartenuta al celebre antropologo Paolo Mantegazza.
Non saprei dire se appartenesse al Pardini o all’Istituto di Antropologia, che
tra l’altro aveva sede nell’antico e magnifico palazzo rinascimentale dei
Mantegazza, al quale si accedeva da Via del Proconsolo, a poche decine di metri
dal Duomo.
11) che da qui in avanti
chiamerò Sayed, al fine di non evocarne il vero nome, per rispetto al suo
eterno sonno giunto violento e prematuro.
12) lo sceicco Juleil Soudan
Abu Kayed, cugino di primo grado del re Hussein. I rapporti erano di totale
fedeltà di clan feudatario consolidato da legami familiari. Legato da profonda
amicizia con Edoardo von Löwenstern, morì alcuni anni prima di Fabio Vianello a
causa di una lunga malattia gravemente invalidante.
13) alla fine degli anni
1990, di passaggio a Firenze mi fermai a salutare Edoardo von Löwenstern, per
fargli le condoglianze per la morte di Fabio Vianello. Nel corso della visita
fui messo al corrente della morte di Sayed, anch’essa prematura. Domandai se
fosse stato messo al muro in modo violento e accoltellato. Sorpreso, mi chiese
come lo avessi saputo, essendo una vicenda non rivelata dalla stampa. Così fui
costretto a riferirgli come facesse parte di un gruppo di visioni che avevo
avuto all’Isola di Pasqua, nella Polinesia Cilena, durante gli scavi di un
insediamento preistorico presso i quali mi ero accampato con una cara amica
olandese. Nella fattispecie si trattava di sogni premonitori, nitidi, che
ebbero la peculiarità di essersi tutti avverati nell’immediato o nel corso degli
anni seguenti.
Per ulteriori notizie sulla vicenda rimando all’articolo
pubblicato su questo blog il 7 aprile 2023, Isola di Pasqua, Cile,
1991. Testimonianza di fenomenologia N.O.E. (not ordinary experiences) vissuta
nel corso degli scavi archeologici condotti a Puna Marengo, e in
particolare al capitolo Eindpunt, Tokerau e la Vecchietta.
https://www.thereportercorner.com/2023/04/isola-di-pasqua-cile-1991-testimonianza.html
14) tratto dal racconto
autobiografico del Colonnello Thomas Edward Lawrence, “Seven
Pillars of Wisdom” (scritto tra il 1919 e il 1922, ma edito nel
1926), il film è un adattamento romanzato del 1962 al fine di ottenere
un colossal storico in stile anglosassone. Nel cast di
eccellenza figurano attori quali Peter O’Tool, Omar Sharif, Anthony Quinn e
Alec Guinnes. Quest’ultimo era stato scelto per la straordinaria somiglianza al
re Feisal e in molti, incontrandolo, credettero fosse realmente l’ex regnante,
inspiegabilmente non invecchiato.
Nel 2005, durante un mio breve viaggio di studi in Siria,
un anziano antiquario e uno dei coetanei suoi ospiti fissi del pomeriggio, un
colonnello in pensione, mi riferirono che in Siria le reazioni più eclatanti si
ebbero a Damasco, e in particolare in quell’area della Cittadella, dove ci
trovavamo, tra la grande moschea e il mercato. Era la città di provenienza
della dinastia di Feisal e capitale del suo brevissimo regno, dove Guinnes
aveva soggiornato nel corso delle riprese del film.
15) una vicenda che ancora
oggi grava pesantemente sui rapporti tra la parte di origine palestinese, oggi
costituente circa il 70% della popolazione, e quella araba propriamente detta,
in gran parte di etnia beduina. Il primo settembre del 1970, dopo avere subito
una serie di tentativi di assassinio condotti al fine di rovesciarne il regime
monarchico, il re hascemita Hussein decise di affrontare militarmente le
potenti organizzazioni palestinesi. Il conflitto armato fu particolarmente
violento, causando decine di migliaia di morti, in gran parte civili, e
coinvolgendo le forze armate di Egitto, Siria, Stati Uniti e Israele. Si
concluse con un trattato di pace firmato al Cairo nel luglio del 1971.