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1987. Alcuni ricordi da una missione archeologica nel Deserto Meridionale della Giordania

di Pietro Villari, 27 Luglio 2023. Tutti i diritti riservati.

 

Le nuove generazioni degli establishment filo-occidentali nel periodo globalista.

Le missioni scientifiche provenienti da Paesi del Blocco Occidentale, che oggi giungono in Giordania trovano una realtà culturale in parte non molto diversa da quella di alcune nazioni dell’Europa Meridionale e in parte di migliore efficienza, quali le infrastrutture governative di stampo anglosassone. A primo acchito, la causa è attribuibile a fenomenologie collaterali a processi di acculturazione agli standard occidentali, come la diffusione del commercio globalizzante e il costante contatto con il turismo di massa proveniente dai Paesi Occidentali (1). Tuttavia, vi è anche un’altra causale raramente presa in considerazione dai media, sviluppatasi contemporaneamente al disastroso progetto globalista del Nuovo Ordine Mondiale. Cospicui gruppi di elementi selezionati tra le nuove generazioni delle classi medie e alte dell’establishment di Paesi anche non strettamente legati al sistema dominante occidentale, sono state inviate a soggiornare diversi anni nelle migliori università occidentali per perfezionare i loro studi universitari. Un piano che ha provocato profondi cambiamenti in quelle università, rappresentando ormai gli allevamenti all’ingrasso del novellame dei regimi filo-occidentali, dove le grandi compagnie multinazionali vanno a caccia di talenti da legare ai loro carrozzoni.

La primaria finalità politico-economica di questi periodi di emigrazione all’Estero di quella che, nei loro Paesi di appartenenza, è stata valutata quale la crème delle giovani generazioni, è di sottoporla a processi di manipolazione per acculturarla e standardizzarla ai modelli anglosassoni, in particolare nordamericano e britannico. I legami stabiliti con istituzioni e personaggi dell’establishment dei Paesi Occidentali da una parte di questi allievi nel corso della permanenza formativa, continueranno a essere intrattenuti, rinnovati e eventualmente intensificati al ritorno nei loro Paesi di origine.

È utile anche ricordare che al loro arrivo nelle Università straniere, le Istituzioni di competenza del Paese accogliente aprono un fascicolo personale al quale ogni soggetto interessato non avrà mai formale notizia, né la facoltà di poterli visionare in futuro. Non vi sarà alcuna possibilità, quindi, per richiedere eventuali rettifiche per la presenza d’informazioni parzialmente errate o totalmente infondate. Nel fascicolo vengono conservate le informazioni salienti, comunicati dagli archivi municipali e giudiziari delle autorità del Paese di provenienza, alle quali vengono aggiunti i dati raccolti nel corso della permanenza nel Paese ospite (monitoraggio iniziale, controlli periodici, eventuali menomazioni fisiche e psichiche sopraggiunte e altri eventi di particolare interesse ai fini attitudinali, ecc.).

Si tratta di una raccolta di dati che purtroppo non è condotta solo da agenzie governative, ma anche da strutture informative operanti al riparo di permessi conferiti per ricerche di mercato, al servizio di grandi società private, dove l’incrocio con le strutture dei Deep States nazionali e organizzazioni lobbistiche soprannazionali costituisce forse il lato più inquietante, in quanto si tratta ormai di situazioni tecnicamente impunibili senza l’introduzione di nuove leggi condivise a livello internazionale.

È quindi ovvio che tutte le informazioni relative a vicende proprie della sfera professionale quali la corruzione o le connivenze con ambienti criminali, o comportamenti della sfera privata considerati borderline o eticamente sconvenevoli, costituiscono una preziosa arma utile a determinare eventuali future coercizioni con effetti sia sul decorso sia della vita professionale che di quella privata. Esse possono difatti concorrere a determinare le dimissioni o il licenziamento da importanti cariche governative o in società private, sino all’avvio di procedimenti penali gravemente infamanti. Il dossieraggio spesso condotto con metodi spregevoli e ben farciti di falsità, è oggi tra le maggiori cause di morte sociale.

 

Un mondo arcaico scomparso in pochi decenni

La Giordania di oggi è una realtà culturale impensabile al tempo del mio soggiorno, ormai datato a trentasei anni fa. L’incremento demografico e la necessità di disporre di risolse idriche per soddisfare i bisogni anche delle coltivazioni e degli allevamenti, cresciuti in modo esponenziale, hanno costituito una delle principali problematiche governative da risolvere. Negli ultimi due decenni, gli sforzi hanno impegnato buona parte delle risorse economiche disponibili, essendo strettamente collegate ai programmi di sviluppo nel settore del turismo, della cultura, delle risorse energetiche, della ricerca scientifica e nella istituzione di ospedali. Il risultato è quello di essere divenuta la nazione del Vicino Oriente maggiormente emancipata e stabile, sia a livello politico che economico.

Uno dei pilastri su cui si fonda questo benessere è l’approvvigionamento e la diffusione delle risorse idriche, grazie alla presenza di un enorme giacimento acquifero fossile nel Deserto Meridionale giordano, che oggi rifornisce anche parte del territorio dello Stato di Israele. Sono stati attivati molti pozzi, tra i quali quello di Qa Disi, che con una estrazione annuale di circa 100 milioni di metri cubi rifornisce di acqua potabile la capitale Amman e diverse coltivazioni estensive (2).

Nel Marzo 1987, Qa Disi era ancora un accampamento beduino con le tipiche tende di spessa lana nera, i cammelli, le greggi di vivaci capre nere, i pazienti asinelli arabi, alcune jeep. Era popolato da poche centinaia di beduini, fedeli osservanti delle leggi coraniche e tradizionalmente devoti al loro sceicco.

La missione archeologica italiana presso la quale conducevo le mie ricerche scientifiche era alloggiata alla meglio, poco distante dalla dimora dello sceicco, fra i resti della “Bonifica Italiana” della quale nelle cronache recenti sembra essere svanito persino il ricordo. Fu un tentativo a quel tempo decisamente prematuro di sedentarizzare i beduini, tentando una conversione tout court da pastori ad agricoltori.

Conclusa la cooperazione e partiti gli esperti italiani, la popolazione era da parecchi anni tornata alle ataviche attività. In uso era rimasto solo il pozzo artesiano, dal quale veniva pompata una deliziosa acqua fresca che a quel tempo non sapevamo fosse altamente pericolosa assumere senza particolari trattamenti (3).

Lasciate inutilizzate, le casette in mattoni e cemento erano ridotte in pessime condizioni. Era stato necessario “bonificare la Bonifica”, faticando parecchi giorni per rendere abitabili le stanze di alcune per uso privato di ogni ricercatore, e quelle necessarie alle attività di studio, la cucina, il refettorio e non ultime le latrine e le docce.

Sin dalla prima metà degli anni 1970, il territorio era esplorato dal Prof. Edoardo Borzatti von Löwenstern, direttore dell’Istituto di Antropologia dell’Università di Firenze e del prestigioso Centro Studi per l’Ecologia del Quaternario in quello ospitato. Quell’area del Deserto Meridionale giordano apparteneva a una tribù bedu il cui sceicco, Juleil Soudan Abu Kayed risiedeva a Qa Disi e sin dagli inizi aveva sempre assicurato una benevolente protezione e assistenza alla missione italiana, anche tramite la sua gente.

Una situazione oggi inimmaginabile, essendo quella nostra area di studio divenuta parte del Parco Nazionale di Wadi Rum, che dal 2011 è un sito protetto dall’UNESCO World Heritage. Ampio 700 chilometri quadrati, per accedervi oggi è necessario acquistare un biglietto dal costo corrispondente a Euro 6,42 e osservare il regolamento di standard internazionale. In base a dati pubblicati nel 2018, nell’anno precedente il parco aveva attratto 162.000 turisti, con un incremento del 97% rispetto al 2016.  Il 13% proveniva dalla città di Aqaba, sul Mar Rosso, che aveva registrato ben 640.000 turisti alloggiati nei suoi alberghi (30.000 di questi provenienti da crociere) (4).

 

L’abbraccio della “Ministrona”

Marzo 1987. Assieme ad alcuni colleghi partecipanti alla missione ero partito da un aeroporto di Roma alla mattina, se non ricordo male da Ciampino, con un volo diretto contenente pochi passeggeri destinazione Amman, la capitale della Giordania. Quando atterrammo, sulla scaletta dell’aereo ci accolse una forte calura a me familiare nelle estati siciliane e maltesi, così come il medesimo paesaggio brullo attorno a quegli aeroporti.

Fummo subito prelevati da un delegato del Ministero della Cultura giordano che, affiancato da alcuni militari, ci scortò sino a un’ampia sala adibita per le operazioni di controllo doganale. Vi erano già state deposte le nostre attrezzature scientifiche, contenute in una decina di casse lignee di forma a parallelepipedo, dipinte in verde e con tipiche scritte a stampatello in bianco. Ottenute da una dismissione dell’esercito italiano, le casse erano state cedute all’Istituto parecchi anni prima e bisogna ammettere che a prima vista l’insieme sembrava riferibile a una fornitura di armi usate di equivoca provenienza.

In una era contenuto un potente cercametalli statunitense di ultima generazione che, appresi in quell’occasione, era un dono che soddisfaceva un espresso desiderio dello sceicco che ospitava la missione archeologica italiana a Qa Disi. Colui che a quel tempo esercitava informale potere di vita e di morte su ogni cosa si muovesse tra le nude rocce e le dune di sabbia costituenti il Deserto Meridionale giordano.

I militari presenti al controllo iniziarono a rilevare problemi relativi sia al cercametalli che alle apparecchiature fotografiche, in particolare i potenti e ingombranti zoom per catturare immagini a lunga distanza e i palloncini a elio ai quali venivano fissate le macchine fotografiche per le serie di foto dall’alto in autoscatto (i droni furono inventati decenni dopo).

Il responsabile della missione archeologica, Prof. Edoardo Borzatti von Löwenstern, era uno scienziato che conoscevo da circa quattro anni. Nutrivo una profonda stima per le sua preparazione professionale quale paletnologo e nel campo delle scienze naturali applicate all’archeologia. Inoltre, al netto delle sue eccentricità che a volte sfioravano la paranoia, mi aveva colpito la sua istintiva onestà e propensione al bene da gentiluomo d’altri tempi.

Edoardo, come con sana umiltà preferiva farsi chiamare anche dai giovani laureati, tentò di spiegare che era tutto regolare trattandosi del medesimo equipaggiamento adoperato negli anni precedenti, e che da lì a poco sarebbe arrivata la funzionaria responsabile per le Antichità della Giordania.

Aspettammo ancora un’ora è alla fine si materializzò un drappello di uomini in abito scuro, con al centro una donnona in tailleur XXL che si diresse a braccia aperte verso il nostro Edoardo, di taglia piccola e gracile, che immobile la guardò con sguardo rassegnato. “Eccola, quella è la Ministrona” mi disse con fare divertito il collega Fabio Vianello “Guarda quello che gli fa adesso!...”. La giovane collega Barbara Ingels, fedele assistente del Borzatti, si rifugiò alle nostre spalle dove iniziò a ridere e tossire.

Come se temesse che potesse sfuggirle, la funzionaria allargò le braccia e raggiunse con eccezionale rapidità il Prof, avvinghiandolo in un abbraccio surreale. Fu una scena da cartoons: la minuta figura vestita alla esploratore tedesco, con sahariana e pantaloni alla zuava bianchi, cintura e bandoliera in cuoio bruno così come gli alti stivali, sprofondarono sin quasi a scomparire, immerse nell’abbraccio della donna, che lo sollevò e lo scosse come un fuscello, le gambe e le braccia di lui tese ai lati, con le mani aperte per lo spasimo.

La testa immersa nell’enorme seno, con il volto rosso rivolto in alto, in cerca d’aria, Edoardo Borzatti von Löwenstern riuscì nonostante tutto a pronunciare una delle sue note esilaranti battute, brevi e sarcastiche, con accento fiorentino: “Com’è buona lei!”. La frase era presa in prestito da un film comico degli anni 1970, con l’attore Paolo Villaggio del ruolo del ragioniere Fantozzi.

Il nostro Edoardo a quel tempo era così. Non perdeva mai l’occasione per una battuta, allentando eventuali tensioni o spezzando la monotonia delle lunghe ore di studio che tutti assieme trascorrevamo nel Laboratorio di Ecologia del Quaternario, a Firenze, così come nelle lunghe marce del deserto. Era un umorismo alla toscana, spietatamente caustico, eppure contaminante.

Dopo averlo spupazzato con autentica gioia, la donna mollò la presa per dedicarsi alla formale stretta di mano ai partecipanti, stritolando quella di Fabio nell’impeto scaturito dall’emozione di rivederlo. Ridemmo ancora nel vedere il nostro prof ansimare privo di fiato, con i lunghi baffi scombinati e il vetusto casco da esploratore germanico adesso pendente sugli occhi. La funzionaria lo fissò preoccupata chiedendogli “Per lei qui è piuttosto caldo, eh?” Avendogli rivolto la domanda in Inglese, lingua ostica sia a lui che al Pardini (noto per la ricorrente frase “Non parlerò mai quell’idioma da pescatori nordici…”), rispose solo con un gesto di convenienza.

 

Qa Disi, marzo 1987

Essendo buona parte dei miei colleghi impegnati nei rilevamenti di incisioni rupestri (5), generalmente preferivo effettuare le mie esplorazioni archeologiche in solitudine, in un’area montuosa a nord di Qa Disi, talvolta accompagnato dal collega Fabio Vianello (6).

Solo in un caso ci muovemmo tutti assieme, quando dovemmo localizzare i resti di un insediamento eneolitico segnalato nella famosa Pietra di Jebel Amud (7). Mi offrii volontario per inerpicarmi su una collina rocciosa sovrastante una piccola struttura, un muretto a secco emergente dalla sabbia del deserto a causa dei venti che avevamo incontrato dopo una lunga marcia. Con mia grande sorpresa da quell’altezza mi si rivelò l’intera area dell’abitato sopravvissuta oltre cinquemila anni, con le basse mura perimetrali delle capanne e dei recinti per il bestiame villaggio. Scattai alcune foto a ricordo della scoperta e avvertii i miei compagni con alcune grida e segni.

A quel tempo non esisteva internet, né la telefonia mobile (tantomeno satellitare di uso civile) o la possibilità di comunicare via SMS. Se durante l’esplorazione accadeva qualcosa, nella migliore delle ipotesi bisognava attendere che all’appello della sera fosse constatata l’assenza e scattasse l’allarme, pur dovendosi aspettare sino all’indomani mattina affinché si avviassero le ricerche. 

Partivo all’alba, dopo una rapida colazione ad alto nutrimento. Lasciavo scritto un appunto con l’indicazione dell’area nella quale stavo dirigendomi e m’incamminavo con l’aria ancora intrisa del freddo pungente della notte.

Lo zaino in spalla, pantaloni resistenti ma leggeri, in cotone, le pedule alpine, i calzettoni di lana, gli schinieri antivipera, kit medico di pronto intervento, camicia con ampie tasche con i documenti personali, la matita con il taccuino per le osservazioni da annotare, il jacket senza maniche e dalle dodici tasche, la bussola e il binocolo allacciati al collo e riposti in due tasche pettorali, le borracce per un totale di quattro litri di acqua, la mappa del territorio su cui riportare i ritrovamenti, la crema di massima protezione solare. 

Nello zaino la macchina fotografica e i rullini in una borsa di cuoio, al riparo del caldo e della terribile sabbia di quarzo del deserto che avrebbe smerigliato le lenti, infiltrandosi dappertutto, il contenitore con quadretti di zucchero, un rotolo di ampi fogli tondi di pane beduino, un pezzo di sotto crosta di parmigiano reggiano stagionato, una mela. Fazzoletto rosso al collo. Gli occhiali polaroid con paraocchi, il cappello a larga falda, la piccozza da geologo “Eastwing” compagna di tutta una vita professionale, appesa al cinturone in cuoio toscano sul mio fianco destro e il lungo coltello multiuso nella fodera al fianco sinistro.

Ricordo ancora quell’indescrivibile senso di fiducia nella mia prestanza fisica, indispensabile in quella sconfinata libertà originata dalla visione di quegli interminabili paesaggi desertici, dalla perfetta solitudine in quel caldo secco che sembrava asciugare ogni dolore esistenziale, riducendo qualsiasi problema all’essenza, sbriciolandosi anch’esso in granelli in quell’oceano di sabbia rossastra dal quale emergevano isole di rocce nude di colore nero (basalto) o talora rossicce (stratificazioni arenarie ad alto contenuto ferroso).

Nei decenni seguenti, dopo avere condotto esplorazioni e scavi in deserti presenti in altre aree del pianeta, iniziai a comprendere che ogni deserto ha un suo ben distinto carattere, un insieme di dati non soltanto ambientali e paesaggistici, che interagisce con l’inconscio umano, con il risultato di lasciare emergere percezioni differenti quando si dimora in ognuno di essi.

Nei film, gli attori che attraversano i deserti sono sudati, distrutti dalla fatica. Nel deserto giordano, invece, non versai una sola goccia di sudore: l’evaporazione era istantanea e la sete inesistente, ma se non si beveva regolarmente per colmare la disidratazione, dopo parecchie ore ne arrivavano le conseguenze.

Gli occhiali con lenti paraloid di massima protezione e i paraocchi laterali furono provvidenziali non solo per evitare la cecità dall’esposizione ai raggi solari, ma anche l’abrasione della superficie oculare operata dai minuti granelli di quarzo.

Grazie al binocolo tascabile, ultraleggero e con risoluzione 7x21, su uno spuntone situato lungo un’erta parete rocciosa localizzai una struttura emisferica, a forno, costituita da lastre litiche. Dopo avere impiegato parecchia fatica nell’inerpicarmi per raggiungerla, al suo interno trovai un cumulo di frammenti appartenenti a un grande vaso globulare d’impasto marnoso, decorato in rilievo sulla spalla da un cordone a impressioni digitali. I caratteri del vaso suggerivano che l’insieme fosse riferibile agli inizi dell’Età del Bronzo, probabilmente una sepoltura o un’offerta votiva. Ad alcune decine di metri, inerpicandomi sulla nuda roccia trovai una serie di piccole cavità contenenti acqua stagna. Considerato il loro grado di abrasione, erano state scolpite in antico, allineate in posizione digradante dall’alto verso il basso, queste ultime di maggiori dimensioni. Mi chiesi se si trattasse di un luogo sacro sito nei pressi di una sorgente, esistente prima del totale avvento di quel deserto (8).

 

La Missione Archeologica italiana e i figli dello sceicco.

Quella di Qa Disi fu la mia prima missione archeologica nel Vicino Oriente. In quei giorni avrei compiuto  trent’anni, e con mio sommo piacere nella qualità di archeologo preistorico, ero stato invitato dal professore von Löwenstern, in quanto avevo sino al mese precedente tenuto lezioni di archeozoologia presso l’Istituto di Antropologia dell’Università di Firenze del quale era direttore. Alla missione partecipavano diversi colleghi toscani del Laboratorio di Ecologia del Quaternario dove mi ero internato sin dal 1984.

Tra i partecipanti vi era anche il direttore del Museo di Storia Naturale di Livorno, Dott. Gianfranco Barsotti, con il quale tempo addietro avevamo condiviso  l’esperienza di scuoiare e disossare una vecchia tigre in uno zoo, dopo aver prima aspettato l’effetto mortale del veleno iniettatole da un veterinario. La povera bestia era stata donata allo zoo, gravemente malata e sofferente, da un circo italiano che alla fine decise di abbatterla a causa degli improvvisi, terribili ruggiti di dolore anche in piena notte, che provocavano le urla di altri animali ospiti della struttura e le comprensibili proteste degli abitanti della zona. 

Scuoiare e disossare quell’enorme tigre dal corpo ancora caldo, constatare la consistenza e il peso delle masse muscolari, fu un’esperienza indimenticabile che mi fece intuire alla lontana le profonde paure e il notevole coraggio dei gruppi familiari della preistoria, e dei cacciatori delle tribù arcaiche del pianeta ancora esistenti in quegli ultimi decenni del ventesimo secolo.

A differenza dell’atteggiamento verso altre spedizioni scientifiche europee che avevano soggiornato nella zona, i beduini mostravano una particolare disponibilità per quelli che anche qui, in mezzo al deserto, eravamo chiamati “italiani brava gente”. Partecipavano alla nostra presenza con discrezione, ma era impossibile non notare la loro forte curiosità e il fascino che generava la nostra semplicità di proporci e la rilassata allegria, quel continuo scherzare su ogni cosa, a volte coinvolgendoli sino a ridere anche loro.

Da buon siciliano mi ero abbronzato in fretta, suscitando perplessità nel gruppo dei più anziani dei trentotto figli dello sceicco (negli anni seguenti ne nacquero parecchi altri), che con un giro di parole destinato a prevenire eventuali offese, chiesero al Pardini se avessi lontane origini Siriane (9). Risposi di essere diverso dai miei colleghi in quanto nativo della Siqiliya (Sicilia, in Arabo), suscitando sorrisi e gesti di apprezzamento. Mi aspettavo che pronunciassero anche qui la parola mafia, e invece appresi che gli insegnanti inviati dal governo giordano avevano nel corso delle loro lezioni parlato del Mediterraneo, e delle grandi conquiste dell’Islam in Europa, in particolare in parte della Spagna e l’intera grande isola di Siqiliya, possedendole per molti secoli.

Negli ultimi decenni, americani, australiani, inglesi, tedeschi… avevano evitato di intrattenere rapporti di amicizia con elementi della popolazione, di fornire notizie sul loro contesto culturale di provenienza, forse temendo pregiudizi di ambito religioso e quindi guai. A me accadde il contrario: i nostri ospiti erano solo assetati di conoscenza, di poter collocare se stessi in una visione spazio-temporale più ampia dei loro limiti nazionali, avere i mezzi per comprendere l’opera, ovvero il volere e il potere del Dio che amavano, temevano e pregavano assiduamente. Non a caso una sera, forse spinti dal padre, mi chiesero cosa si pensasse degli “uomini delle tende nere” in Europa. Risposi descrivendo l’Europa quale un’entità multiculturale, per cui la domanda aveva risposte differenti.

Fui subissato di domande sulla Sicilia, che concordavano di ritenere un grande giardino coltivato da discendenti di conquistatori arabi e per non rischiare di essere frainteso, risposi tramite un traduttore, un anziano che decenni addietro aveva lavorato con gli agronomi italiani. Una delle cose che li stupì maggiormente fu la presenza di tante lingue e dialetti in un’area così piccola come l’Europa, pur appartenendo tutti alla stessa religione cristiana. Le loro domande erano per me molto interessanti, in quanto per la prima volta vedevo il mio mondo da angolazioni a me sconosciute. Quando un giorno mi fu schematizzata, tracciandola sulla sabbia, la mappa del basso mediterraneo secondo il loro vecchio insegnante della “vera fede”, la costa africana era posta a settentrione e la Sicilia, Malta e Creta a meridione, ingigantite e irriconoscibili. Mi resi conto che quelle isole erano importanti in quanto celebravano l’antica potenza dell’Islam che i fedeli ritenevano un giorno sarebbe nuovamente esondata, conquistando il mondo. 

Dall’inizio di quegli incontri tutto cambiò nei miei rapporti con la governance beduina, a iniziare dai permessi di ricerca scientifica, potendo adesso accedere anche in aree vietate agli estranei.  

Così, Edoardo Pardini mi chiese di aiutarlo (in quanto von Löwenstern tergiversava) e in quella situazione non riusciva a perfezionare i suoi studi sui caratteri fisici della popolazione di Qa Disi, in particolare le misurazioni craniche e la determinazione del colore degli occhi. Ritenni opportuno parlarne con uno dei figli dello sceicco, che ne parlò al padre. Dagli sviluppi della vicenda ne nacque un aneddoto che in quegli ultimi anni 1980 conquistò la hit parade dei salotti fiorentini.

 

Come rischiare la pelle per studiare il colore degli occhi della popolazione Bedu.

Dopo alcuni giorni il Pardini ottenne la collaborazione richiesta. L’accordo era che avrebbe esaminato ogni clan familiare presente a Qa Disi e che gli esami sarebbero stati condotti in una comoda tenda beduina. Edo avrebbe effettuato le misurazioni, e io li avrei trascritti sotto sua dettatura in un registro già preparato per la schedatura, accompagnandoli da eventuali annotazioni. Avevamo redatto anche un prontuario contenente singoli termini anatomici, medici, gradi di parentela, e frasi di circostanza al fine di manifestare in lingua araba il nostro rispetto e gratitudine agli esaminati.

Posizionata e aperta su due lati in modo da mantenere una piacevole circolazione di aria fresca all’interno, nella grande tenda di lana nera sarebbe entrato solo un piccolo gruppo familiare alla volta. All’esterno, alcuni uomini attendevano al corretto svolgimento dello studio e della fila di individui da esaminare. Come d’uso, indossavano la kephia di cotone con motivi rossi su fondo bianco, che avvolgeva il capo, ampie vesti bianche, alla vita una larga fascia di stoffa, nella quale era fissato il fodero contenente il tradizionale pugnale a lama ricurva, un’arma che all’uso è in grado di produrre effetti tragicamente devastanti.

Venne fatto entrare il primo gruppo, due uomini e tre donne ai quali fu chiesto di scoprire il capo. Cosa che fecero con timore. A quel punto, Edoardo pose sul tavolone una borsa di pelle ed una valigetta a cassettiera, del tipo da rappresentante di gioielli. Dalla prima tirò fuori, uno dopo l’altro e con rumore di ferraglia, una serie di strumenti da misurazione che, pur conoscendoli e avendone già usato alcuni, devo ammettere che in quelle circostanze suscitarono anche in me un istintivo ribrezzo.

Come se non bastasse, con nonchalance aprì di botto la valigetta, che meccanicamente si mostrò una gradinata di cassetti ognuno contenente decine di occhi di vetro incassati nel velluto scuro, con le pupille di varie tonalità di colore e particolarità (10). L’insieme aveva l’aspetto tremendamente realistico di una collezione di occhi estratti a discapito di chissà quanti poveri disgraziati.

La combinazione degli strumenti di misurazione, alcuni dei quali a forcipe, e gli occhi giacenti nei bizzarri contenitori era piuttosto macabra e tutt’altro che rassicurante e, come prevedibile, provocò le acute urla di paura delle donne e quelle di disprezzo guerriero degli uomini. Le guardie entrarono immediatamente, e dopo avere constatato l’efferatezza di quanto gli si presentava innanzi, si posero a protezione del gruppo gridando rabbiosi una raffica di domande, forsanche avvertimenti e probabilmente qualche insulto in lingua araba.

Il Pardini peggiorò la situazione come solo uno scienziato del suo calibro, candidamente con la testa tra le nuvole, stava riuscendo a compiere. Rispose in lingua italiana con occhi spiritati, alternando sghignazzi a suo modo rassicuranti e cenni delle mani, nelle quali teneva un calibro in acciaio con asticelle curve e appuntite: “Ma no, venite qua, poveri cari… ah-ah-ah… devo solo prendere alcune misure, nulla più!... Insomma, venite...” e indicando i loro occhi, prendeva in mano un bulbo oculare di vetro dopo un altro e a suo modo mimava l’attività di misurazione e di comparazione, ma con un risultato che sembrava volesse significare un’estrazione. “Questi sono solo campioni!...ah-ah-ah…”, e li agitava davanti ai beduini ormai in preda alla paura più profonda. Così, le guardie ci spinsero fuori dalla tenda in malo modo e “i nostri esemplari”, come asetticamente li chiamava il Pardini, ne approfittarono per dileguarsi.

Alcune ore dopo giunse il figlio prediletto (11) dello sceicco, Sayed. Il padre lo aveva mandato a lavorare in una base militare americana, dove aveva prontamente imparato la lingua inglese, evitando in base alla sua buona educazione islamica, di ripetere le consuete intercalazioni di espressioni volgari. La situazione gli fu subito chiara e tutto si risolse in breve. Lo avevo già visto una sera, defilato in retrovia, ad ascoltare le mie risposte alle domande che mi rivolgevano i suoi fratelli maggiori. Era un giovane dotato di una mente di primordine e di una educazione raffinata, alla quale aveva associato una qualità ereditata dal padre e con questi accuratamente coltivata: l’arte della conversazione.

Constatai così il notevole grado raggiunto, nonostante avesse solo ventitré anni, nello studio e nella memorizzazione del Corano, e una accurata conoscenza delle discipline tradizionali amate dagli arabi di rango elevato, dalla filosofia alla matematica passando dalle scienze naturali. Sarebbe stato un erede straordinario, e lo sceicco (12) ne era pienamente cosciente. D'altronde, più alto è il numero dei figli, più alta è la possibilità di ottenere un erede di grandi qualità apprezzate dal suo popolo.

Gli presentai le mie scuse per quanto avvenuto, ma scosse una mano per indicare una situazione compresa e superata, e con mia sorpresa m’invitò a accompagnarlo a ispezionare un’oasi sita in quel vasto deserto. Una immensa piscina attorniata da un antico palmizio. Per arrivarci attraversammo una distesa deserta di fango indurito, piatta, al punto di essere un sorta di autostrada priva di confini. Fu la prima volta che mi capitò di osservare il tipico fenomeno del miraggio, nella fattispecie un insieme di palme antistanti a un vasto specchio d’acqua, che comparì e si dissolse all’orizzonte, nel tremolio dell’evaporazione. Mi lasciò un senso di smarrimento amplificato dalla notevole calura, pur avendo assistito comodamente seduto nella jeep e non dopo ore di martoriante cammino in groppa a un dromedario.

La conversazione fu molto piacevole. Chiedevo degli usi, costumi e tradizioni della sua gente e in cambio gli chiarivo quanto avevo appreso dell’archeologia preistorica, degli ultimi studi sulle raffigurazioni incise sulle rocce del Deserto Meridionale giordano (dove già a quel tempo Edoardo Borzatti von Löwenstern ne aveva catalogate oltre diecimila), degli studi sull’origine delle attuali faune selvatiche della Giordania. Si soffermò sulla caccia, una delle attività preferite della classe aristocratica araba, soprattutto quella con il falcone, che io conoscevo attraverso gli studi pubblicati da Federico II di Svevia con la collaborazione del figlio Manfredi.

Rientrammo a Qa Disi nel primo pomeriggio e nel separarci mi invitò a cena nella sua tenda dove conobbi la moglie, una giovane donna di rara fine bellezza, della quale era profondamente innamorato e dalla quale era sinceramente ricambiato. Attendevano un figlio, e per lei aveva rifiutato di esercitare il suo diritto alla poligamia. Mi colpì la sua sincera ammirazione per l’organizzazione sociale israeliana, in particolare la coesione presente nei kibbuz, un fatto che anni dopo mi indusse a chiedermi se queste convinzioni fossero state alla base del suo omicidio, avvenuto ad Amman dove si trovava per svolgere alcuni incarichi per conto del padre (13).

Avendo espresso il desiderio di poter osservare il comportamento delle iene e, ancor più, quello delle volpi del deserto, si offrì di organizzare una battuta di caccia alle gazzelle (gazāla, in arabo) per l’indomani notte, nel corso della quale avremmo certamente potuto osservare anche altri animali selvatici. Avrebbe curato personalmente la preparazione di quanto necessario: armi e munizioni, il kit medico di pronto intervento, un veloce fuoristrada, una guida armata di kalashnikov, alimenti e bevande e quant’altro. Da parte mia, avrei convinto l’amico e collega Fabio Vianello a unirsi all’avventura, ben sapendo che per suo carattere non si sarebbe tirato indietro.

 

Come andare a caccia di gazzelle in piena notte e finire in un affascinante rituale.

Partimmo in quattro a tarda sera. La guardia del corpo al volante, e al suo fianco Sayed con uno dei kalashnikov a portata di mano, Fabio ed io occupavamo i sedili posteriori. Alle nostre spalle il sole era già scomparso all’orizzonte, illuminandolo di un rosso infuocato. Ci muovemmo in direzione opposta, verso le tenebre che lentamente iniziavano a scendere sul confine desertico con il regno saudita.

Avevamo percorso circa due ore di pista, e ci trovavamo attorno alla mezzanotte innanzi a una stretta gola rocciosa. Alla guida adesso vi era Sayed, che rallentò sino a passo di marcia, finchè davanti ai fari si materializzarono due militari fasciati dalla kefia e armati di fucile. Mi accorsi che avevamo fatto un ampio giro a semicerchio, quando riconobbi le divise della Guardia Beduina di Wadi Rum, luogo noto al pubblico Occidentale per le famose scene del film storico “Lawrence of Arabia” (14).  

Un militare graduato, con mantellina rossa e pistola alla mano, si avvicinò al lato del guidatore con fare poco rassicurante. Senza alcun preambolo iniziò uno scambio di frasi in arabo con apparente tono minaccioso. Alla fine l’ufficiale dette uno sguardo ai sedili posteriori della jeep, fissandoci a lungo. Quindi si allontanò, e con certa apprensione chiedemmo a Sayed cosa stesse accadendo. Con altrettanto fare preoccupato il nostro amico ci rispose che dovevamo seguire i militari nella vallata, ma non sapeva spiegarsene il motivo.

Nell’oscurità si accesero i fari di due camionette che ci scortarono per circa venti minuti. Alla fine arrivammo in un’ampia vallata illuminata da un falò, ove erano posteggiati parecchi fuoristrada. Radunati presso un riparo sotto roccia, una moltitudine di uomini gridava in coro a circa duecento metri da noi. Scorgemmo musici e danzatori beduini. Sayed ci guardò ridendo: si trattava di una cerimonia iniziata la sera precedente, un matrimonio al quale avevamo avuto l’opportunità di assistere anche se stranieri. Era evidente che adesso eravamo in condizioni di parità con quello che era accaduto nella tenda grazie al Pardini. Ne fui felice e iniziai a ridere anch’io di gusto per lo scherzo ben congegnato.

Seduti in grande cerchio presso gli anziani, ci fu offerto di condividere un forte caffè alla beduina, in tazzine di pregevole fattura ottomana, oggi direi certamente Iznik, e non ci sarebbe molto da stupirsi se fossero state parte del bottino di chissà quale antico attacco predatorio. Azioni del genere erano state comuni sino a circa una cinquantina di anni addietro. D'altronde, il deserto possiede una straordinaria capacità di assorbire immense quantità di sangue e di far scomparire in pochi anni i resti di intere armate.

Dopo aver cercato con lo sguardo attorno, con molta discrezione chiesi al nostro amico arabo dove fossero le donne. Mi indicò alcune figure coperte di mantelli scuri, sedute in cerchio davanti ad un fuoco acceso presso un altro spuntone roccioso, a circa cinquanta metri dal nostro. La promessa sposa era posta al centro del gruppo, ma in posizione di alcuni metri più avanzata e affiancata dalla madre. Innanzi ad essa, a circa trenta metri, una fila di uomini che avanzavano e indietreggiavano tenendosi a braccetto, e nel contempo gridavano cantilenando all’unisono una frase araba, ripetendola monotonamente senza sosta. Ne domandai il significato a Sayed, che tradusse: “Il tuo uomo è forte, il tuo uomo è buono, il tuo uomo è bello”.

Fummo invitati con insistenza a sostituire alcuni componenti della fila, e per circa mezzora, cinque passi avanti e cinque indietro, assieme a Fabio e Sayed intonammo anche noi quella melodia che, suppongo, dovesse risultare irresistibile alla sposa. Dal tramonto all’alba la giovane e le sue parenti assistettero immobili a quella danza, con stoica dedizione che forse l’avrà condizionata o convinta per la vita.

Talvolta, alla musica ed ai cori di grida si univano gli spari di pistole, fucili e mitraglie. La cerimonia continuò sino al tramonto del giorno seguente, con un lunghissimo pranzo a base di una montagna di riso sormontato da carne di montone e di pollo condita con burro acidulo. Ci addormentammo accanto ai fuochi e rientrammo al campo all’alba di alcuni giorni dopo. Volpi e iene le incontrammo in altre occasioni.

La sera prima di lasciare il deserto giordano avevo rivisto per l’ultima volta Sayed e la moglie, e per l’occasione feci dono del mio coltello, sino a quel momento portato sempre addosso durante le mie solitarie esplorazioni naturalistiche e archeologiche in Europa e infine in Giordania. Era il modello contenente il survival kit al gran completo, divenuto popolare tramite l’attore Silvester Stallone nel primo film della serie “Rambo”.  

 

Il piacevole interrogatorio a Amman

Tempo dopo decisi che era tempo di raggiungere la capitale Amman, sita a nord, dove mi presi alcuni giorni di riposo in un delizioso albergo consigliatomi da Fabio. Giunsi nella metropoli dopo un illuminante viaggio in autostop durato circa mezza giornata svolto in camion da Aqaba, dove mi ero recato a pranzo con alcuni colleghi della missione per festeggiare la partenza. L’autista, era un egiziano mio coetaneo che, felice di non viaggiare in solitudine come gli avveniva quasi tutti i giorni lungo quella tratta, si rivelò un inaspettato cicerone che mi descrisse il suo modo di vedere la società giordana.

Arrivato ad Amman l’egiziano ebbe la gentilezza di accompagnarmi sino all’albergo dove Fabio mi aveva prenotato una camera, una struttura gradevole con ampia vista sul famoso colonnato del Forum romano di Philadelphia. Il direttore mi invitò nel suo ufficio, dove nel corso del rito del benvenuto in presenza di una eccellente tazza di tè, mi fornì il necessaire raccomandatogli da Fabio. Ricevetti così una lista di indirizzi di ristoranti, una stecca di sigarette Camel senza filtro (quella che i miei colleghi chiamavano la “Bamba del Deserto”, una deliziosa rarità di produzione riservata agli ufficiali dell’aviazione giordana, contenente il nero tabacco siriano Latakia e chissà quale sostanza vagamente rilassante, e il numero di telefono dell’accompagnatrice turistica preferita da Fabio, una giovane donna dal fare sensuale e affascinante, che parlava con scioltezza molte lingue tra le quali l’italiano. Fu una guida deliziosa, leggiadra e erudita.

Svolgeva quel lavoro da parecchi anni e fu anche una fonte di informazioni, benché già note in Italia persino ai giornali, su fatti dei quali nell’accampamento beduino nessuno parlava, quali ad esempio certe esecuzioni durante gli eventi del cosiddetto Settembre nero (15). Tuttavia, spesso interrompeva quelle “confidenze” chiedendomi dei risultati della missione archeologica, notizie personali dei partecipanti, il comportamento dei beduini, gli avvenimenti che mi avevano colpito, con quale mezzo avessi raggiunto Amman. Era un modo da manuale di sondare, in modo piacevolmente amichevole, cosa avessi fatto e saputo.

Fabio mi aveva abbondantemente avvertito del principale lavoro della donna e se da un lato mi astenni dal fare la stupidaggine di fornirle notizie false o tendenziose, mi limitai alle informazioni già note al governo giordano o a eventuali altri di quell’area. Tralasciai quindi di riferire sui rapporti di amicizia con Sayed, le confidenze ricevute, eventuale uso di alcolici da parte di componenti della missione e provenienza della bevande (non tollerate dalla legge islamica) o le mie riflessioni su quanto visto o appreso. Quando infine la giovane si spinse a pormi domande nel momento meno opportuno, mi limitai a sorriderle fissandola a lungo negli occhi, e finalmente cambiò atteggiamento.

Mi fermai ad Amman alcuni giorni, all’alba dell’ultimo ci salutammo amichevolmente e, come da programma, mi recai all’aeroporto dal quale presi un volo diretto a Roma. Ovviamente, mi recai al check in non prima di avere controllato accuratamente se nel mio bagaglio fosse stata aggiunta qualcosa di compromettente.

 

Note

1) ne ho già messo in evidenza i meccanismi nell’articolo  pubblicato il 19 giugno 2023 su questo blog: Rapa Nui (Isola di Pasqua, Cile). L’incerto futuro di una remota comunità dell’Oceania agli inizi della crisi egemonica nel mercato globale 

https://www.thereporterscorner.com/2023/06/rapa-nui-isola-di-pasqua-cile-lincerto.html

2) è da notare che l’acquedotto Qa Disi – Amman è stato completato dall’impresa turca GAMA, un fatto che corroborato da altri eventi recenti indica il grado di espansione della potenza economica e politica turca nell’area, piuttosto attiva negli ultimi decenni non solo nella fascia nord africana ma anche nel Vicino Oriente. Il fatto è eclatante, considerato che si tratta di un’area che appartenne all’Impero Ottomano sino alla fine del Primo Conflitto Mondiale, ovvero a circa un secolo addietro, perso a causa della Rivolta Araba (1917-1918) finanziata da Inghilterra e Francia.

3) alcuni anni fa, ricerche idrogeologiche effettuate dagli statunitensi a Qa Disi, hanno accertato che l’acqua estratta dai pozzi del Deserto Meridionale della Giordania contiene sostanze radioattive (in particolare radium, toro e barium). Essendo le quantità superiori a quelle tollerate dall’organismo umano, devono quindi essere trattate prima del loro uso sia potorio che per le coltivazioni, per cui il governo giordano ha già da tempo provveduto a istituire il regolare trattamento di tutte le acque estratte. Bisogna altresì specificare che le formazioni rocciose risalenti al Cambriano/Ordoviciano contengono sempre alte quantità di radium, in qualunque luogo del pianeta esse si trovino. Approfonditi accertamenti sono stati condotti dalla IAEA, l’Atomic Energy Agency e un estratto della ricerca è disponibile online all’indirizzo:

https://nucleus.iaea.org/sites/orpnet/home/Shared%20Documents/T1-Dam-Treatment-of-Drinking-Water-Jordan.pdf .

4) in Ahmed Bani Mustafa, 29 gennaio 2018,  The Jordan Times (consultato in data 11-07-2023)  https://www.jordantimes.com/local/97-cent-increase-wadi-ram-visitors-13-cent-aqaba

5) oltre diecimila gruppi d’incisioni di varia grandezza eseguite su rocce, massi, lastroni litici, prodotte da varie culture databili tra la preistoria e gli inizi del ventesimo secolo.

6) allievo prediletto da Edoardo Borzatti von Löwenstern, Fabio Vianello ne era divenuto in seguito prezioso assistente presso il Laboratorio di Ecologia del Quaternario. Ci frequentammo molto nel corso degli anni trascorsi a Firenze, facendo entrambi parte di una folta combriccola di studiosi in varie discipline che la notte era dedita a vagare da una festa a un’altra. Fabio morì in un incidente aereo avvenuto attorno alla metà degli anni 1990, assieme ad una cara collega e due validi giovani ricercatori, mentre con un aliante sorvolavano il sito preistorico di La Pineta (Isernia) per effettuare alcune foto degli scavi in corso ai quali partecipavano. Fu una grave perdita per la ricerca paletnologica italiana.

7) una delle più antiche pietre topografiche oggi note, datata tra il 3500 e il 3000 a.C., identificata da Edoardo Borzatti nel 1979. Vi sono scolpite con grande precisione le vie di comunicazione e insediamenti inerenti a un territorio di 2500 chilometri quadrati.  

8) raccolsi i frammenti del vaso e li depositai nel magazzino del nostro accampamento a Qa Disi. Dopo la mia partenza, Fabio Vianello ottenne un permesso dalle Autorità di competenza giordane, e inviò l’insieme al Laboratorio del Centro Studi per l’Ecologia del Quaternario a Firenze, dove il vaso venne restaurato nel corso degli anni seguenti.

9) ricordai il fatto circa vent’anni dopo, quando la stessa domanda mi fu rivolta anche a Kiev, in Ucraina, da due ex ufficiali siriani stupiti dalla mia straordinaria somiglianza con il nipote prediletto del mufti di Aleppo, deceduto ancora giovane anni prima e in circostanze che non mi furono chiarite. Mi fu detto che il religioso di Aleppo sarebbe stato certamente felice di conoscermi, ma non ne ebbi la possibilità a causa dello scoppio della guerra civile in Siria.    

10) sembra che si trattasse di un’antica collezione appartenuta al celebre antropologo Paolo Mantegazza. Non saprei dire se appartenesse al Pardini o all’Istituto di Antropologia, che tra l’altro aveva sede nell’antico e magnifico palazzo rinascimentale dei Mantegazza, al quale si accedeva da Via del Proconsolo, a poche decine di metri dal Duomo.

11) che da qui in avanti chiamerò Sayed, al fine di non evocarne il vero nome, per rispetto al suo eterno sonno giunto violento e prematuro.

12) lo sceicco Juleil Soudan Abu Kayed, cugino di primo grado del re Hussein. I rapporti erano di totale fedeltà di clan feudatario consolidato da legami familiari. Legato da profonda amicizia con Edoardo von Löwenstern, morì alcuni anni prima di Fabio Vianello a causa di una lunga malattia gravemente invalidante.

13) alla fine degli anni 1990, di passaggio a Firenze mi fermai a salutare Edoardo von Löwenstern, per fargli le condoglianze per la morte di Fabio Vianello. Nel corso della visita fui messo al corrente della morte di Sayed, anch’essa prematura. Domandai se fosse stato messo al muro in modo violento e accoltellato. Sorpreso, mi chiese come lo avessi saputo, essendo una vicenda non rivelata dalla stampa. Così fui costretto a riferirgli come facesse parte di un gruppo di visioni che avevo avuto all’Isola di Pasqua, nella Polinesia Cilena, durante gli scavi di un insediamento preistorico presso i quali mi ero accampato con una cara amica olandese. Nella fattispecie si trattava di sogni premonitori, nitidi, che ebbero la peculiarità di essersi tutti avverati nell’immediato o nel corso degli anni seguenti.          

Per ulteriori notizie sulla vicenda rimando all’articolo pubblicato su questo blog il 7 aprile 2023, Isola di Pasqua, Cile, 1991. Testimonianza di fenomenologia N.O.E. (not ordinary experiences) vissuta nel corso degli scavi archeologici condotti a Puna Marengo, e in particolare al capitolo Eindpunt, Tokerau e la Vecchietta.

https://www.thereportercorner.com/2023/04/isola-di-pasqua-cile-1991-testimonianza.html

14) tratto dal racconto autobiografico del Colonnello Thomas Edward Lawrence, Seven Pillars of Wisdom” (scritto tra il 1919 e il 1922, ma edito nel 1926), il film è un adattamento romanzato del 1962 al fine di ottenere un colossal storico in stile anglosassone. Nel cast di eccellenza figurano attori quali Peter O’Tool, Omar Sharif, Anthony Quinn e Alec Guinnes. Quest’ultimo era stato scelto per la straordinaria somiglianza al re Feisal e in molti, incontrandolo, credettero fosse realmente l’ex regnante, inspiegabilmente non invecchiato.

Nel 2005, durante un mio breve viaggio di studi in Siria, un anziano antiquario e uno dei coetanei suoi ospiti fissi del pomeriggio, un colonnello in pensione, mi riferirono che in Siria le reazioni più eclatanti si ebbero a Damasco, e in particolare in quell’area della Cittadella, dove ci trovavamo, tra la grande moschea e il mercato. Era la città di provenienza della dinastia di Feisal e capitale del suo brevissimo regno, dove Guinnes aveva soggiornato nel corso delle riprese del film.

15) una vicenda che ancora oggi grava pesantemente sui rapporti tra la parte di origine palestinese, oggi costituente circa il 70% della popolazione, e quella araba propriamente detta, in gran parte di etnia beduina. Il primo settembre del 1970, dopo avere subito una serie di tentativi di assassinio condotti al fine di rovesciarne il regime monarchico, il re hascemita Hussein decise di affrontare militarmente le potenti organizzazioni palestinesi. Il conflitto armato fu particolarmente violento, causando decine di migliaia di morti, in gran parte civili, e coinvolgendo le forze armate di Egitto, Siria, Stati Uniti e Israele. Si concluse con un trattato di pace firmato al Cairo nel luglio del 1971.

 

Rapa Nui (Isola di Pasqua, Cile). L’incerto futuro di una remota comunità dell’Oceania agli inizi della crisi egemonica nel mercato globale.

di Pietro Villari, 19 Giugno 2023. Tutti i diritti riservati.

 

Claude Levi Strauss, “Tristi Tropici” e l’epilogo dell’antropocentrismo globalista

La mia generazione di paletnologi provenienti dagli studi naturalistici, formata tra la metà degli anni 1970 e i primi anni 1980, ha avuto la buona stella di nutrirsi non soltanto di forti ideali, dell’insegnamento e delle frequentazioni con eccellenti studiosi, di condurre esplorazioni archeologiche nei più affascinanti e remoti siti a quel tempo conosciuti, ma anche di partecipare in modo costruttivo ai dibattiti che generarono i nuovi approcci metodologici e dottrinali della nostra professione. Per me e alcuni altri colleghi della scuola di specializzazione dell’Università di Pisa e in seguito presso il Laboratorio di Ecologia del Quaternario dell’Università di Firenze, tra i testi fondamentali svettavano quelli di Claude Levi-Strauss (1908-2009), padre dell’antropologia strutturale. Ogni volta che li rileggevo saltavano fuori nuovi spunti utili alle indagini.

Tra i suoi scritti tutti noi preferivamo “Tristi Tropici” (1), un’opera geniale: diario di appassionata ricerca scientifica nella selva amazzonica, romanzo autobiografico, struggente resoconto etnografico, testimonianza dell’irreversibilità della perdita delle culture arcaiche e tradizionali del pianeta, e non ultimo opera a tratti filosofica, in alcuni punti con latenze profetiche. Mi colpiva l’asettica mancanza di riferimenti realmente spirituali, come se il vissuto avesse precluso ogni speranza all’autore. Eppure, per chi voglia sentirlo, il sacro aleggia in ogni pagina dei suoi libri, pur essendo d’indirizzo razionalista.

Come già tra i beduini del deserto giordano, nei remoti villaggi delle Ande peruviane, e persino a Rapa Nui, la più isolata delle isole polinesiane, avevo in quegli anni compreso tutta l’amarezza di Lévi-Strauss negli ultimi due decenni della sua vita centenaria: ogni possibilità sognata da giovane di potere vivere e studiare le affascinanti, esotiche e remote comunità “primitive” era ormai preclusa in quanto estinte. Ne potevo solo constatare le tristi conseguenze, essendo state profondamente corrotte e fagocitate nel confronto con l’imponente opera distruttiva condotta dal potere della modernità, dal neocolonialismo e dal globalismo con la finalità di indurre una totalizzante monocultura planetaria.  

Alla fine degli anni 1970 la maggioranza degli studiosi italiani non riusciva ancora a cogliere il senso profondo di quella sorta di afflizione luttuosa, fortemente percepibile soprattutto tra gli antropologi francesi, per la scomparsa delle ultime popolazioni “primitive” e del loro ricchissimo patrimonio culturale. Un’Umanità che per centinaia di migliaia di anni aveva vissuto in armonia con l’ecosistema nel quale si sentiva parte e non padrona, dissolta innanzi a realtà foriere di nuove peggiorative sciagure, epilogo della deriva comportamentale antropocentrica.

 

Rapadisneyland

Annichilamento dei valori fondamentali della cultura indigena, sovrappopolamento, insufficienza delle attività di sussistenza, depauperamento delle risorse alimentari disponibili, smaltimento dei rifiuti solidi, inquinamento costiero e delle falde acquifere, effetti della diminuzione della quantità annua di pioggia, erosione dell’intero perimetro costiero, dilavamento del suolo, costante presenza annuale di incendi dolosi, contrapposizioni etniche, rappresentano per Rapa Nui le problematiche attualmente individuabili per affrontare il suo futuro. Esse richiederebbero scelte politiche ed economiche immediate, alcune certamente impopolari, al punto che difficilmente si opererà con efficacia per risolverle entro il corrente decennio.

Quanto oggi sta avvenendo, è invece definibile quale un’impegnativa operazione d’interesse politico, il cui fine è di istituire nell’Isola un’imponente apparato amministrativo burocratico a guida tecnocratica, in grado di garantire un sistema di controllo totale del governo cileno delle attività in essa svolte. Esso costituisce una pericolosa arma a doppio taglio per tutti i giocatori seduti al tavolo di questa partita, in quanto la posta è la formazione del potere dominante locale, quale parte di quello nazionale cileno a sua volta componente del gruppo sudamericano filo-occidentale.

È una occasione rara quella che oggi si presenta agli studiosi, di osservare le dinamiche di istituzione e sviluppo sia della piramide della pubblica amministrazione di un sistema politico-economico geograficamente circoscritto come quello di Rapa Nui e sia, come sempre avviene in queste circostanze, del gruppo locale Deep State quale riferimento di quello nazionale e quindi dei poteri transnazionali ai quali questo è connesso (2). Infine, le scelte di oggi saranno alla base delle risposte agli eventi internazionali che accadranno in gran parte del corrente secolo.

Quel che oggi possiamo constatare è che da una parte vi è il veloce avanzare del programma governativo finalizzato a potenziare il controllo dell’isola tramite una piramide tecnico-amministrativa locale, che va ad affiancarsi alla presenza delle forze cilene dell’esercito e di polizia.   Essa sarà nei prossimi anni costituita da un folto gruppo di giovani nativi indottrinati in Continente e ben pagati, con il ruolo di classe dirigenziale degli organismi di governo dell’isola, e ai gradini inferiori gli impiegati con ruoli minori. Il corpo locale di “rangers”, in dotazione del dipartimento del Natura & Monumenti, verrà a breve notevolmente rinforzato con nuovo personale per le funzioni di controllo a salvaguardia del parco e in generale del patrimonio diffuso in tutta l’isola, costituendo una forza di polizia ben dotata di automezzi, tecnologie d’uso internazionale nei parchi naturali e adeguatamente armata.

Dall’altra parte, è ovvio prevedere che questa piramide filo-governativa comporterà costi di gestione molto alti per la comunità, a iniziare dagli stipendi e dai mezzi e tecnologie impiegate che necessariamente assorbiranno parecchia energia elettrica, un bene prezioso per una piccola isola in mezzo a un oceano. Tutto questo potrebbe divenire incompatibile con il sistema, nel caso si verificasse una lunga crisi dell’economia isolana, essendo attualmente fondata sulla precaria sostenibilità delle attività turistiche, dipendendo questa innanzitutto dalle capacità del trasporto aereo e dalle libertà di viaggio concesse dai Paesi di provenienza, che in tal modo mantengono costanti i flussi di enormi masse di turisti registrate nell’ultimo decennio. Tuttavia, l’intenso sfruttamento per finalità turistiche rappresenta la principale causa del logoramento fisico dell’isola e culturale della sua popolazione, un problema di crescente gravità che presto o tardi presenterà il conto.

È inoltre intuibile quanto questa costruzione piramidale burocratica, definibile una sorta di robusta guaina a maglia debolmente elastica che in teoria dovrebbe garantire il buon governo, il costante monitoraggio e la tenuta della comunità, possa al contempo minare le basi della coesistenza e le aspirazioni indipendentiste indigene. Non è affatto raro che in una regione occidentalizzata, la presenza di un coacervo di entità amministrative in un territorio a statuto speciale, come ad esempio Rapa Nui, possa condurre all’insorgenza di una particolare casta sociale i cui ruoli travalicano le finalità d’interesse filogovernativo.

Difatti, anche se poco nota alle cronache giornalistiche, fatto di per sé altamente inquietante, la sua principale attività “parallela” è destinata a divenire ben presto quella di struttura a polifunzionalità logistica, più o meno segretamente collegata a strutture del potere dominante transnazionale, alle sue filiazioni imprenditoriali lobbistiche multinazionali, ai club service filo-occidentali quali il Rotary e le Massonerie (3). Un apparato logistico la cui ramificata fitta presenza nel territorio, generalmente caratterizzata da autorità autoreferenziali, connivenze corporative e comportamenti omertosi, è in grado di corrompere i propositi governativi, creare profonda ostilità nella popolazione, giungendo a favorire l’atavica aspirazione indipendentista fondata sul ritorno all’antico stile di vita polinesiano.

Notiamo una simile situazione in molti altri luoghi (in particolare le isole) del pianeta, che sottoposti al sistema egemonico “occidentale” hanno assunto i caratteri tristemente noti con il termine di repubbliche delle banane, dove impera la vasta gamma delle possibilità corruttive della pubblica amministrazione e l’assenza di giustizia sociale. Per diretta esperienza posso riferirmi a quello che rappresenta un classico esempio dei risultati dell’operazione di manipolazione occidentalizzante: la Sicilia.

Anche qui vi è una popolazione storicamente di forte vocazione indipendentista, che a sua insaputa è stata manipolata in modo da soddisfare politicamente e economicamente le classi sociali media e alta con la concessione dello Statuto Autonomo. Al contempo, l’operazione è stata accompagnata dall’istituzione di un mastodontico apparato burocratico di controllo (la “guaina” sopra citata), e sede di importanti basi militari statunitensi, in quanto luogo altamente strategico del sistema egemonico del cosiddetto Blocco Occidentale.

Oltre la metà della  popolazione siciliana ha oggi perso gran parte del suo patrimonio linguistico, il principale elemento dell’identità culturale che la caratterizzava sino agli anni 1960, sostituito da quello italiano. In tal modo, private dei profondi significati esistenziali della sicilianità, le attività di ricerca scientifica e valorizzazione del suo patrimonio archeologico, monumentale e naturalistico, e delle tradizioni popolari, sono divenute solo un contenitore di elementi utili allo sfruttamento turistico. Del popolo siciliano, esempio di alienazione in quanto estraniato da se stesso, oggi sono rimaste solo le caratteristiche peggiori, essendo ormai una società che ha fatto a suo modo propria e scimmiotta la standardizzazione piatta dello stile di vita americano, peraltro finanziata con fondi che lo Stato italiano ha ottenuti in prestito dall’Unione Europea. Nell’impossibilità di restituirli alla data pattuita, renderanno lo Stato insolvente e quindi totalmente alla mercé dei poteri transnazionali che rappresentano il vero potere dominante all’interno dell’Unione Europea (4).

L’istituzione a Rapa Nui di una piramide di potere governativo cilena, è un modo di garantire al sistema filo-occidentale che, nel caso tra alcuni decenni (ovvero almeno una nuova generazione rapanui) si giunga alla decisione di rendere indipendente l’isola, questa sia stata modificata con manipolazioni finalizzate a determinare il fenomeno dell’etnolisi. A questo sono difatti riconducibili il recente enorme numero di incroci di indigeni con elementi alloctoni e la creazione di una quantità di posti di lavoro governativi, fondamentali per “naturalizzare” e rendere quindi stabile la futura appartenenza della popolazione dell’isola alla sfera culturale occidentale.

La comparazione con la dissoluzione dell’antico indipendentismo siciliano (5), pur comparendo differenti attori, ci riporta a quanto sta avvenendo all’indipendentismo rapanui, alle cause dell’impossibilità di una piena restaurazione dei valori della sovranità indigena.

Il problema che oggi si pone ai Rapanui è come confrontarsi con le promesse di benessere immediato, sostenute dalla creazione di un’imponente dislocazione di posti stabili e ben pagati di lavoro e poter accedere all’acquisto di moderne tecnologie, accettandone l’offerta in cambio della conversione al modello di vita occidentale. E tutto questo pur sapendo che di conseguenza dovranno accettare di divenire oggetto di quelle fameliche operazioni di sfruttamento territoriale, condotte dai diversi gruppi di potere che compongono il sistema dominante in quell’area filo-occidentale dello scacchiere geopolitico internazionale.  

I caratteri dell’indipendentismo presente a Rapa Nui ha fondamenti legittimi, essendo internazionalmente riconosciuto il diritto all’autodeterminazione di un gruppo etnico culturalmente e territorialmente identificabile. Di conseguenza, lo è anche l’aspirazione a ristabilire l’antica suddivisione dell’isola in aree occupate da clan; il diritto del Consiglio dei Capiclan a eleggere un sovrano dell’Isola; e non ultimo il diritto al rifiuto a condurre uno stile di vita quotidiana dominata dagli stressanti ritmi della cultura Occidentale.

In breve, quello indigeno rapanui è un modello culturale totalmente incompatibile con il progetto di esportazione nell’isola della “democrazia made in America”, quell’inaccettabile travestimento del vertice capitalistico, fondamentalmente anarchico ma devoto al sistema intriso di patriottismo da esso creato per controllare le classi ad esso subordinate, gravemente drogate dal benessere consumistico. Un folle piano espansionista liberista, per metà narcisistico e l’altra metà affaristico, dove tutto deve cambiare affinché nulla cambi al vertice, professato quale Nuovo Ordine Mondiale e brillante futuro del pianeta. Un piano cinico, in bilico tra la scelta di una catastrofe fallimentare del sistema occidentale fatta avvenire al rallentatore, e quella che inizia a ritenere la sua unica alternativa di salvezza, rappresentata dall’attivazione di una guerra mondiale di saccheggio totale delle risorse in aree oggi al di fuori dalla sua egemonia.

La risposta del vertice filo-occidentale alle legittime richieste rapanui è stata apparentemente di apertura, concedendo l’autonomia amministrativa regionale, ma in realtà è di segno totalmente opposto. La popolazione è già da oltre un decennio una sorta di laboratorio di trasformazione culturale delle giovani generazioni. Una parte di queste sono pienamente coscienti di quanto sta avvenendo per rendere vano un ritorno alle antiche tradizioni, ma non hanno ormai strumenti politici e economici per opporsi. Lenta e inesorabile, l’etnolisi è in corso.

La presenza di operazioni finalizzate all’adeguamento culturale delle comunità indigene alle necessità del vertice egemonico occidentale, è ormai riscontrabile in una qualsiasi area dell’Impero Occidentale. Vi riscontriamo, standardizzati, gli effetti del processo in parte alienante di tradizioni non consone ai bisogni del liberismo duro, fatta salva quella parte di esse modificata  da assurdi revisionismi occidentalizzanti di carattere etico. Come se la cultura possa essere avulsa da influssi formativi i più disparati, tutti irriproducibili in laboratorio, tra i quali certamente non ultimi sono quelli ambientali. Imporre cambiamenti forzati e repentini a una tradizione culturale equivale a menomarla gravemente, rendendola instabile a lungo termine.

Anche a Rapa Nui si assiste a un fenomeno che colpisce le piccole aree destinate al turismo di massa, dove per sopravvivere la popolazione si trova ingaggiata in quotidiane folcloristiche comparsate. In questo caso, siamo a metà fra una sorta di Disneyland polinesiana e un’operazione concettualmente simile alle aspirazioni commerciali in stile Jurassic Park.

Anche in questo caso, come in altri luoghi simili sotto l’egemonia della rete tridimensionale del capitalismo multinazionale, bisogna chiedersi se una buona fetta dei guadagni resta nell’isola o finisce altrove. Se si tratta di turismo sostenibile o piuttosto dello sfruttamento reso ancora più grasso dalla presenza dell’indicazione “sito UNESCO” che marca persino la comunità indigena, un unicum culturale che avrebbe dovuto essere in ben altro modo tutelato. Sarà mai possibile intervenire efficacemente sulle conseguenze dell’attuale livello raggiunto dall’overtourism e in particolare sulla tenuta non soltanto del patrimonio naturale e monumentale di Rapa Nui, ma dei fondamenti culturali della sua comunità (6).

Malgrado i media riportano dichiarazioni di segno opposto, il Nuovo Ordine Mondiale non può permettersi di tutelare tutti i diritti all’esistenza delle tipicità etniche, nemmeno se lo volesse realmente, e di fatto opera per eliminarle attraverso il processo di standardizzazione culturale. Nei casi di resistenza, l’irresistibilità al suo potere appare nell’annientamento di quanto intralci le sue finalità geopolitiche e commerciali. Lo si è visto ad esempio in Italia anche nello scontro con partiti politici nazionali, o di organizzazioni criminali di stampo mafioso o camorristico, determinando profondi cambi sia nei loro vertici dirigenziali che nelle loro dottrine, in modo da renderli funzionali alle necessità egemoniche del Nuovo Ordine Mondiale occidentale, prevaricando quelle locali.

Cos’altro ci si poteva aspettare ben sapendo che la stessa nascita della potenza trainante dell’attuale sistema occidentale, gli Stati Uniti, è legata all’annichilamento delle popolazioni indigene, a iniziare da quelle che erano presenti su quelli che diventarono il suo territorio nazionale. Una Unione di Stati basata sulla progressiva conquista e un immane massacro di genti e scomparsa di intere culture, concluso con il confinamento dei superstiti in riserve dove era impossibile continuare a svolgere le attività di sussistenza tradizionali indigene. Erano anche in quel caso, come i rapanui, incompatibili al sistema di vita statunitense.  

 

La scoperta europea dell’esistenza di Rapa Nui e la fine di una civiltà arcaica polinesiana

1722. L’ammiraglio Jacob Roggeveen, sessantaquattro anni, è al comando di una piccola flotta navale inviata in missione esplorativa nelle acque dell’Oceano Pacifico Meridionale (7). Sta tentando di compiere il sogno che lo anima sin da bambino: scoprire la leggendaria Terra Australis Incognita. Dopo anni di studi e attività professionali preparative, è riuscito a convincere i vertici della potente West-Indische Compagnie (W.I.C., Compagnia delle Indie Occidentali) a finanziare l’impresa, nella speranza di scoprire nuove ricche terre da sfruttare commercialmente (8).

Dopo avere lasciato la costa cilena e superate le Isole Fernandez naviga in direzione nord-ovest per migliaia di chilometri, attorniata dall’immensa distesa incognita delle acque oceaniche. Così, sembra quasi un miracolo quando, alla sera del 5 aprile 1722, nel giorno della domenica di Pasqua (Paaszondag in olandese), le navi  giungono in vista di un’isola sconosciuta. L’ammiraglio la denominerà quindi Paaseiland, ovvero Isola di Pasqua.

Gli Olandesi scoprono con profonda sorpresa che nonostante si tratta di un piccolo affioramento di origine vulcanica isolato nel mezzo dell’oceano, esso è abitato da alcune migliaia di indigeni e che le sue coste sono disseminate di gruppi di enormi statue litiche. La presenza e la quantità di queste statue (ad oggi ne sono state censite oltre 1100), la loro realizzazione e difficoltà di trasporto fecero presumere conoscenze tecnologiche non attribuibili a quei “selvaggi”. Il mistero venne svelato solo pochi anni fa, ma inizialmente le opere megalitiche generarono centinaia di ipotesi le più disparate, quali ad esempio l’attribuzione a una civiltà di giganti estinta da tempi remoti.

Lo sbarco nell’Isola avviene solo il 10 aprile. L’esplorazione viene condotta dall’Ammiraglio accompagnato da 134 uomini, marinai e soldati ben equipaggiati con armi da fuoco, sconosciute agli isolani sino a quel momento, così come lo erano anche la metallurgia, la tessitura, la manifattura uniformi, la ceramica, il linguaggio e i caratteri razziali di quella che, con preoccupazione, constatavano essere una cultura aliena, di origini misteriose e potenzialmente pericolosa.

Visitata brevemente l’isola e raccolte localmente informazioni con l’aiuto di un interprete polinesiano facente parte del suo equipaggio, probabilmente viene a conoscenza di altre isole presenti ad alcune settimane di navigazione in direzione nord-ovest, Roggeveen proseguì il suo viaggio esplorativo raggiungendo il lembo a nordovest dell’Arcipelago delle Tuamotu, ovvero dapprima l’atollo di Takaroa (18 maggio), e in seguito l’isola di Makatea (2 giugno) (9). Qui forse raccoglie ulteriori informazioni dai nativi che lo convincono definitivamente dell’inesistenza di un continente in quei mari e dell’inutilità di proseguire la missione esplorativa alla ricerca della “Terra Australis Incognita”, della quale con insistenza si rincorrono voci sin dagli inizi del sedicesimo secolo (10).

L’ammiraglio si dirige verso l’Indonesia incontrando sulla rotta l’arcipelago delle Samoa, la Nuova Guinea e le Molucche. Così, dopo aver perso il contatto con le altre navi della sua flotta, giunge nella città fondata dagli Olandesi, Batavia (oggi la capitale Jakarta, che dal 1619 al 1799 fu sede degli uffici della West-Indische Compagnie) dove troverà dei funzionari a beffeggiarlo del fallimento della missione e del danno economico procurato alla WIC, coinvolta nella “folle” ricerca del Continente leggendario.

L’importanza storica dell’evento, compresa da Jacob Roggeveen innanzi alla scoperta della civiltà presente in Paaseiland e il mistero della presenza delle gigantesche statue, non importavano nulla a quei burocrati, che avevano contato sulla scoperta di un nuovo Continente per fare risorgere la potenza olandese. L’esploratore morirà pochi anni dopo, ma non prima di avere lasciato un libro nel quale racconta la sua vita avventurosa, i viaggi in terre esotiche, la sua velata profonda delusione innanzi alla mancata manifestazione di riconoscenza per le sue scoperte geografiche da parte dell’Amministrazione statale olandese.

Il resoconto che Roggeveen scrisse della sua breve esplorazione dell’Isola di Pasqua, con notevole chiarezza ai fini di conoscenza pur trattandosi di un documento stilato per quanto di competenza burocratico-amministrativa, militare e economico-commerciale dello Stato olandese, attirò l’attenzione degli Europei per quasi quattro secoli. Ancora oggi esso costituisce la più antica e preziosa fonte testimoniale disponibile per gli studi paletnologici, paleoecologici e storici.

È così che apprendiamo, in contrasto con quanto descritto da successivi viaggiatori a partire da circa mezzo secolo dopo, l’Isola era fertile e vi prosperavano le attività agricole (dando risalto alla presenza di coltivazioni di diverse specie di banani, tuberi e ortaggi) e all’allevamento di una sottospecie polinesiana di gallo domestico.  

Calcolando e mappando con esattezza la posizione di Paaseiland (Jacob era figlio di Aarend Roggeveen, uno dei migliori cartografi e astronomi olandesi del diciassettesimo), fornì le coordinate utili ad altri naviganti che nello stesso secolo e in quelli successivi, la utilizzarono per le necessità di approvvigionamento di acqua e alimenti freschi. Fu così che, negli anni seguenti, l’Isola venne raggiunta da baleniere o dalle navi dei cacciatori di schiavi provenienti dalle coste americane causando, entro poco più di un secolo, la riduzione della popolazione da circa 3.000 a soli 110 abitanti e la distruzione del precario equilibrio dell’ecosistema isolano.

Dagli inizi del ventesimo secolo i discendenti dei superstiti nativi, anche in quanto stimolati dagli studi scientifici condotti da personalità erudite straniere che hanno vissuto parte della loro vita nell’isola, hanno sviluppato una forte coscienza di quanto accaduto alla loro cultura e della necessità di proteggere quel che rimaneva del passato. Appare indubbio che il mantenimento di nozioni della fede animista, in particolare il culto degli antenati, fu in parte tollerato e protetto all’interno del culto cattolico sino ad evolvere in un sincretismo sopravvissuto sino a oggi (11).

 

Rapa Nui e la crisi terminale del globalismo all’americana 

Sono trascorsi ben trentadue anni dal periodo che vissi all’Isola di Pasqua (12). A quel tempo, sia gli abitanti che i pochi turisti, che vi giungevano per spirito di avventura, non avrebbero potuto immaginare che da lì a pochi anni l’Isola sarebbe entrata nel vortice del mercato globale, sperimentandone gli immediati vantaggi e le tristi conseguenze.

Per focalizzare le problematiche che, entro questo decennio, potrebbero iniziare a costituire le cause dell’avverarsi di profondi cambiamenti culturali, geopolitici, e economici a Rapa Nui, bisogna comprendere quanto sta avvenendo nei Paesi ai quali l’Isola deve il prosperare della sua attuale economia.

Fenomeno esploso agli inizi degli anni 1990, il globalismo si basava su un progetto d’integrazione della popolazione mondiale, otto miliardi di esseri umani, al modello di vita nordamericano, prettamente consumista. Ispirato a dottrine economiche neoliberiste che professavano l’instaurazione di un libero mercato universalista privo di barriere doganali, veniva propagandato quale in grado di generare la veloce diffusione di maggiore benessere e giustizia sociale a livello planetario. Un modello ideologico fallimentare, che sin dall’inizio rivelò che la sua incapacità di estendersi liberamente in diverse aree del mondo attraverso flussi di capitali, merci e lavoro.

Si constatò empiricamente come esso richiedesse sincronismi spesso impossibili da ottenere, in quanto trovavano difficoltà di applicazione per incompatibilità esistenti nei luoghi ove esse intendevano svolgersi (quali ad esempio i divieti governativi protezionisti nei confronti dell’importazione o di esportazione di particolari merci, difficoltà di ottenere permessi per condurre attività commerciali internazionali, tempi burocratici di controllo doganale). Cosicché, pur partecipando per convenienza al mercato globale – e averne abbondantemente usufruito accrescendo in modo esponenziale la loro crescita economica –  le leadership di potenze tendenzialmente egemonico-competitive quali la Cina e la Russia, operarono in modo da impedire la diffusione del modello culturale americano.

Questa scelta permise di evitare una contaminazione culturale profonda e irreversibile, che avrebbe condotto le proprie popolazioni a divenire parte attiva nel progetto del mercato globale quale fenomeno espansionista dell’egemonia americana.

Nel caso della Federazione Russa, è difficile stabilire se l’intervento di contrasto avrà un efficace successo nella porzione occidentale, come dimostra quanto da alcuni decenni avviene in Ucraina. Appare invece attualmente piuttosto improbabile che le popolazioni dell’Asia settentrionale orientale possano fare proprie, in termini di libera sottomissione, le tipicità dello stile di vita perseguito dal potere dominante del “blocco occidentale”. La situazione sembra congegnata per logorare sino allo sfaldamento la Federazione Russa e determinare le condizioni per la sua sostituzione con un gruppo di Stati orientali filo-cinese, e uno occidentale di Stati filo-europeisti.

Fallendo di raggiungere questa meta fondamentale del disegno egemonista occidentale a guida statunitense, iniziarono a manifestarsi gli effetti negativi causati dall’operazione globalista sull’economia americana, già zavorrata da un debito pubblico di dimensioni catastrofiche. I primi a essere duramente colpiti furono i lavoratori dipendenti e le piccole imprese, appartenenti alle classi media e bassa. Avendo il libero mercato causato lo scardinamento dell’assetto interno del mercato del lavoro del blocco occidentale, furono favorite le classi agiate legate alle grandi compagnie multinazionali.    

L’aspetto senz’altro tra i più inquietanti dell’intera vicenda – per quanto i vertici dei poteri statali fossero ben coscienti delle tragiche conseguenze che, nel medio termine, in base a quel piano liberista sarebbero puntualmente derivate all’economia del blocco occidentale – ben pochi personaggi pubblici ebbero la volontà o la forza di cercare di contrastare le manipolazioni affidate alla macchina dei media del potere dominante. Quel vertice di potere, costituito da un coacervo di rappresentanti di poteri pubblici e di enti privati transnazionali, che ha condizionato tutte le scelte politiche e economiche dei poteri nazionali dei Paesi appartenenti al “blocco occidentale”.

Trent’anni dopo, gli effetti disastrosi del tentativo globalista pesano ormai sul futuro dell’Europa. L’America Settentrionale è riuscita a blindarsi in termini protezionistici nella propria economia, forte delle proprie risorse naturali, continuando strette relazioni con i paesi di cultura anglosassone di quel che resta del Commonwealth britannico. Si nota tuttavia una pericolosa crisi identitaria, in particolare statunitense, che potrebbe creare una implosione del sistema federale, caratterizzato dall’accentramento di ricchezze e poteri detenuti dagli Stati delle due coste, orientale e occidentale a discapito di quella parte del territorio americano che sta di mezzo. Quel Midwest tradizionalista che i progressisti consideravano sede di masse di comunità caratterizzate da bassa e rozza cultura, dalle quali ottenere carne da macello, soldati semplici e consumatori di bocca buona. Si tratta di una situazione che, se non risolta nei prossimi anni, potrebbe degenerare in guerra civile.

Se nell’Africa subsahariana e nel sudest asiatico vi sono ampi territori d’influenza probabilmente ormai considerate sufficientemente sfruttate dal famelico colonialismo europeo – in talune aree sino al depauperamento delle ricchezze spinto ad arrecare la distruzione dei locali ecosistemi, mettendo in crisi le possibilità di sopravvivenza delle popolazioni – vi è anche l’attuale situazione determinatasi nel Nord Africa.

Qui le risorse energetiche dei pozzi petroliferi sono destinate a passare al controllo di governi locali, fortemente militarizzati, che progressivamente si stanno allontanando dal modello egemonico americano e in generale occidentale. Lo stesso fenomeno, anche se in termini diversi, si sta registrando nell’Asia occidentale, e entrambi i continenti di questo passo potrebbero uscire dall’egemonia americana entro la fine della metà del corrente secolo.

Nel peggiore dei casi, parti di esse diverranno, assieme ad aree dell’Europa centro-occidentale, luoghi dove combattere una guerra per il controllo egemonico al quale si candidano diversi Paesi asiatici. In primo luogo l’India e la Cina e l’inizio della loro competitiva espansione navale nell’Oceano Pacifico. Per la propria sopravvivenza la Cina dovrà mettere in sicurezza le proprie coste e aprire le rotte commerciali centro occidentali – sino all’Oceano Indiano, all’Arabia Saudita e ai Paesi del Golfo, e non ultimi i Paesi della costa africana centro meridionale – e per tale operazione è fondamentale l’occupazione, l’annessione e il potenziamento di Taiwan quale base militare e commerciale (13).

Ferma restando l’incognita costituita dall’India, se la Cina riuscirà a prevalere sarà un ulteriore colpo verso il declino dell’egemonia navale americana, progressivamente sostituita nelle rotte marittime sulle quali viaggia oltre il 90% delle materie prime del pianeta.

Se riuscirà ad annettere Taiwan quale parte integrante del suo territorio, la Cina potrà espandere la sua area d’influenza politica e economica anche sui Paesi dell’Oceano Pacifico (ad eccezione dell’Australia e della Nuova Zelanda), controllando militarmente i punti nevralgici di quelle ricche rotte commerciali che, tramite l’Oceania renderanno possibile la seconda fase della proiezione egemonica, preceduta da partenariati in aree dell’America Centrale e Meridionale.

Questo periodo di scontri sempre più violenti in molteplici aree del pianeta è già nella fase iniziale, e teoricamente potrebbe prolungarsi per decenni, comportando dapprima l’avvento di gravi instabilità governative determinate da crolli di filiere economiche di portata internazionale dovuta all’interdipendenza dei sistemi finanziari. Un periodo di disordine mondiale dominato da costanti incertezze, determinato dall’insorgenza di una frammentazione del potere in molteplici potenze egemoniche coesistenti. Al livello successivo della catena conseguenziale, il peggiore degli scenari è la degenerazione in un caos devastante ampie aree del pianeta, caratterizzata dalla scomparsa di ogni forma di controllo del territorio, e dall’avvento di guerre tra milizie locali, come già da tempo accade in diversi Paesi africani.

L’attuale inizio dell’arroccamento entro i propri confini dell’economia dell’area nordamericana, sembra avallare l’ipotesi che la possibilità che questi scenari possano concretizzarsi sia considerata un pericolo effettivo in un futuro non lontano, da porre attorno alla metà del secolo. 

È molto probabile che a quel tempo nuove armi di distruzione di massa, calibrate su tipicità genetiche razziali, e in grado di condurre alla disintegrazione immediata e non inquinante dei corpi, lasciando integro l’ambiente. Il loro effetto benefico collaterale sarà quello di causare una drastica soluzione del sovrappopolamento e il ritorno a una sostenibilità della presenza umana.              

L’avvio di questa fase venne preannunciato nell’ormai lontano 2001, con la brutale violenza del caso, da un’azione carica di simbolicità quale contrasto all’egemonia americana: colpendo gli Stati Uniti nel cuore finanziario di New York, si è voluto mettere fine al sistema binario sul quale sino a quel momento si era fondata la ripartizione del potere mondiale, Ovest-Est, simbolicamente rappresentato dalle Torri Gemelle.

Un attentato che difficilmente può essere ancora considerato quale opera progettata ed eseguita con la sola partecipazione di uno o più gruppi terroristici, essendo destinato a rappresentare l’inizio di un nuovo livello di scontro tra potenze militari nell’ambito della instaurazione di un diverso ordine egemonico per il controllo delle risorse energetiche mondiali.

Questa lunga introduzione, per contestualizzare le inquietanti incertezze del futuro della popolazione di Rapa Nui, concludendosi il lungo periodo della Pax Americana, già entro la seconda metà del corrente decennio nessuna popolazione, anche la più remota del pianeta, risulterà immune dalle conseguenze dei giochi di potere che si avvereranno sullo scacchiere geopolitico internazionale, in un progressivo aggravamento che potrebbe essere accompagnato dalla comparsa di eventi bellici catastrofici (14).

Appare evidente che nel lungo termine, il destino di Rapa Nui è legato alla sua capacità di resilienza al caos e da improvvisi vuoti di potere egemonico nel sudest dell’Oceania, dalle decisioni di nuove potenze che occuperanno aree frammentarie del crollato ordine mondiale e decideranno come, quando e a quali fini utilizzare l’isola: grande cava a cielo aperto di estrazione mineraria, emigrazione forzata di gran parte della popolazione, importante potenziamento logistico della base militare aeronautica in quanto posta a media distanza tra Sudamerica e Nuova Zelanda. Prolungati periodi di mancanza d’acqua potabile, alimenti e medicine potrebbero condurre a gravi disordini sociali. Al crollo dei rapporti economici e culturali con il continente americano potrebbe seguire periodo di cooperazione con altre potenze.

Se la competizione tra le grandi potenze mondiali dovesse a breve degenerare in una guerra totale, la sopravvivenza dell’attuale piramide burocratica e la sovrappopolazione di Rapa Nui potrebbero in breve tempo risultare gravemente compromesse dal crollo dell’economia di sussistenza, essendo stata basata sul turismo e attività ad esso collegate, ignorando il fondamentale bisogno di potenziare le attività produttive della filiera alimentare e di porre rimedio all’attuale sovrappopolamento.

 

Globalismo e turismo di massa a Rapa Nui

Da qualche anno i misteri concernenti la realizzazione e il trasporto delle grandi statue sono stati in gran parte svelati, ma l’Isola rimane un centro di attrazione mondiale non soltanto per le particolarità culturali della sua popolazione nativa, gli abbondanti resti archeologici megalitici e l’ampio Parque Nacional Rapa Nui che costituisce circa un terzo del suo territorio.

Oggi vi sono anche decine di ristoranti specializzati in ricette a base di pesci e crostacei (15), una decina di ottimi alberghi e una quantità di bed & breakfast e abitazioni residenziali offerte in affitto, che rendono piacevole la permanenza a coloro che nell’ultimo decennio la frequentano, anche quale uno dei luoghi più esclusivi del surf e del diving internazionale. 

Le sue coste sono disseminate di centri specializzati che offrono guide e istruttori di valido livello, quali Papa Tangaroa, Mata Veri, Viri Iuga O Tuki, Tahai, Huareva, Vaihu, Koe Koe, Akahanga, Motu Hava, tutte citate da surf-forecast.com, il maggiore sito specialistico online del pianeta (16). Consultato dal gotha internazionale del surf, il sito offre gratuitamente e in tempo reale il proprio supporto quale “global big wave finder, with powerfull swell with light or offshore wind”.

Un dato che fornisce una chiara idea il livello oggi raggiunto dal controllo satellitare in tempo reale della superficie del pianeta, persino di quella oceanica, è che questo sito on-line fornisce previsioni dell’altezza delle onde, potenza e direzione dei venti, e temperatura dell’acqua. Esse hanno valore settimanale altamente attendibile anche per questo luogo così remoto.

Nel 1991, ai tempi della mia permanenza nell’isola, il totale dei residenti, compresi i pochi turisti, ammontava a un massimo di circa 3000 individui. Oggi l’Isola conta una presenza umana stabile di oltre 8.000 abitanti ai quali si aggiungono annualmente oltre 90.000 turisti. Vi è una strada asfaltata che conduce dall’aeroporto Mataveri ad Hanga Roa, il piccolo villaggio polinesiano nel corso di alcuni decenni è divenuto una cittadina moderna, con i cittadini che subiscono anch’essi periodici ingorghi di turisti e automezzi, ben attrezzata turisticamente anche con strutture recettive di standard internazionale elevato.

 

Diritti e aspirazioni della popolazione nativa in una comunità divenuta multietnica

Nella remota Rapa Nui, circa la metà dei residenti ha ascendenza polinesiana. Si tratta di una parte della popolazione molto attiva, che rivendica i diritti sulle terre espropriate o estorte (nella totale assenza di diritti giuridici), ai loro antenati nel corso degli ultimi due secoli. Con tenace orgoglio difendono e tramandano alle nuove generazioni ciò che nello scorso secolo è stato preservato della tradizione orale dell’antica cultura Rapanui. Una comunità che, tra l’altro, pone quale necessità primaria un’applicazione realmente funzionale del recente piano di turismo sostenibile, essendo divenute pressanti le insidie provenienti dal globalismo, in particolare le gravose conseguenze negative del turismo invasivo.

Non è facile conciliare le aspettative politiche e socio-economiche sovraniste del governo cileno –che, ricordiamolo, assieme a altri Paesi sudamericani cerca di fronteggiare la rapacità di taluni poteri multinazionali – con il diritto-necessità di salvaguardare il tradizionale stile di vita non soltanto dei nativi, tipicamente polinesiano, essendo ormai esteso a gran parte dell’intera comunità isolana. Esso è ben diverso dall’American Way of Life ormai ideologicamente identificabile quale “Occidentale”, caratterizzato da valori sui quali anche una buona metà degli stessi statunitensi si trovano oggi a riflettere in modo profondamente critico. Inoltre, non si può tacere che nell’isola esiste una minoranza convinta che sia possibile ripristinare le condizioni precedenti all’arrivo degli Europei, le attività economiche tradizionali costituite da pesca, agricoltura e piccoli allevamenti di bovini, ovini e di pollame, per vivere armoniosamente le giornate, scandite nel rispetto dei ritmi della Natura e nella fede animista.

Per rendere fattivo questo stile di vita, la comunità indigena chiede da tempo il reinserimento dell’originario sistema di divisione delle terre, restituendole alla cura dei clan familiari, la nomina di un regnante affiancato dal consiglio dei capiclan, e di reintrodurre l’antica pratica collettiva di dedicarsi alle opere pubbliche. La base di questa società sarebbe quindi costituita dalle relazioni di forte legame affettivo e di mutua assistenza proprie dei clan familiari e dell’unità rappresentata dalla religione sincretica cristiano-animistica, nella quale il rispetto del legame con gli antenati esercita un forte aggregante sociale.

Malgrado questi eccellenti propositi è innegabile che l’imponente presenza di turisti durante l’anno, in massima parte appartenenti a culture europee o americane standardizzate nell’attuale forma dettata dal gruppo dei poteri al vertice del “blocco occidentale”, costituenti il suo “sistema dominante” è divenuta una potente fonte di un paradigma destabilizzante a causa dell’attrazione che quegli stili di vita consumistici esercitano sui giovani nativi. Si tratta di influenze dalle conseguenze corruttive sulla tenuta dei clan familiari e delle quotidiane pratiche espressione di profonda spiritualità, sulle quali fondano la propria sopravvivenza le culture polinesiane.

Si vedano ad esempio gli effetti della diffusione della dipendenza da droghe e alcolici sull’integrità psicofisica individuale e le attività comunitarie, mentre le ricchezze derivate dalle attività commerciali turistiche, hanno determinato l’insorgenza di classi sociali di potere non più necessariamente legate alle qualità maggiormente apprezzate dalla cultura tradizionale polinesiana, o persino in contrasto con i suoi valori.

È una delle modalità messe a punto per tentare di giungere al Nuovo Ordine Mondiale egemonizzato dal modello culturale anglosassone in salsa americana. Sembra quindi trattarsi di una manipolazione costituente la finalità primaria dell’intento globalista, operata affinché il turismo di massa potesse divenire il principale mezzo occidentale per esportare la sua ideologia liberista, quello stile di vita consumistico fonte di devastazione in aree dove ancora regnava la cultura tradizionale, sabotandone l’armonia con l’ecosistema che le ospitava.

 

Overtourism: come creare l’ecosistema insostenibile  

L’attuale sovrappopolamento umano dell’Isola costituisce un ben definibile pericolo con effetti devastanti, insostenibili, in caso di totale isolamento a iniziare dalle necessità alimentari. Seguono la grave realtà degli effetti del depauperamento delle risorse marine; le problematiche legate allo smaltimento dei rifiuti prodotti quotidianamente; l’inquinamento oceanico da materie plastiche con grandi quantità di particelle microplastiche in continua deposizione non soltanto nella fascia costiera isolana, ma anche sui rilievi per effetto dei venti e delle piogge; l’innalzamento del livello marino nel corso dei prossimi decenni e l’erosione delle coste a esso collegato; l’aggravarsi di fenomenologie atmosferiche estreme; la pericolosità e la durata delle future pandemie e l’evoluzione di quelle attuali, quali il dengue emorragico nella sua variante polinesiana.

Ognuna di queste problematiche rappresenta un pericolo costantemente pendente sulla tenuta del progetto di economia sostenibile, recentemente avviato dal governo cileno e fortemente voluto dalla comunità locale e da quella scientifica internazionale, per frenare i danni arrecati dallo sfruttamento di massa delle attrazioni naturali e culturali dell’Isola. Tuttavia, come si può dedurre da quanto sopra esposto, la maggior parte dei problemi hanno cause non imputabili a fattori locali e quindi incontrollabili se non si effettueranno drastici cambiamenti, possibili solo se operati da decisioni attuate a livello politico internazionale. Una mera speranza, lontana e poco credibile, oggi ritenuta di difficile attuazione per motivi politici e economici.

A tutti questi problemi in un lontano futuro potrebbero affiancarsi ulteriori emergenze quali un’incontrollata crescita demografica, gravi crisi energetiche, destabilizzazione e sostituzione del sistema governativo dell’Isola, disordini razziali, trasferimento costrittivo di parte della popolazione, trasformazione dell’isola in un’area estrattiva mineraria a cielo aperto, desertificazione.

Oggi il turismo costituisce il perno delle attività trainanti dell’economia locale, al punto da creare gravi problemi ambientali per sostenerlo, quali l’incremento delle attività di pesca d’alto mare e costiera, e l’impossibilità di smaltire localmente l’enorme massa di rifiuti, generata annualmente dall’uso di materiali importati nell’Isola per le necessità dei turisti e consumati per le loro necessità.

Circa venti anni orsono, lo sfruttamento della fauna ittica operato dalla pesca d’alto mare da flotte di grandi navi specializzate, appartenenti a grandi compagnie multinazionali, causò un drammatico decremento della pesca al tonno, che tradizionalmente costituiva una delle principali risorse alimentari della popolazione isolana. I pescatori locali furono costretti a ricorrere all’intensificazione della pesca lungo la fascia costiera, con la conseguente depauperazione della sua fauna marina.

A questa distruzione dell’ecosistema si è cercato di porre un argine con l’emissione di nuove leggi protettive e l’istituzione di parchi marini. Gli interventi sono tardivi considerate le condizioni di depauperamento dell’Oceano Pacifico, che sino agli anni 1970 si era preservato ricchissimo di vita, giunte ormai da tempo a livelli allarmanti. A peggiorare la situazione è intervenuto anche il massiccio inquinamento dell’intera fascia costiera dell’Isola dovuta, tra l’altro, alle crescenti problematiche associate all’enorme presenza nell’Oceano Pacifico di rifiuti derivati da materie plastiche. Quest’ultima costituisce un’insorgenza con previsioni peggiorative altamente allarmanti, essendo in forte ascesa la produzione mondiale di rifiuti non smaltibili e fortemente dannosi alle condizioni di vita sul pianeta. Le quantità di questi rifiuti dispersi in tutti i mari, hanno conseguenze devastanti anche per l’intera catena alimentare del pianeta, persino in località remote quali Rapa Nui (17).

Di pari passo all’esplosione del fenomeno turistico, si è verificata la comparsa di fenomenologie che avrebbero dovuto essere affrontate prima di permettere l’arrivo delle orde di visitatori generate dal consumismo globalizzante: 1) la presa di coscienza dei propri diritti da parte della popolazione di lontane origini autoctone, anche in senso sovranista e quindi fortemente protettivo della propria cultura e della propria religione. In particolare, bisognava comprendere la magnitudine di quanto quest’ultima sia inscindibile dal rispetto per i monumenti, gli insediamenti, e nel loro complesso tutti i luoghi sacri che legano animisticamente la popolazione con i propri antenati, considerati protettori dell’armonico svolgimento della vita nell’ambiente naturale isolano; 2) la sproporzionata presenza di visitatori nell’isola ha condotto alla produzione di imponenti quantità di rifiuti, per il cui smaltimento vi sono costi altissimi in termini di trasporto in Cile o in Perù per il loro smaltimento; 3) l’enorme inquinamento delle coste e della diffusione di polveri microplastiche dovuto a problematiche non dipendenti dalle attività locali; 4) la necessità di potenziare il servizio ospedaliero, adeguandolo alle necessità dovute alla coesistenza in aree limitate dell’isola di migliaia di individui alloctoni, provenienti da varie aree del mondo e in continua sostituzione con nuovi arrivi.

Attualmente, la popolazione residente viene costantemente e massivamente esposta alle patologie importate dai viaggiatori dai loro Paesi di origine, alcune delle quali si presume possano essere gravi e trasmissibili, potenzialmente in grado di determinare il verificarsi di emergenze di casi di batteri resistenti alle cure o di forme virali pandemiche ad alto impatto letale.

L’economia locale si basa sul turismo di massa, mentre alle forme tradizionali di sussistenza, tipicamente polinesiane, è riservata scarsa importanza fattiva. Cosa accadrebbe degli isolani nel caso, piuttosto probabile, che nei prossimi anni il pianeta fosse scosso da una nuova pandemia, ben più aggressiva di quella vissuta al tempo del COVID? Come potrebbero tentare di sopravvivere in mancanza di un’autosufficienza alimentare e di una forte coesione sociale, tra l’altro in grado di fare emergere vecchi rancori e trasformarsi in un ordigno a orologeria, costituito dalle diverse componenti razziali e culturali? 

In questa ottica, nel 2018 si è mosso un intervento governativo, al fine di limitare a trenta giorni la durata del permesso di soggiorno (che prima concedeva un massimo di 90 giorni) adducendo ragioni sociali e ambientali, e per meglio preservare il patrimonio monumentale. Tuttavia, tale soluzione sembra non solo meramente capziosa, ma controproducente rispetto agli intenti, in quanto lo spazio creato per i nuovi arrivi moltiplica le possibilità di importare malattie, soprattutto quelle inerenti alla diffusione di infezioni epidemiche generate da microrganismi resistenti o totalmente refrattari alle cure antibiotiche.

Eppure, ciò sembra ben chiaro alle Istituzioni governative cilene, che difatti nel caso della pandemia COVID, imposero preventivamente la chiusura dell’Isola ai turisti e limitarono fortemente il traffico aereo civile dal 17 marzo 2020 al 4 agosto 2022, cercando così di prevenire conseguenze catastrofiche per la popolazione isolana.

Secondo dati del 2014, nell’Isola si producono in media 20 tonnellate di rifiuti al giorno, ovvero 7.300 tonnellate all’anno, tra le quali sono presenti ben 440.000 bottiglie di plastica. La realizzazione di una adeguata centrale di smaltimento termico dei rifiuti nell’isola deve fare i conti con la realtà dei fatti. Solo una piccola parte è smaltibile o riciclabile, il resto è da destinare a un’area di stoccaggio a tempo indefinito. E questo rappresenta una notevole problematica in termini di inquinamento dell’ambiente e di occupazione di ampie aree di stoccaggio nell’isola, tra l’altro destinate a un costante allargamento. Difatti, si pensi alle conseguenze se improvvisamente mancasse la possibilità di continuare a inviare periodicamente questi particolari rifiuti tossici agli altoforni cileni e a stabilimenti industriali peruviani specializzati nel loro trattamento in tutta sicurezza. Per ragioni sanitarie e ambientali, il trattamento non è effettuabile in una piccola isola sovrappopolata turisticamente e sede di un parco naturale.  

Il problema dei rifiuti potrebbe compromettere anche le condizioni di sviluppo del rimboschimento, essendovi una relazione tra lo smaltimento effettuato tramite combustione e la polluzione ambientale che, in particolari condizioni atmosferiche, riguarda anche l’attività di formazione di nubi con potenziale tossico e non ultima la compromissione delle falde acquifere che in massima parte finiscono in mare, interagendo quindi con l’ecosistema costiero. Anche se fossero delle piccole quantità, è la continuità della loro produzione, diffusione e deposizione che costituirebbe un pericolo per l’ecosistema e non ultime le attività di sussistenza a esso legate e i conseguenti danni alla salute della popolazione.

 

Mass media e manipolazione globalista: il “Rogo di Rapa Nui” dell’ottobre 2022

Per curiosa coincidenza, conclusa la parentesi epidemica 2020-2022, circa due mesi dopo la riapertura dell’isola ai turisti il tamburo della stampa internazionale attirò l’attenzione delle masse mondiali, riportando con una escalation di notizie allarmanti. Un gigantesco incendio si è sviluppato minacciando il villaggio di Hanga Roa, il parco nazionale e  centinaia di moai, le famose antiche statue megalitiche (18). Le modalità nelle quali sono state create e diffuse queste narrazioni, per poi dissolversi in un prevedibile lieto fine, mostra alcuni aspetti che, quantomeno da un punto di vista giornalistico, avrebbero dovuto essere opportunamente focalizzati aggiungendo una buona dose di autocritica.

Riassumo questa vicenda in quanto sembra trattarsi di un tipico Deep Event (19), in questo caso un evento che non credo stupirebbe qualcuno se risultasse pianificato in un qualche ufficio. Quel che possiamo constatare dall’opera dei media, esso è certamente manipolato con gonfiature, scelte e occultamenti di verità, in modo da attirare l’attenzione pubblica su un argomento. Vi possiamo constatare come sia possibile confezionare una notizia in modo che la narrazione riesca ad appassionare l’opinione pubblica mondiale, e possa essere anche utile per accompagnare o distogliere l’attenzione da altre notizie. Ma la finalità primaria è di favorire effetti a cascata di natura economica in una data area d’interesse geopolitico.

In primo luogo, anche se non fu provato, le dinamiche dell’incendio indussero il sindaco di Hanga Roa a dichiarare, due mesi dopo, ovvero agli inizi di dicembre 2022, non soltanto che si fosse trattato di incendio doloso, ma che in quanto tale è un fenomeno consueto, specificando testualmente “come tutti quelli che si sono precedentemente sviluppati nell’isola”. È interessante notare che la dichiarazione fu subito solo parzialmente ripresa dai media internazionali, tacendo il vero fatto allarmante che gli incendi e in generale gli eventi dolosi sono comuni nell’Isola (20).

Dopodiché, in pochi giorni assistiamo all’ingrasso della notizia su altri giornali, trasformata sino a spingersi a titolarla inserendo l’inquietante termine “attack”, ovvero paventando un vero e proprio attentato al patrimonio ambientale e culturale isolano. Viene inoltre dichiarato che “circa quattrocento moai”, ovvero statue litiche monumentali, cioè poco più di un terzo di quelle presenti sull’intera isola sarebbero state interessate dall’incendio. Senza specificare che cosa s’intenda con questo termine, dato che quelli da pulire dagli annerimenti sono un’ottantina e soltanto uno ha subito danni irreparabili della sua superficie. Anche in questo caso la reale entità del problema viene lasciata vaga. Quali sono realmente stati i danni all’ambiente e ai beni monumentali? Quali sono le possibilità di una completa pulitura dell’area e di restauro? Riparare e restaurare sono due tipi di intervento ben distinti con costi e tempi notevolmente diversi.

L’interesse manipolatorio dei media occidentali, orchestrato su scala internazionale, appare quello di evidenziare l’importanza del patrimonio naturale e culturale isolano, ricordandolo alle masse, sfrondato di ogni problematica derivata dal globalismo rampante, e soprattutto suscitando nell’opinione pubblica un forte desiderio di raggiungere e godersi Rapa Nui, isola paradisiaca, prima che scompaia. E di legittimare provvedimenti governativi per il potenziamento della piramide burocratica di controllo dell’isola.

Nonostante il grande intervento mediatico nazionale e internazionale che paventa un rogo di dimensioni imponenti, è bene ricondurre l’allarme nei suoi termini reali, non essendo stata interessata gran parte dell’Isola, ma un’area di circa 100 ettari dei 7.150 costituenti il Parco Nazionale Rapa Nui, che occupa circa il 44% dell’intero territorio isolano.

Inizialmente i media riportarono di un incendio divampato, per motivi non noti, in un allevamento di bovini sito nei pressi del confine con il parco nazionale, a nordovest del Rano Raraku. Da qui, a causa del vento, si sarebbe esteso in direzione sud-est circondando l’area settentrionale dell’antico vulcano. Secondo le cronache locali la propagazione del fuoco all’interno del cratere sarebbe stata scongiurata grazie all’opera di vigili del fuoco e volontari locali, questi ultimi muniti solo di vanghe, bastoni e pietre. Delle centinaia lambite dalle fiamme, solo una statua avrebbe subito danni irreparabili.

Tuttavia, sei mesi dopo, il 20 marzo del 2023, un articolo comparso sul sito ufficiale dell’Unesco rivela (senza citare la fonte governativa cilena), che si tratta non di uno, ma di “una serie di incendi”, tutti avvenuti nel mese di ottobre 2022 (21). Questa circostanza, se confermata, sembrerebbe eliminare la casualità dell’evento.

Se si tratti realmente di un incendio doloso, ovvero deliberatamente appiccato in più luoghi per aggravarne il bilancio, ad oggi resta ancora un quesito insoluto. Non si ha notizia dell’esistenza di eventuali sospettati, né delle motivazioni alla base del gesto, nella fattispecie se le cause siano da ricercare in dispute locali o nell’ambito di attività collegata a un intervento di livello criminale più alto, con mandanti e interessi esterni alla comunità rapanui. È quindi presumibile che le indagini siano ancora in corso, e che per la loro complessità possano nella migliore delle ipotesi richiedere alcuni anni (22).

Bisogna invece interrogarsi su come sia stato possibile che un incendio originato in un allevamento possa essersi esteso a un parco naturale di rilevanza internazionale e posto sotto la protezione dell’UNESCO. Da un rapporto pubblicato dall’Organizzazione delle Nazioni Unite apprendiamo dell’esistenza di un problema di occupazione illecita di terreni e che lo sconfinamento di bestiame nel parco naturale è un fatto ricorrente (23).

Ai cronisti sarebbe stato utile visitare personalmente l’area colpita dall’incendio, per constatare se al confine del parco fossero state realizzate le cosiddette fasce spartifuoco, quale ad esempio terreni a pascolo raso, tali da costituire un impedimento alla propagazione dell’incendio. Inoltre, una visita agli uffici pubblici di competenza di Hanga Roa, per prendere eventualmente visione del piano d’intervento antincendio del quale presumo l’isola fosse in quell’anno già dotata, conoscere il livello di addestramento della popolazione in previsione di calamità naturali, delle squadre di volontari da impiegare in questi casi per l’assistenza ai turisti e per affiancare il lavoro dei pompieri. Ma lasciamo parlare i dati forniti agli inizi di maggio del 2021, prima del verificarsi degli incendi, dallo stesso corpo dei vigili del fuoco.

Scopriamo così che nell’ultimo decennio nell’isola si sono annualmente in media verificati circa 90 incendi forestali, 10 incendi strutturali, 20 interventi associati a veicoli motorizzati, 40 associati a persone, 20 ad animali, 10 interventi verticali o con corde, 10 fughe di gas. Altro che idilliaca, pacifica isola polinesiana in gran parte disabitata: in media circa un incendio da domare alla settimana, oltre agli interventi quotidiani più o meno definibili di routine.

La caserma dei “bomberos” è dotata di 6 pompieri professionisti e 40 volontari addestrati, e una disponibilità di quattro carri d’intervento, dei quali uno con trazione 4x4 di ultima generazione per raggiungere aree di difficile accesso e munito di una pompa con getto da 3000 litri di acqua al minuto. Una meraviglia della tecnologia, dal costo di oltre 270.000 dollari statunitensi, giunta nell’Isola nel maggio del 2021 (24).

Se il sistema di pronto intervento, stando a quanto dichiarato ai media dalle Autorità, è quindi validamente operativo, ed essendo impossibile che oltre 5 dei 100 incendi all’anno (5%) possa essersi originato per autocombustione, cos’è che li determina? Turisti sbadati, attività illegali di cottura degli alimenti, incendi dolosi (e qui ci si perde in una vasta gamma di motivazioni le più diverse, dagli interessi privati alle finalità politiche). Il problema è quindi socio-culturale e va risolto a livello di clan familiare, di maggiore controllo delle masse di turisti fermo restando la necessità di una forte riduzione del loro quantitativo quotidiano e di dotare tutta l’isola di un adeguato numero di vigilantes ben addestrati.

Il turismo non è tornato alle cifre del boom economico del 2018, quando l’isola venne presa d’assalto da oltre 100.000 visitatori che vi risiedettero per un minimo di una settimana a testa, determinando un giro di affari di oltre 70 milioni di dollari. Tuttavia, il faro del circo mediatico puntato per circa due mesi su quest’isola a seguito dell’incendio, ha permesso una buona ripresa delle sua economia basata sulle molteplici attività lavorative legate al turismo di massa. Una coincidenza che ha contribuito a mantenere attivo un introito annuale d’importanza vitale, ammontando in vent’anni a circa 1 miliardo di dollari. Niente male per una remota isoletta del mezzo dell’Oceano Pacifico.

Il tenore di vita socioeconomico di matrice Occidentale dei nativi di Rapa Nui è cresciuto notevolmente in questi ultimi decenni, grazie alle possibilità offerte dal turismo e dal costante lavoro svolto - anche con l’importante sostegno di organizzazioni ambientaliste internazionali – dagli Enti locali quali la Ma’u Henua Indigenous Community. A questa è tra l’altro assegnata la gestione amministrativa del Parque Nacional de Rapa Nui, che occupa circa un terzo dell’isola.

 

Il salvataggio del patrimonio monumentale quale rottura degli antichi equilibri magico-religiosi

La Rapa Nui che ho avuto il piacere di contribuire alla sua esplorazione scientifica oltre trent’anni fa, è lentamente scomparsa ormai da oltre un quarto di secolo. È doloroso prenderne atto, e questo vale per tutti gli altri luoghi del pianeta a quel tempo ancora intatti e che oggi versano in condizioni allarmanti, tra sfruttamento dissennato delle risorse economiche, sovrappopolamento e inquinamento. Sono le conseguenze dell’ultima follia ideologica del liberismo, il consumismo globalista, che spacciato quale fonte di benessere e progresso culturale planetario, ormai procede in un’espansione esponenziale e insostenibile con tutta probabilità già oltre il punto di non ritorno.

Come se non bastasse, anche su Rapa Nui pendono i problemi generati dall’innalzamento del livello marino, imputato al surriscaldamento globale e alla conseguente fusione dei ghiacci polari. Entro il corrente secolo parte della costa marina sarà soggetta a erosione determinando, se non s’interverrà per tempo, la rovinosa caduta  e sommersione delle statue (moai) e dei loro basamenti sacri megalitici, dei quali l’isola è disseminata lungo tutto il suo perimetro costiero (25). Esiste la reale possibilità che entro il prossimo secolo, il previsto peggioramento delle attuali condizioni climatiche riduca drasticamente la superficie di Rapa Nui sino a renderla un isolotto roccioso inabitabile.

Questo processo di distruzione è già attuale nel caso di alcune aree monumentali, aggravato dall’effetto delle mareggiate, e altre lo saranno probabilmente entro i prossimi decenni. Occorre sin da oggi decidere se spostarle a maggiori altitudini, trasportarne una parte in Musei siti in altri Continenti, o lasciarle al loro destino per essere inghiottite dagli abissi oceanici. In ogni caso, si tratta di operazioni che necessitano di notevoli finanziamenti, particolari mezzi meccanici, manodopera specializzata, e alcuni decenni di lavoro.  

È forse il più drammatico degli interventi da operare a breve termine nell’isola, in quanto il problema colpisce la popolazione nel suo forte legame magico-religioso animista con gli antenati.  

Si tratta di una forma di animismo diffuso in tutta l’Oceania, caratterizzata da uno stretto rapporto con la natura e le sue forze, il culto degli spiriti e del pantheon delle divinità. Non riuscendo a imporre la religione cristiana ai nativi, i missionari riuscirono a convincerli sia con la protezione contro le violenze degli stranieri, accettando di sostituire i luoghi di culto animistico con le chiese, le tipicità degli spiriti in quelle dei santi anche nelle cerimonie religiose. Tuttavia, in tutta la Polinesia, l’opera dei missionari non è riuscita a cancellare la presenza dell’animismo, determinando un ibrido (sincretismo) religioso ben evidente, ad esempio, nel corso delle celebrazioni festive con danze e musiche, e nel forte legame spirituale con la natura (26).

Nel caso si decidesse di spostare i monumenti in altra sede, bisognerebbe tenere presente il diritto,  esercitabile da parte della popolazione rapanui che ha recuperato l’atavica fede animista, di richiedere alle autorità governative l’attivazione delle procedure cerimoniali magico-religiose. I monumenti furono eretti con particolari rituali cerimoniali, e la rottura e nuova apposizione in altra sede dei loro “sigilli” magici devono essere effettuati dai sacerdoti animisti, in modo da non alterare gravemente le volontà e l’armonia evocate e indotte in quei luoghi.

Non è una problematica da sottovalutare, in quanto coinvolge le credenze religiose e il forte legame spirituale della popolazione con l’isola.  

 

Note

1) Lévi-Strauss C., 1975, Tristi Tropici, Il Saggiatore ed. (traduzione di Bianca Garufi), Milano, pp. 441. La prima edizione venne pubblicata nel 1955.

2) ne ho ampiamente scritto in articoli pubblicati su diversi siti on-line, e dal 2020 tutti consultabili nel presente blog. In particolare rimando all’articolo del 27 luglio 2018 “Strutture operative transnazionali e il network sopranazionale Deep States. Un criminologo sull’Arca di Noah” https://www.thereporterscorner.com/2020/06/strutture-operative-transnazionali-e-il.html  e nei sette articoli della serie “La Tecnocrazia e il Sistema di Potere in Sicilia”, Parti I-VII, pubblicati dal 2018 al 2023.  

3) rimando alle indicazioni in nota 2. Per quanto concerne il fenomeno delle autorità statali autoreferenziali, leggasi quanto espresso nell’articolo  pubblicato su questo blog il 12 agosto 2022 “La Tecnocrazia e il Sistema di Potere in Sicilia. Parte V: il Feestschrift, il cerchio magico, e la costruzione del mito dell’Intellighenzia tecnocratica”)  https://www.thereporterscorner.com/2022/08/la-tecnocrazia-e-il-sistema-di-potere.html

4) 27 luglio 2018 “Strutture operative transnazionali…” op. citin nota 2anche per le note bibliografiche pertinenti quanto concerne la descrizione della Commissione Europea fornita nel 2017 da Basil Coronakis nella sua monografia The Deep State of Europe: Requiem for a Dream: “the most sophisticated and corrupt administrative machine in the world… devoted of any political legitimacy”.

5) scomparso nel corso del diciannovesimo secolo per l’avvento dell’ideologia unitaria nazionale prettamente massonica, e degli interessi geopolitici delle grandi potenze dell’Europa Occidentale di quel tempo, che infine nel ventesimo secolo condussero all’instaurazione della Repubblica Italiana e alla costruzione delle basi militari statunitensi nell’isola.

6) All’insostenibilità della presenza di grandi flussi turistici, noto con il termine tecnico overtourism, al sovrappopolamento di piccole isole, e ai problemi socio culturali a questi legati, negli ultimi anni sono stati dedicati molti interessanti lavori. Segnalo in particolare:

Ahmad F., Draz M.U., Su L., 2018, Taking the bad with the Good: The Nexus between Tourism and Environmental Degradation in the Lower-Middle Income Southeast Asian Economies, Journal of Cleaner Production, doi: 10.1016/J.Jclepro.2019.06.138

Angel P., Bergamini K., 2020, Sociocultural-Carrying Capacity: Impact of Population Growth in Rapa Nui, in G. Cirella (a cura di) Sustainable Human - Nature Relations. Advances in 21st Century Human Settlements, Springer ed., Singapore, pp. 23-47

Cinnaghi E., Mondini G., Valle M. (a cura di), 2017, La capacità di carico turistica. Uno strumento per la gestione del patrimonio culturale, Quaderni della valorizzazione. Nuova serie 5, Direzione Generale dei Musei , Roma, pp. 130

Cristino C., Recasens A., Vargas P., 1984, Isla de Pascua: Proceso, Alcances y Efectos de la Aculturación, Facultad de Arquitectura y Urbanismo, Universitad de Chile:  https://www.academia.edu/19391005/Isla_de_pascua_proceso_alcances_y_efectos_de_la_aculturacion_pdf_2159_kb_1_

Lima M., Gayo E.M., 2020, Ecology of the Collapse of Rapa Nui society, Royal Society Publishing, 287, pp. 1-10

Palombi M., 2020, Il fenomeno dell’overtourism nelle realtà insulari: il caso studio dell’Isola di Pasqua, Università Ca’ Foscari, Venezia, Tesi di laurea, pp. 136

Telfer D.J., Sharpley R., 2016, Tourism and Development in the Developing World, Routhledge, 2nd ed., London and New York, pp. 462

7) a quel tempo chiamato semplicemente Grande Mare. Il termine Polinesia fu invece coniato circa un quarto di secolo dopo, nel 1756, dal francese Charles de Brosses per indicare tutte le Isole del Grande mare, comprendenti anche quelle della Malesia. Nel 1832 il termine fu ristretto alle isole presenti nella attuale circoscrizione geografica del Triangolo Polinesiano, con ai vertici le Hawaii, la Nuova Zelanda e l’Isola di Pasqua.

8) Gelder v. R., 2012, Naar het paradijs, het rusteloze leven van Jacob Roggeveen, ontdekker van Paaseiland (1659-1729), Uitgeverij Balans, pp. 336

9) Gelder v. R., 2012, Naar het paradijs, op. cit.;  Heyerdhal T., 1958, Aku-Aku: The Secret of Eastern Island, Rand Mc Nally & Co., Chicago, pp. 384

10) di questa terra ne fa riferimento una carta compilata nel 1513 dall’Ammiraglio turco Piri Reis, scoperta nel 1929 nella biblioteca del Topkapi, il Palazzo del Sultano a Istanbul.

11) Di grande importanza furono gli sforzi di studiosi Europei e Americani, tra i quali il Bavarese Anton Franz Englert, al secolo Sebastian, un missionario poliglotta cattolico che dal 1935 al 1968 dedicò parte della sua vita trascorsa nell’Isola al recupero della memoria del passato, intuendo quanto da questo dipendeva la resilienza etnica e il rifiorire culturale di quella martoriata popolazione.

Mulloy W.T., 1969, Sebastian Englert 1888-1969, in American Anthropologist 71: 1109-1111

Englert S., 2004, La tierra de Hotu Matu’a. Historia y etnologia de la Isla de Pascua: gramática y dicionario del antiguo idioma de Isla de Pascua, 9a ed., Editorial Universitaria, Santiago de Chile, pp. 361

12) Villari P., 8 aprile 1993, I giganti dell’Isola di Pasqua, in La Sicilia, p. 32 (pagina intera con diversi miei articoli dedicati all’argomento);

Villari P., 1997, Saggio di scavo nell’area di un “hare moa” sito in località Puna Marengo (Isla de Pasqua, Chile), Ultramarina Occasional Papers, Ortiz Troncoso R. ed., Number 3 (November 1997), pag. 1-12, Amsterdam;

Villari P., 20 dicembre 2000, Eindpunt, Tokerau e la vecchietta, in Grifone, organo bimestrale dell’Ente Fauna Siciliana, anno IX, n. 6 (fasc.48), pp.6-7.

Villari P., 7 aprile 2023, Isola di Pasqua (Cile), 1991. Testimonianza di fenomenologia N.O.E. (not ordinary experiences) vissuta nel corso degli scavi archeologici condotti a Puna Marengo. The Reporter’s Corner https://www.thereporterscorner.com/2023/04/isola-di-pasqua-cile-1991-testimonianza.html

Villari P., 2 maggio 2023, Toroko, 1991. Un ricordo della prima discoteca dell’Isola di Pasqua (Rapa Nui, Polinesia Cilena). The Reporter’s Corner.  https://www.thereporterscorner.com/2023/05/toroko-1991-un-ricordo-della-prima.html

13) l’antica Ceylon sede di importanti luoghi sacri e centri monasteriali del culto buddista.

14) condotti con armi di distruzione di massa a target biologico selettivo, che non coinvolgono le infrastrutture e causano danni molto limitati all’ecosistema.

15) ai tempi del mio soggiorno, nel 1991, le uniche due attività del genere utilizzavano esclusivamente il pescato locale, non compromesso da inquinamento e prelevato in quantità irrisorie rispetto a quanto avviene negli ultimi vent’anni. In tal modo la sostenibilità dell’ecosistema costiero isolano era ancora attiva.

16) in htttps://www.surf-forecast.com

17) ricerche condotte dall’Istituto di Ecologia dell’Università Católica del Norte, UCN, Cile. I ricercatori hanno appurato che la massa di spazzatura plastica spiaggiata sulle coste di Rapa Nui proviene in prevalenza dall’Australia, Nuova Zelanda, Cile, Peru, Ecuador, ma che a questi si sommano anche provenienze da altre aree del pianeta. Si legga ad esempio l’articolo pubblicato online il 19 dicembre 1919:  https://www.noticias.ucn.cl/especies-invasoras-utilizan-basura-plastica-para-llegar-a-las-costas-de-rapa-nui/

Un rapporto dell’ONU riferisce di una massa galleggiante di spazzatura presente al largo della costa cilena, in gran parte costituita da detriti plastici che aveva raggiunto una superficie ampia tre volte quella del Cile e destinata ad accrescere annualmente. Le ricerche suggeriscono che al ritmo attuale, nel 2050 vi saranno più rifiuti plastici che pesci in tutti gli oceani del pianeta. Per quanto concerne la situazione cilena e quella di Rapa Nui:

https://www.mondonuevo.cl/isla-de-basura-frente-a-chile-ya-es-tre-veces-el-tamano-del-pais/   

https://moevarna.com/en/plastic-contaminates-the-coast-of-rapa-nui

Si leggano inoltre i risultati eclatanti delle ricerche delle missioni scientifiche svolte dal 2015 nella remota Isola di Henderson, un atollo facente parte del Gruppo delle Isole Pitcairn il cui ecosistema rimase incontaminato sino al 1985. Le sue spiagge coralline sono state letteralmente ricoperte da una quantità di frammenti plastici di concentrazione tra le più alte dell’intero pianeta. Fatto ancor più inquietante, la quantità riscontrata è raddoppiata nei sette anni intercorsi tra le misurazioni svolte dalle due missioni scientifiche. Le conseguenze sulla salute della fauna marina e sugli uccelli ad essa legata per uso alimentare sono ancora in corso di studio in laboratorio, ma essendo già state pubblicate le osservazioni preliminari, risultano chiare a quali tragiche conseguenze l’ecosistema mondiale andrà incontro nei prossimi decenni, essendo gran parte delle materie plastiche non smaltibili.

La scorsa estate l’intera spiaggia di quell’atollo, ormai considerato l’ex ultimo paradiso dei Mari del Sud, dichiarato patrimonio dell’UNESCO World Heritage sin dal 1988, è ricoperto da una massa stimabile a circa 70 miliardi di frammenti plastici, associata a una quantità di esemplari faunistici deceduti a causa della loro presenza, ed essi stessi fonte di morte delle specie che di essi si nutrono. Quella visione è l’anteprima di quanto accadrà, tra non molti decenni, alle spiagge e ai mari dell’intero pianeta se non si troveranno delle soluzioni a livello internazionale.

Lavers J.L., Bond A., 2017, Exceptional and rapid accumulation of anthropogenic debris on one of the world’s most remote and pristine islands, in Proceedings of the National Academy of Sciences, Edited by Karl D.M., University of Hawaii, Honolulu.  https://www.pnas.org/doi/10.1073/pnas.1619818114

18) leggasi ad esempio https://apnews.com/article/rapa-nui-easter-island-fire-e27ed4f03fa67e2ftdae10341efdc151

19) per la nozione di Deep Event rinvio a: 27 luglio 2018 “Strutture operative transnazionali…” op. citin nota 2

20) dal quotidiano The Guardian, 7 october 2022, Easter Island fire causes “irreparable” damage to famous moai statues; e dal sito statunitense online https://apnews.com/article/rapa-nui-easter-island-fire-e27ed4f03fa67e2f7dae10341efdc151

21) https://www.unesco.org/en/articles/after-fires-rapa-nui-chile-unesco-launches-evaluation-and-management-plan-islands-world-heritage

22) da un punto di vista criminologico la vicenda potrebbe rivelare un seguito interessante. Difatti, nel caso l’incendio doloso sia il frutto di un’operazione ideata e condotta da specialisti, quale un blitz accompagnato da una serie di diversivi, le possibilità di risalire ai mandanti saranno pressoché nulle. Si potrebbe quindi giungere alla classica situazione in cui per necessità politiche si renda necessario di circoscrivere localmente il problema insabbiandolo, e se questo non fosse possibile, banalizzarlo. Qui si entra nel campo delle tecniche di manipolazione di massa, creando quanto serve per l’incriminazione di un singolo o di un piccolo gruppo della minoranza razziale, di personaggi caratterialmente borderline, o comunque invisi al potere dominante locale e nazionale. Il pasto servito alle belve del circo mediatico, che diverte e tranquillizza il pubblico, e elimina la fastidiosa presenza di oppositori.

23) https://whc.unesco.org/en/list/715  Riporto i seguenti brani: "An increase has been observed in cattle that wander illegally inside the Park limits”… “Additional staff and resources are needed for the administration and care of the site, to reinforce the number and training of the park rangers team, and to increase the operating budget. There is constant pressure on park lands; the State must prevent its illegal occupation”).

24) Paula Rossetti, 4 maggio 2021, Nuevo carro forestal para los bomberos di Rapa Nuihttps://www.elcorreodelmoai.com/?p=2697 L’autrice, di origini italiane, è l’editrice de El Correo del Moai, periodico indipendente fondato nell’isola nel 2009).

25) Casey N, Haner J., in https://nytimes.com/interactive/2018/03/14/climate/easter-island-erosion.html

26) Anche il concetto di nucleo familiare è rimasto più ampio rispetto a quello delle popolazioni cristiane Europee e Nordamericane. Oltre alla coppia di sposi e ai loro figli, ne fanno parte anche nonni, zii, cugini e “parenti adottati”.

 

Archaeological Centre-Villari Archive: pubblicazioni scientifiche

In questa sezione è presentata una selezione di pubblicazioni scientifiche di Pietro Villari (monografie, articoli editi da riviste speciali...