Autore: Pietro Villari, 17 Marzo 2023. Tutti i diritti riservati.
Il presente articolo si compone di una parte iniziale,
pubblicata un quarto di secolo addietro da “Grifone”, organo bimestrale
dell’Ente Fauna Siciliana (1), inerenti al mio ritrovamento
avvenuto in Sicilia nel 1997, della raccolta malacologica del barone Corrado
Cafici. A questa segue l’inedita descrizione di mie ulteriori sue collezioni d’interesse
antiquariale, costituite da antichità da egli rinvenute nella seconda metà
dell’Ottocento o pervenutegli in eredità dal padre Vincenzo (morto nel 1906).
Come prevedibile, la mia intraprendenza attirò anatemi
e danni puntualmente elargitimi dal sistema di potere tecno-burocratico addetto
alla tutela e valorizzazione dei beni culturali regionali della Regione
Sicilia. Un apparato in grado di costituire uno dei presidi funzionali
a finalità lobbistiche, politico-clientelari e massoniche, proprie del
composito vertice del sistema di potere dominante nell’Isola.
Nella fattispecie, entrai nel mirino di quel tipico
insieme di personaggi “alla siciliana”, dominati da invidie e gelosie che,
grazie a relazioni con ambienti clientelari dove regna il mercanteggio del “do
ut des”, vengono “sistemati” (ovvero inseriti nel Sistema statale)
con funzioni direttive in apparati Statali e Regionali. Nel mio caso,
generalmente si trattava di dirigenti o docenti collocati nelle Soprintendenze
e Dipartimenti delle tre maggiori Università e delle Soprintendenze, presenti
in Sicilia. Personaggi che a quel tempo - ma accade ancora oggi - aveva
accettato la connivenza con il sistema dominante regionale.
Era quindi inevitabile che, innanzi a studiosi che
avevano scelto la difficile vita della non connivenza, ovvero la libertà
intellettuale, pagata con l’esclusione da incarichi professionali d’eccellenza,
i burocrati di sistema finissero per confrontarsi con la propria coscienza
innanzi alle costanti prove d’inadeguatezza alle mansioni direttive che, in
modo infamante erano giunti a ricoprire.
Ne conseguì che, essendo state ritrovate da uno
studioso bandito dal sistema dominante, a queste preziose raccolte fu riservato
un tutt’altro che felice trattamento. Esse non furono acquisite al patrimonio
della Regione Siciliana e tornarono nel dimenticatoio.
Totalmente opposto fu invece il trattamento riservato
alle raccolte di Ippolito Cafici (fratello minore di Corrado), al quale
recentemente è stato dedicato ampio risalto in ambito museale a Vizzini, ove
gli eredi e i loro amici hanno tra l’altro ricordato i rapporti della famiglia
con la massoneria nel corso del diciannovesimo secolo.
Sulla connotazione e durata di questi legami,
tuttavia, possiedo informazioni contrastanti -provenienti dal nipote Corrado -
per quanto concerne il pensiero del barone Corrado Cafici all’indomani del
fallimento delle speranze del movimento separatista siciliano e, soprattutto,
in seguito a quanto fu diretto testimone nei primi anni della Repubblica
Italiana sino alla sua morte.
“La ‘scoperta’, il restauro e la catalogazione
della Collezione Malacologica dei Baroni Cafici” (da “Grifone”,
ottobre 1998).
Il recupero al patrimonio storico e scientifico
nazionale della Collezione Malacologica dei Baroni Vincenzo e Corrado Cafici
(padre e figlio), ha tutti gli elementi per essere tramandata quale una delle
fortunate scoperte antiquarie di questo fine secolo.
Nel corso dell’Ottocento la sezione dedicata agli
esemplari terrigeni era una delle più note tra gli studiosi europei, che la
arricchirono inviando campioni da tutto il mondo. Così come avvenne per altre
raccolte allestite da aristocratici siciliani, se ne perse traccia agli inizi
del Novecento.
Nella primavera del 1997 fui invitato a prendere
visione di una antica collezione malacologica custodita in una casa di
campagna. A primo acchito, pensai alla solita piccola giovanile raccolta di
conchiglie dimenticata per decenni in qualche cassa.
La scoperta
In verità avevo ben poca voglia di effettuare il
sopralluogo, essendo particolarmente impegnato negli studi, ma pressato dalle
insistenze di un amico finii per accettare. Così, solo quando fui presentato e
mi si rivelò l’illustre nome del proprietario, lo collegai a quello dei
fratelli Ippolito e Corrado Cafici, noti naturalisti e paletnologi, e al di
loro padre Vincenzo.
Assieme al barone Corrado Cafici, nipote dell’omonimo
studioso, ci recammo in una casa di campagna ove, in un antico magazzino
giacevano due alte cassettiere lignee, contenenti conchiglie.
Gli accatastati arredi di altri tempi, la penombra e
la coltre di polvere davano all’ambiente ed alla collezione un aspetto
misterioso e affascinante.
Spinto dalla mia passione per le scienze naturali, mi
diressi verso le cassettiere. Aprendole, mi si presentarono centinaia e
centinaia di scatoline anticamente manufatte, all’interno delle quali erano
riposte conchiglie accompagnate da cartigli.
Passai il pollice su alcuni cartigli ricoperti di
polvere grigiastra, ed alla fioca luce mi si rivelarono in una bella
calligrafia d’altri tempi, didascalie d’impronta scientifica ottocentesca.
Assieme al nome della specie ed alla località di campionamento, erano stati
annotati anche i nomi degli studiosi che avevano inviato questi esemplari.
Sbalordito lessi i nomi e talora la loro stessa calligrafia, di quanti
figuravano nel Gotha della malacologia europea dello scorso secolo. Avevo
innanzi uno dei tesori della ricerca scientifica siciliana di cui si era
perduta traccia: l’opera di alcuni dei più grandi naturalisti siciliani di
tutti i tempi.
In una cassettiera erano custodite le specie marine,
nell’altra quelle terrigene. La collezione sembrava ancora in buono stato di conservazione,
ma necessitava di una urgente e decisa pulitura a secco, di qualche restauro,
così come le cassettiere attaccate dal tarlo.
Il restauro e la catalogazione
L’intera collezione malacologica venne trasportata a
Messina, ove potei espletare tutte le operazioni di pulitura e di restauro dei
reperti, ma anche di catalogazione non essendo nota la lista degli esemplari e
il loro numero.
La procedura impiegata è stata la seguente:
1) le scatoline, le conchiglie ed il cartiglio sono
stati puliti a secco, ovvero con l’ausilio di spazzolini e tubicini inalanti
aria compressa;
2) il contenuto di ogni cartiglio è stato trascritto
in un elenco, annotando anche il numero degli esemplari contenuti in ogni
scatolina;
3) le cassettiere sono state smontate e sottoposte ad
un trattamento antitarlo, a semplici pulitura ed apposizione di una vernice
protettiva.
Come si può constatare, l’intervento è stato condotto
al fine di una pubblica fruizione della collezione nel suo stato originario,
senza alterare l’insieme che costituisce un importante oggetto di studio della
storia della malacologia siciliana ed in generale europea dello scorso secolo,
nonché una base sulla quale operare futuri studi propriamente malacologici.
La collezione
Il numero degli esemplari contenuti nella collezione
ammonta a poco meno di 24.000, dei quali oltre 15.000 custoditi nella
cassettiera A (conchiglie marine), e circa 9.000 nella Cassettiera B
(conchiglie terrigene). Quest’ultima di rilevante interesse scientifico per la
presenza di specie rare ma anche perché ancora oggi rappresenta una delle poche
grandi raccolte europee. Le conchiglie marine sono per lo più riferibili a
specie mediterranee, ma è anche presente una sezione con specie esotiche. Le
conchiglie terrigene appartengono in massima parte a specie italiane, pur
essendo numerose quelle provenienti dall’Europa Centrale, dai Balcani,
dall’Africa Settentrionale, e dai continenti asiatico e americano.
Lo studio dei cartigli ha rivelato l’esistenza di
intensi rapporti di scambio di esemplari e di informazioni tra i Baroni Cafici
(Vincenzo e Corrado) e i maggiori malacologi europei dell’Ottocento. Compaiono
con frequenza i nomi di Westerlund, Tiberi, Aradas, Bourguignat, Lothellerie,
Minà Palumbo, Zuccari, Blanc, Conomenos. I più assidui rapporti, probabilmente
di profonda stima ed amicizia, sembrano essere intercorsi con il Marchese di
Monterosato, la Marchesa Paulucci, il Capitano Adami ed il Cavalier Benoit.
Quest’ultimo dedicò loro una specie scoperta in Sicilia, la Pomatias
cafici.
Vincenzo, Corrado e Ippolito Cafici
Studioso attento, solidamente preparato quanto
modesto, già nella prima metà dell’Ottocento Vincenzo Cafici (Catania,
1818-1906) si distingueva nelle scienze naturali ed antiquarie. Animato da una
profonda passione, possedeva una vasta e aggiornata biblioteca ed intratteneva
rapporti di amicizia con molti naturalisti italiani e francesi. Dopo il 1860
continuò l’attività politica a favore della Sicilia, per la quale nutriva
sinceri sentimenti patriottici, e per ben cinque legislature fu eletto senatore
del Regno. I figli Corrado e Ippolito, che talvolta seguivano il padre nei
viaggi a Roma ed a Firenze, poterono anche usufruire delle sue amicizie per
iniziare una fitta corrispondenza con il mondo accademico europeo, dal quale
furono accolti riconoscendo in loro le stesse doti del padre.
È a Vincenzo Cafici che si devono l’impianto
delle collezioni successivamente ampliate dai due figli Corrado (1856-1954) e
Ippolito (1857-1947): paleontologica e geologica (in seguito donate al Museo di
Geologia dell’Università di Catania), archeologica (in gran parte donata nel
Dopoguerra nel corso degli anni 1940 e 1950 al Museo di Siracusa) e
malacologica.
Il campo di maggiore applicazione di Vincenzo Cafici
fu quello degli studi malacologici, approfondito dal figlio Corrado al quale si
deve la scoperta di numerose specie terrigene, quali Unio sebetinus nel
corso delle ricerche lungo il fiume Sebeto presso Napoli; Valvata
monterosati presso il fiume Anapo e dedicata al Marchese di
Monterosato; Helix egestana; H. himerensis, H.
silvestri, H.ciofaloi nella Sicilia Occidentale; H.
ophisella e H. licodiensis scoperte presso Licodia
Eubea; H. palumboi dedicata al Minà Palumbo; H.
benoiti dedicata al Benoit; H. praeclara, H.
cactorum, H. xerophila, H. melanterozona, H.
vizziniensis westerlundi scopertta in Sicilia presso Vizzini e
dedicata al Westerlund.
Esaminando la collezione malacologica, ciò che
colpisce è l’assoluta mancanza di una sia pur blanda enfatizzazione
dell’importanza delle proprie scoperte. Le scatoline contenenti queste specie
non mostrano alcun particolare segno di distinzione e sono disperse tra le
altre.
Dalla copia della lettera inviata da Corrado Cafici al
Bourguignat nel febbraio del 1886, purtroppo l’unico scritto privato degli
studiosi del quale disponiamo, traspaiono profonda e decisa competenza e grande
passione, ma anche estrema modestia e semplicità, doti che, come il padre e il
fratello, conservò tutta la vita e lo imposero tra i più noti studiosi italiani
dell’epoca.
Non sappiamo cosa abbia spinto il Barone Corrado
Cafici a sospendere gli studi malacologici alla fine dell’Ottocento (motivo per
cui la collezione pervenutaci è “fossilizzata” a quel periodo della ricerca
scientifica), forse la nascente passione per la ricerca paletnologica e per le
scienze agrarie che lo accompagnarono sino alla morte. Lo stesso avvenne al
fratello Ippolito. È molto probabile che l’amicizia e l’intensa
frequentazione con l’archeologo Paolo Orsi, Soprintendente alle Antichità della
Sicilia Orientale, influirono notevolmente nella decisione dei fratelli Cafici
di rivolgere la loro competenza di naturalisti nel campo della ricerca
paletnologica.
La solida preparazione raggiunta da Ippolito e Corrado
Cafici in questa disciplina portò alla collaborazione con l’Orsi (che al fine
di condurre approfondite analisi inviava loro l’industria litica rinvenuta nel
corso delle sue esplorazioni) e sia con istituzioni scientifiche europee. Nel
corso degli anni 1920, ad esempio, i due fratelli parteciparono alla redazione
del monumentale Reallexicon der Vorgeschichte di Max Erbert.
Accanto alle produzioni scientifiche, i Cafici erano
dediti ad altre attività poco o affatto note a causa della loro grande
riservatezza: i dipinti, ad esempio meritano ed attendono approfonditi studi.
Le figure che oggi si impongono ai nostri occhi sono
quelle di personalità complesse, straordinariamente eclettiche, appartenenti ai
più insigni rappresentanti di quella colta e antica aristocrazia che illuminò
la Sicilia dalla seconda metà del Settecento sino ai primi decenni del
Novecento.
Se tutte le raccolte costituite dai Baroni Cafici,
malacologica, paleontologica, geologica, paletnologica, ci fossero giunte nella
loro originaria integrità, ovvero non fossero state donate a più istituzioni
statali (dove, bisogna sottolinearlo, ebbero un trattamento quantomeno
definibile di scarsa tutela e competenza museologica), la Sicilia avrebbe oggi
un consono Museo regionale di Scienze Naturali.
Se la forza di un popolo risiede anche nella
conoscenza e nella celebrazione delle proprie radici, di coloro che con
passione e valore lo hanno rappresentato a livello internazionale, è allora
tempo che la regione Siciliana riconosca i meriti dei Baroni Vincenzo, Corrado
e Ippolito Cafici. Se nel passato una più o meno inconscia volontà politica
iconoclasta ha condotto a dimenticare o a tentare di ridimensionare personalità
di grande valore, forse in quanto appartenenti al più antico ceto
aristocratico, è oggi doveroso e necessario rendere loro giustizia e quegli
onori che già da molto tempo avrebbero dovuto essere stati celebrati.
Venticinque anni dopo. Alcune considerazioni e ricordi
personali della scoperta delle collezioni malacologica e paletnologica di
Corrado Cafici.
È trascorso un quarto di secolo da quando Corrado
Cafici, nipote omonimo del noto naturalista e paletnologo, mi contattò
telefonicamente a nome di un nostro comune conoscente romano, che gli aveva
parlato delle mie avventurose attività scientifiche e degli inevitabili
contrasti con personaggi delle soprintendenze e delle università siciliane. In
famiglia, mi disse tra le prime frasi, avevano avuto le stesse esperienze. Al
telefono mi rivelò solo il nome, che credetti corrispondesse al cognome (“Sono
il Sig. Corrado…”), aggiungendo che in un magazzino seminterrato sito in
una sua casa di campagna vi era una collezione di conchiglie di famiglia.
Detta così, la faccenda sembrava una perdita di tempo,
ma essendovi di mezzo il personaggio che stimavo molto, accettai la richiesta e
lo incontrai all’indomani mattina lungo la provinciale Catania-Siracusa, a una
decina di chilometri dall’innesto della strada per Lentini, in un’area
antistante a un ristorante (credo si chiamasse “Il Cavallino” o qualcosa
del genere).
Ero giunto in perfetto orario, ma lo trovai già in
attesa innanzi alla sua auto. Ebbi subito un’ottima sensazione, in quanto
nell’aspetto e nel socializzare somigliava parecchio al mio carissimo amico
messinese Franz Riccobono, la medesima eccellente cura dell’ètiquette, celebrata
con naturale scioltezza. Classe 1920, era un ultrasettantenne gentiluomo
italiano d’altri tempi. Sin dall’inizio il colloquio fu per entrambi
autenticamente piacevole.
Mi convinse a lasciare in quel luogo la mia auto,
appartenente a una serie ormai rara e ricercata dai collezionisti: “In
questo parcheggio è al sicuro”, riassunse in modo da fugare ogni dubbio, da
uomo appartenente a un ceto generalmente rispettato da “chiddi”,
“quelli” del crimine organizzato siciliano. Mi fece accomodare nella sua auto
d’epoca, una sorta di salotto full optional su quattro ruote.
Mi disse che ci saremmo recati in una sua casa di campagna per dare un’occhiata
alla collezione.
Era una di quelle splendide e frizzanti mattinate
primaverili del Catanese. Parlammo del clima in Olanda, delle colture di agrumi
appartenenti alla sua famiglia curate da generazioni di campieri, di auto da
collezione, di abiti sartoriali, emissioni postali del Regno delle Due
Sicilie (2) e non ricordo che altro, in fluido ecletticismo
che mi ricordò moltissimo le discussioni quasi giornaliere con Edoardo Borzatti
von Löwenstern, mio mentore nel corso degli anni del mio internato
postspecializzazione svolto presso l’Istituto di Antropologia dell’Università
di Firenze dal 1984 al 1988.
Alla fine ci trovammo su una stretta strada sterrata
che si snodava tra colline incolte e brulle, site nei pressi di Vizzini.
Incominciavo a preoccuparmi, quando tutto a un tratto arrivammo innanzi a una
splendida villa di campagna il cui aspetto attuale era probabilmente dovuto a
aggiunte nel corso della fine dell’Ottocento e degli inizi del Novecento. Era
stata costruita nei pressi di una sorgente, credo attivata mediante un pozzo
artesiano, con alberi, arbusti e piante da fiori che le rendevano una grazia da
Eden a torta scalinata, perimetrata da un basso muro di cinta al di fuori del
quale era posta la casa del guardiano. Un luogo ideale per un ritiro
spirituale, o per trascorrere la vecchiaia tra l’armonia della Natura e i
ricordi più cari.
Corrado mi fece visitare l’interno della dimora, dove
mi fu concesso di ammirare i dipinti eseguiti dal suo celebre avo omonimo. In
particolare ve ne era uno che mi colpì per la sua straordinaria forza
espressiva, un contadino in tipico costume siciliano colto in un momento di
riposo o di attesa, appoggiato a un cardine dell’uscio di un’abitazione, lo
sguardo intenso. L’uso del rosso pompeiano e il panneggio per alcuni elementi
del vestiario era magistrale, da artista di notevole valenza. Spero che, assieme
agli altri quadri, possa essere un giorno esposto al pubblico.
Visitammo anche il giardino, dove tra le centinaia di
piante, sia decorative che da frutto, mi affascinò la presenza di notevoli
gruppi di palmette nane siciliane e di un’araucaria altrettanto centenaria. Una
serie di antiche viti innestate (mi fu specificato con particolare letizia) con
varietà da tavola bianche, rosate e nere siciliane, delle Isole Eolie e del
Napoletano, correva attorno alla casa e nel giardino ornandola di passaggi a
tunnel.
Arrivammo infine innanzi al seminterrato. Il vetusto
portone ligneo faticava ad aprirsi, e il barone dovette chiamare il guardiano
per risolvere il problema, scardinandolo, sollevando così una coltre di polvere
all’interno, come lenti vortici cinerei che riflettevano il fascio di luce
solare che adesso cercava di penetrare l’ambiente. Dovemmo aspettare una
quarantina di minuti il rideporsi della polvere, durante i quali il guardiano
ci servì un rinfresco in giardino.
Quando fu tempo di entrare, il barone si accorse che
nel corso degli ultimi decenni sul pavimento si era formato un fine deposito
scuro di ceneri sabbiose, evidentemente provenienti dalle consuete fasi
eruttive parossistiche dell’Etna. Nell’ampio magazzino erano ammassati
polverosi materiali di altri tempi, tra i quali parti di un’antica carrozza
laccata, mobili, scatoloni rosicchiati da roditori dai quali fuoriuscivano
porcellane, vetri, lampade, casalinghi ottocenteschi o ancor più antichi, tende
e drappeggi scoloriti, sfilacciati e tarmati, innumerevoli mazzette di lettere
di condoglianze, bordate di nero e legate da nastrini viola, ammonticchiate a
formare monticelli essendosi pressoché disfatto il sacco che li conteneva;
sacchi di juta squartati dalla vecchiaia e dal peso del loro contenuto, essendo
colmi di giocattoli in legno e metallici, bambole di porcellana di varia
grandezza. Una di queste, caduta malamente, con la testa spaccatasi in
posizione grottesca. L’insieme restituiva l’idea di una cripta familiare
nobiliare di un tempo per sempre perduto, un inghiottitoio di oggetti
appartenuti ai protagonisti di quella illustre casata, come se vi fossero stati
riposti per seguirli nel viaggio nell’Aldilà.
Mentre il barone e il suo custode erano rimasti fuori,
ero penetrato da solo in quell’ambiente affascinante e surreale e, lentamente
ambientandomi a quella luce, nell’ammirazione e nello sconcerto ebbi la
sensazione di non avere alcun desiderio di profanarlo. Poi indirizzai lo
sguardo a sinistra della porta e vidi i due alti mobili con vetrina, che la
voce del barone stava descrivendomi. Mi disse di aprirli, in quanto le vetrate
superiori erano talmente incrostate di polvere da non potersi vedere l’interno.
Girai la chiave arrugginita giacente nella toppa, e aprii con molta difficoltà
e cautela, per non ferirmi con l’eventuale frantumazione del vetro: mi si
presentarono basse cassettiere colme di antiche scatoline colorate recanti
scritte e al cui interno erano riposte conchiglie.
In breve mi resi conto che le due cassettiere
contenevano un’imponente collezione di conchiglie formata nella seconda metà
dell’Ottocento, e “fossilizzatasi” in quello stadio della ricerca scientifica.
Per me, che amavo profondamente le scienze naturali e in particolare la
malacologia, fu una scoperta sorprendente e intensamente emozionante. Una fonte
di pochi secondi di felicità estatica.
Avevo visto abbastanza e la polvere stava iniziando a
provocarmi problemi alla respirazione. Feci per uscire all’aperto quando notai
una terza cassettiera lignea, del tipo anticamente in uso nelle tipografie, la
aprii nel caso vi fossero presenti ulteriori reperti malacologici. Fu
un’ulteriore indescrivibile sorpresa: si trattava della mitica raccolta
paletnologica, istituita nella seconda metà dell’Ottocento, con i materiali
provenienti dagli scavi condotti da Corrado Cafici in diversi siti dell’Eneolitico
iniziale del Catanese. Migliaia di strumenti litici e schegge di lavorazione, e
infine la famosa raccolta d’età Eneolitica iniziale di punte di freccia in
selce locale rinvenuta negli scavi svolti attorno al 1870 in località Santo
Cono (presso Licodia Eubea), risalente a oltre cinquemila anni fa, ad oggi la
più importante della Sicilia.
Uscii all’aperto con il cuore in gola per le scoperte
effettuate. Mi limitai a dire al Cafici che non mi aspettavo quel che avevo
visto, ovvero un importante patrimonio d’interesse storico-scientifico che
meritava un’esposizione museale. Il barone mi sorrise soddisfatto e mi chiese
di fermarmi a Catania per pranzare assieme in un locale di sua predilezione,
dove avremmo potuto parlarne comodamente. Tornammo quindi al parcheggio sulla
strada provinciale e lo segui con la mia auto a Catania, dove mi fece posteggiare
nel suo garage privato.
Attovagliati in attesa del pranzo, preferii solo
chiedergli se avesse una reale idea dell’importanza di quel che conteneva quel
suo deposito di campagna. Mi disse che lo aveva sempre saputo in parte, e che
adesso aveva bisogno di indagare su una serie di fatti - a suo avviso criminosi
- avvenuti ai danni della sua famiglia e che asseriva perpetuati da due
personaggi. Dapprima, da un noto funzionario a quei tempi al vertice della
Soprintendenza siracusana e, anni dopo, da un docente dell’Istituto di Geologia
dell’Università di Catania del quale non ricordava il nominativo.
Un suo esimio pari, residente nel Ragusano, gli aveva
inviato copia della prima parte dell’indagine che avevo pubblicato sulla
rivista “Grifone”, inerente alla controversa vicenda della collezione
numismatica del barone Pennisi di Floristella, personaggi e vicenda che
conosceva molto bene in quanto appartenenti all’aristocrazia siciliana. Aveva
quindi chiesto a un investigatore privato di raccogliere informazioni circa le
mie doti di affidabilità professionale, giungendo alla decisione di contattarmi
tramite un mio conoscente.
Desiderava affidarmi non soltanto l’incarico di
svolgere sia l’espertizzo delle collezioni malacologica e paletnologica, ma che
nel contempo tentassi di mettere in luce una vicenda laddove i suoi
investigatori finivano puntualmente per arenarsi. Un incarico, quest’ultimo,
che svolsi tramite i rapporti personali sui quali a quel tempo potevo ancora
segretamente riporre affidamento, sia nella Soprintendenza siracusana che
nell’Assessorato Regionale ai Beni Culturali e Ambientali.
Si trattava di scoprire quanto era accaduto al
contenuto di 37 casse lignee, zeppe di reperti archeologici di alto valore
commerciale, consegnate in forma di donazione nel 1947 alla Soprintendenza alle
Antichità per la Sicilia Orientale, sita a Siracusa, e sull’esistenza di un
catalogo di quei reperti corredato da loro foto d’epoca.
Inoltre, era profondamente amareggiato del fatto che
le sale dedicate ai fratelli Cafici nel Museo Archeologico di Siracusa (sino
agli inizi del 1987 situato in Piazza Duomo), al momento del trasloco non erano
state rinnovate nella nuova sede del Museo costruito nel parco di Villa
Landolina (3).
Ciò era in contrasto con l’accordo raggiunto negli
anni 1947 e 1955 tra la famiglia Cafici e la Soprintendenza siracusana, in
quanto le donazioni erano state effettuate espressamente in cambio della loro
esposizione entro le “Sale Cafici”, dedicate dal Museo Archeologico di
Siracusa alla memoria dei due fratelli mecenati.
Obiettai che sarebbe stato altamente pericoloso, per
entrambi, occuparsi di quella vicenda. Si trattava di un ambiente dove oltre a
enormi interessi politico-clientelari, aleggiavano persino sospetti di
coinvolgimento diretto in vicende zeppe di strane coincidenze. Non ultimo, un
caso con aspetti surreali che mostrava legami con un “suicidio eccellente”,
quello di un architetto svizzero in un wagon-lit Siracusa-Roma utilizzando due
fucili da caccia puntati alla gola e poi riposti sul letto... Volli accennargli
di quest’ultimo, avvenuto nel 1984 al tempo degli scavi nell’area del
costruendo Santuario della Madonna delle Lacrime a Siracusa, ma mi accorsi che
era perfettamente al corrente della vicenda, al punto di specificarmi alcuni
dettagli. Questa discussione influì positivamente sui nostri rapporti di
lavoro (4).
Nonostante la premessa, accettai volentieri la sua
proposta. Ormai, la mia carriera di archeologo in Italia era stata distrutta da
quegli stessi ambienti che avevano tradito la fiducia della famiglia di Corrado
verso lo Stato Italiano. Anziché gettare alle spalle il mio passato di
archeologo in Italia e di riconsiderare la possibilità di trasferirmi
immediatamente, come anni prima programmato, dall’Olanda nella splendida
Polinesia Francese (5), ritenni che sarei espatriato soltanto dopo
avere fatto luce sulle attività siciliane dei miei detrattori, esponendole
pubblicamente. A quel tempo, non avevo preso coscienza del fatto che la
malvagità delle persone spregevoli si nutre anche dell’odio istigato nelle loro
vittime, e che sono ben altre le difese non violente che riescono efficacemente
ad allontanarle.
Il barone aveva previsto la mia risposta, ma non mi
aspettai la frase “Allora… qua la mano. Da questo momento, sarei lieto se
passassimo a un rapporto confidenziale”. Fu l’inizio di un’amicizia
genuina, schietta e spesso divertente, stroncata anni dopo dal veloce
aggravarsi di suoi gravi malanni senili e dal conseguente sopraggiungere della
morte.
Nelle settimane successive, Corrado mi rivelò le
tristi vicende alla base della dissoluzione delle collezioni private dei
fratelli Cafici iniziata nella seconda metà degli anni
1940. Dapprima per opera del Soprintendente alle Antichità della Sicilia
Orientale, Luigi Bernabò Brea (6). Questi aveva a quel tempo visionato le collezioni di
Ippolito Cafici e lo aveva convinto nel 1946, l’anno antecedente alla morte, a
donare (con lascito olografico tuttavia stilato nel 1947) la ricca collezione
al Museo Paolo Orsi di Siracusa, cosa che puntualmente si realizzò nel
1948.
Il fratello di Ippolito, il già ultranovantenne
Corrado Cafici, facilitò in ogni modo il rispetto del volere del fratello,
giungendo a permettere al Bernabò Brea di portar via tutta la collezione
archeologica contenuta in ben 37 casse lignee. Stando a quanto mi assicurò il
nipote Corrado, confidando nel Soprintendente, suo nonno non aveva richiesto
alcuna catalogazione preliminare dei reperti, accettando che sarebbe stata
effettuata come promesso dallo stesso Bernabò Brea, in tempi brevi negli uffici
della Soprintendenza siracusana.
Le informazioni fornitemi da Corrado in quella
primavera del 1997, mi furono preziose in quanto, a causa della stretta
parentela e lunghi periodi di coabitazione, nel corso dei suoi primi trent’anni
aveva avuto modo di conoscere molto bene le attività dei due fratelli Cafici.
Era stato quindi diretto testimone del fatto che, dopo la morte dello zio
Ippolito, alla famiglia Cafici non venne mai inviata nemmeno una semplice lista
degli oggetti donati, né tantomeno le fotografie di questi. Eppure si trattava
di un insieme che aveva un indubbio alto valore commerciale oltre che
storico-artistico. Corrado mi assicurò la sua certezza che l’espertizzo del
valore della donazione non fu mai espletato, anche perché i materiali non
furono mai catalogati dalla Soprintendenza. E, se eventualmente lo furono in
seguito, questo dovette avvenire senza che alla sua famiglia fosse stata
inviata comunicazione. In ogni caso, l’attività della donazione era avvenuta
senza che alla famiglia fosse stata data la possibilità di controllare
eventuali mancanze.
È opportuno ricordare che una simile situazione
si verificò in quei decenni anche per la Collezione numismatica dei baroni
Pennisi di Floristella, vicenda alla quale recentemente in questo blog ho
dedicato due articoli accompagnati da considerazioni, grazie anche all’aiuto a
quel tempo fornito da Corrado a contestualizzarla anche tramite i ricordi e le
documentazioni in possesso di altri aristocratici siciliani, ai quali venni da
egli presentato (7).
Nel 1955, anno successivo alla morte di Corrado
Cafici, il Bernabò Brea tornò alla carica con una informale richiesta agli
eredi di donare sia la collezione paletnologica di questi e sia una decina di
reperti preistorici e d’età greca appartenuti alla raccolta formata nel corso
del 1800 dal padre, il barone Vincenzo Cafici. Tuttavia, memori di
quanto era accaduto otto anni addietro, in occasione della donazione della
collezione di antichità archeologiche appartenuta a Ippolito, questa volta i
Cafici si mossero con molta prudenza. Consegnarono solo alcune scatole
contenenti strumenti litici provenienti da siti di età neolitica dell’area
etnea, richiedendo la loro immediata catalogazione e valutazione valida ai fini
fiscali. Ma essi non mancarono di rinnovare al Soprintendente Bernabò Brea la
richiesta di avere finalmente consegnate, e in modo formale: il primo elenco
dei reperti, la loro numerazione progressiva di accesso al museo, la completa
catalogazione scientifica dei reperti pertinenti la collezione di antichità
archeologiche donata da Ippolito Cafici. E, non ultimo di avere specificato il
contenuto di ognuna delle 37 casse, le foto di ogni reperto e l’ammontare della
valutazione di mercato nell’anno 1948, ai fini del recupero dei benefici
fiscali.
Secondo quanto riferitomi con amarezza da Corrado
Cafici nel 1997, il Soprintendente rispose solo con una missiva di
ringraziamento, come era avvenuto nel caso della donazione della collezione di
Ippolito Cafici. E mai ricevettero alcuna catalogazione e/o documentazione
fotografica inerenti a questi materiali donati. Seguendo il destino della
raccolta malacologica, anche quella paletnologica pertinente all’industria
Eneolitica siciliana formata nella seconda metà dell’Ottocento da Corrado
Cafici, finì nel dimenticatoio delle “stranezze” operate dall’Amministrazione
Regionale siciliana (8).
A quel tempo, la mia preoccupazione di studioso
consisteva nel destino che sembrava essere riservato ad entrambe le due
collezioni di Corrado Cafici, malacologica e paletnologica, che avevo appena
scoperto. In particolare, temevo che finissero in una di quelle collezioni
private, come era accaduto a molte altre collezioni siciliane Ottocentesche,
dove prima o poi sarebbero state saccheggiate da mercanti locali che le
avrebbero vendute a collezionisti e antiquari dell’Italia Settentrionale o
d’Oltralpe, ricavando somme sostanziose (9).
Si trattava di collezioni appartenenti alla storia
della ricerca scientifica e della formazione di collezioni antiquariali presso
famiglie aristocratiche in Sicilia, che in tal modo le avevano salvate
dall’espatrio. Avevo instaurato un buon rapporto con Corrado e la sua compagna,
assieme alla quale riuscimmo a convincerlo di prendere contatti con
l’Assessorato Regionale ai Beni Culturali e Ambientali e per l’Identità
Siciliana e con la Soprintendenza ai BB.CC.AA. di Catania quale suo ufficio
periferico di competenza territoriale.
Questa iniziativa era a mio avviso il primo passo
fondamentale sia per rendere note allo Stato Italiano non soltanto la scoperta
delle collezioni e la loro localizzazione, ma anche spingerlo a attivare le operazioni
di tutela e di salvaguardia dell’insieme dei reperti, anche quale unicum d’interesse
storico-scientifico. In particolare, la raccolta malacologica rappresentava
un’importante testimonianza dell’elevato livello di preparazione nella ricerca
scientifica malacologica raggiunto da Corrado Cafici nello studio dei molluschi
polmonati, nell’arco temporale tra la seconda metà del diciannovesimo e gli
inizi del ventesimo secolo, rimasto miracolosamente per così dire
“fossilizzato” nelle condizioni espositive e descrittive tipiche di quel
periodo.
Inoltre, in base alle vigenti leggi regionali
siciliane, il possesso di collezioni d’interesse culturale contenenti reperti
databili a oltre cinquant’anni, doveva essere comunicato formalmente
all’Ufficio di competenza, sito a Palermo presso una struttura dell’Assessorato
Regionale ai BB.CC.AA.
Per prevenire il verificarsi di quei problemi che la
famiglia Cafici aveva patito a seguito delle donazioni effettuate negli anni
Quaranta e Cinquanta, Corrado nella sua qualità di proprietario in linea
ereditaria (ovvero tramite il padre Giuseppe Cafici, figlio di Corrado) delle
collezioni in oggetto, decise su mio consiglio di trasmettere due separate
lettere informative all’Assessorato e, per conoscenza, alla locale
Soprintendenza (Catania).
Una era diretta all’Ufficio di competenza per le
collezioni d’interesse naturalistico, accompagnandola dal fascicolo contenente
la mia dettagliata catalogazione dei reperti, loro quantità e l’espertizzo del
valore complessivo di mercato in quell’anno. La seconda missiva informava del
possesso dei resti della collezione d’interesse paletnologico, la loro sommaria
catalogazione e valore di mercato.
Per la stesura di queste missive chiesi consiglio al
Generale Roberto Conforti, da alcuni anni trasferito al Comando della Brigata
sito a Roma, al quale erano sottoposte tutte le sedi periferiche - regionali -
dell’allora denominato Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Artistico (T.P.A.).
A questi avevo riassunto la situazione e confidato i miei timori sul futuro di
entrambe le raccolte. Così, il Barone Cafici alle sue comunicazioni alle
Istituzioni regionali allegò anche i due miei espertizzi compilati su sua
richiesta nella qualità di proprietario della ditta olandese Archeological
Centre (10), specificando altresì la mia qualifica di laureato
in scienze naturali con indirizzo geografico-archeologico, e di archeologo in
possesso di diploma di specializzazione in preistoria, nonché di incaricato
dell’espertizzo del valore di mercato di beni d’interesse archeologico e
naturalistico.
In seguito, Corrado Cafici mi disse che dopo aver
inviato la lettera pertinente alla collezione malacologica, utilizzando come
per le altre il servizio postale statale RR (raccomandata con ricevuta di
ritorno), aveva aspettato invano risposta per oltre un anno. E questo
nonostante avevo chiesto (su diretto suggerimento del Generale) a Sebastiano
Tusa di interessarsi della vicenda (inviandogli tra l’altro copia del catalogo
e della corrispondenza intrattenuta sia dal Cafici che da me con le istituzioni
regionali). In quegli anni non avevo ancora iniziato a mettere in luce i
rapporti intercorrenti tra il Conforti e i Tusa, padre e figlio.
Stanco di attendere anni, Corrado mi riferì
telefonicamente di avere venduto la collezione malacologica ad un’antiquaria di
Catania che lo frequentò nei suoi ultimi anni, della quale non volle confidarmi
le generalità.
Il terzo ritrovamento: i resti della raccolta Vincenzo
Cafici di vasi figurati d’età greca
In segno di amicizia, nella primavera del 1997 Corrado
Cafici un giorno mi invitò a visitare l’imponente Palazzo Cafici costruito dai
suoi avi nel centro di Catania, in via Sant’Eulipio con accesso principale al
n. 54. La parte spettante a suo nonno Corrado era costituita da una tipica
abitazione delle classe agiate catanesi del Settecento, occupante l’intero
primo piano del palazzo, con una infinità di ampie stanze e saloni a soffitto
alto. Sembrava essere stata abbandonata da decenni, ormai svuotata di gran
parte dei beni mobili, eccetto che in un enorme salone dove una montagna di
libri giacevano su un tavolone. In una stanza minore vi era un’antica scatola
da scarpe da donna, contenente due file ben ordinate di missive affrancate,
pertinenti a una periodica corrispondenza tra parenti che risaliva agli anni
venti dello scorso secolo. In quel centinaio di lettere vi era il resoconto
della vita quotidiana nella villa di campagna presso Vizzini.
In un’altra stanza, celati da un gruppo di assi
lignee, trovai tre scatoloni di fattura più recente, all’interno dei quali
rinvenni alcuni pregevoli reperti ceramici di età greca, avvolti in fogli
ingialliti di giornali datati agli inizi degli anni Sessanta. Si trattava di un
insieme di grande valore artistico e storico-archeologico, e chiesi a Corrado
della loro provenienza.
Nel 1906, una preziosa raccolta di antichità
appartenuta al bisnonno Vincenzo Cafici (Corrado non ricordava se posseduta per
eredità o acquisti, ma certamente risalenti al corso dell’Ottocento), era
pervenuta in eredità alla morte di questi, divisa in due quote disuguali, ai
figli Corrado e Ippolito. La parte spettante a Ippolito fu in seguito donata
con lascito testamentario allo Stato che ne prese possesso nel 1947. La parte
ricevuta da Corrado, giunse nel 1954 in eredità al figlio Giuseppe e da questi
in seguito al figlio Corrado (11).
Avvertii immediatamente il Generale Roberto Conforti
al Comando Nucleo Carabinieri T.P.A. di Roma, con il quale alcuni mesi addietro
avevo già parlato anche della programmata vendita all’asta in Svizzera di rare
monete greche, un tempo appartenenti alla collezione del barone Pennisi di
Floristella ed evidentemente trafugate di recente.
Al proposito della scoperta dei vasi d’età greca il
Generale mi consigliò di attivarmi al più presto, al fine di favorire
l’acquisizione dei reperti al patrimonio regionale, raccomandandomi di non
rendere pubblica la notizia del ritrovamento. Avrebbe allertato del fatto la
Soprintendenza di Catania tramite la sede regionale del T.P.A. in Sicilia, ma
nel frattempo avrei dovuto chiedere al Cafici di inviare una missiva alle
Istituzioni di competenza (Assessorato Regionale BB.CC.AA. e Soprintendenza ai
BB.CC.AA. di Catania), corredata in allegato della mia descrizione del piccolo
gruppo di reperti di età greca, dichiarandone il loro valore di mercato.
Circa una settimana dopo, Corrado mi informò che una
funzionaria della Soprintendenza, avrebbe effettuato un sopralluogo
nell’abitazione in cui era domiciliato, dove aveva preferito trasportare i
reperti per tutelarli, dopo averne da me appreso il valore.
Il barone mi ritelefonò in Olanda qualche giorno prima
del controllo. Era in preda all’agitazione, in quanto non aveva fiducia nello
Stato. Qualcuno lo aveva convinto che alla Soprintendenza avrebbero ideato di
tutto pur convincerlo a effettuare donazione, e che in caso contrario avrebbero
paventato il loro sequestro cautelativo, ai fini della catalogazione e
valutazione dei diritti di possesso privato. Lo rassicurai dicendogli che avrei
preso un volo aereo per raggiungerlo a Catania, presenziando in qualità di
esperto di parte, affiancando un suo parente avvocato nello svolgimento delle
operazioni di constatazione di detenzione dei reperti.
La funzionaria mantenne un comportamento affabile,
scattò foto di ogni reperto e compilò un verbale che fu firmato dai presenti.
L’incontro durò alcune ore e fu interamente filmato dall’avvocato che ebbe
anche cura di registrare le conversazioni, utilizzando una videocamera
professionale.
Tempo dopo, come aveva previsto, il vertice della
sezione archeologica della soprintendenza iniziò a telefonargli con una certa
frequenza, chiedendogli il motivo della mancata dichiarazione di possesso dei
reperti già nei decenni addietro e una quantità di informazioni che non
lasciavano presagire niente di buono. Ritelefonai al Comando TPA per avvertire
della situazione, che pur non avendo il potere di intervenire nell’immediato
sulle attività della Soprintendenza catanese, sollecitò l’interesse del responsabile
della sede regionale del T.P.A. a Palermo.
Convinsi il barone a permettermi di eseguire una serie
di dettagliate foto dei reperti in oggetto, nonché il calco di un reperto in
bronzo di età greco arcaica per mie esigenze investigative delle
quali era in parte al corrente. Ne feci riprodurre una copia che, assieme ad
altre riproduzioni di reperti acquisite nell’Italia Centrale, costituì un
prezioso aiuto nello svolgimento della mia ricerca scientifica nel mercato
internazionale dell’antiquariato archeologico e delle falsificazioni, giungendo
a inserirmi in particolari “ambienti” dove appresi anche di vicende accadute in
Sicilia (12). Fu l’unica mossa produttiva nella mia collaborazione
con Corrado Cafici.
Alla fine il Corrado decise giustamente di delegare
tutte le attività all’avvocato di fiducia, avendo a suo dire avuto conferma da
fonti affidabili, che in Soprintendenza iniziava a profilarsi l’ipotesi di
procedere con un sequestro cautelativo delle collezioni. Subentrarono le
amicizie politiche di grosso calibro, per intenderci quei personaggi che
scelgono e riescono a imporre i nominativi dei soprintendenti e dei loro
dirigenti di sezione, e ne determinano la nomina a ogni cambio di governo, e
tutto finì nel dimenticatoio della farraginosa macchina burocratica isolana.
Non ho più avuto notizie di questa importante
raccolta, contenente reperti tra i più belli e rappresentativi della produzione
greca in Sicilia. Ne conservo con tristezza i negativi delle foto a colori,
ormai sbiaditi dal tempo.
La raccolta Corrado Cafici di strumenti litici
provenienti da Santo Cono di Licodia Eubea.
La collezione contenente l’industria litica,
attribuita all’Eneolitico iniziale del Catanese, fu invece fortemente richiesta
dal noto collezionista di antichità preistoriche siciliana, l’Avv. Primo
Veneroso di Sciacca, nell’Agrigentino, al quale però Corrado rifiutò di cederla
ritenendolo persona legata a ambienti indegni.
Avendo appreso dei miei rapporti con il barone Cafici,
il Veneroso mi contattò per convincermi ad acquistarla personalmente con il
fine di cedergliela in seguito. Al mio diniego giunse persino a farmi
telefonare per ben due volte dal suo amico Sebastiano Tusa, archeologo, a quel
tempo dirigente della Regione Siciliana con il grado di Soprintendente ai
BB.CC.AA. Il Tusa si spinse a offrimi in cambio la stipula di un incarico di
studio, ben retribuito, pertinente a una importante quantità di resti ossei di
cervi databile agli inizi del V secolo a.C., rinvenuti nel corso di scavi in un
deposito votivo dell’area detta della Malophoros sita nel parco archeologico di
Selinunte (13).
In pratica, avrei potuto ricominciare a lavorare quale
archeozoologo professionista nella Sicilia Occidentale, ma soltanto se mi fossi
piegato ai meccanismi del “sistema” siciliano, dando prova di capacità di
prodigarmi in una connivenza attiva e di alta affidabilità in situazioni a dir
poco borderline. Profondamente disgustato, ne parlai immediatamente
di persona con Corrado Cafici, che si commosse per la lealtà dimostratagli.
Attraversai alcuni mesi di profonda depressione. Avrei voluto tornare a
lavorare in Sicilia, dove le mie aspirazioni scientifiche ormai da un decennio
erano puntualmente neutralizzate da quella realtà farcita da giochi di potere
lobbistici, condotti da massoni e mafiosi siciliani e loro conniventi, che su
tutto decidevano senza lasciare alcuno spazio a un cambiamento. Inoltre, più
andavo avanti - per reazione - con le mie inchieste private per conoscere le
verità e cercare così di difendermi, ovvero più pentoloni puzzolenti
scoperchiavo, più si rafforzavano le attività di coloro che avevano interesse a
screditarmi con maldicenze per crearmi il completo vuoto attorno.
Tornando a Corrado Cafici, questi mi chiamò alcuni
giorni dopo, dicendomi che dopo essere stato contattato da un suo pari del
Palermitano offertosi quale mediatore, aveva raggiunto un accordo propostogli
dal Veneroso. Avrebbe rilasciato una dichiarazione scritta, autenticata presso
un ufficio pubblico di Catania, nella quale garantiva di ricordare che i suoi
celebri avi avevano avuto rapporti di scambio di reperti archeologici con il
padre del Veneroso nel Dopoguerra. Il fatto era ritenuto vero dal Veneroso ma
ignoto e quindi negato da Corrado, che tuttavia si trovava in una situazione di
pressioni psicologiche che, numerose, gli pervenivano da personaggi potenti per
spingerlo ad accettare le offerte del Veneroso. In particolare, mi confidò di
avere paura per la salute dei suoi agrumeti e delle attività commerciali a essi
legate. Così, Corrado gli inviò la dichiarazione per posta, poche righe
rispetto a quanto “suggeritogli” in una minuta dal Veneroso, rifiutando ancora
una volta d’incontrarlo.
Negli anni seguenti appresi che il documento aveva
avuto molta importanza per l’Avv. Veneroso, che necessitava prove atte a
legittimare il suo possesso d’importanti reperti d’interesse archeologico, anni
addietro sequestratigli nel suo palazzo di Sciacca su ordine della magistratura
agrigentina.
Oltre a inviargli il documento che il Veneroso, a suo
dire, aveva di fatto estorto con le pressioni, Corrado gli comunicò per
telefono che mi avrebbe ceduto la collezione come da questi richiestogli.
Credendo che avessi accettato l’offerta del Tusa di cedergliela poco dopo, il
Veneroso gli rispose che accettava le sue decisioni e che non avrebbe insistito
oltre.
Lo stesso Veneroso mi telefonò per avvertirmi degli
sviluppi dell’operazione e per garantirmi che il Tusa avrebbe rispettato i
patti: i miei problemi di lavoro in Sicilia sarebbero finiti con la mia
compravendita della collezione paletnologica. A quel punto telefonai al Cafici
e, senza specificare al telefono il motivo, gli chiesi d’incontrarci
all’indomani nell’appartamento di sua residenza a Catania, a quel tempo sito in
via G. D’Annunzio. Il motivo di tale precauzione risiedeva nel fatto che il
Veneroso (già noto esponente della fratellanza massonica “giuridica”) aveva il
potere di ottenere informazioni e contatti ovunque ne avesse il bisogno,
persino presso importanti vertici di Istituzioni statali a Roma.
Quando Corrado mi ragguagliò sul motivo della sua
decisione, senza che ne fossi stato messo per tempo a conoscenza, volle anche
rivelarmi quali fossero le sue finalità. Mi consegnò uno scatolone contenente
estratti di pubblicazioni di paletnologia scritte dal nonno e una busta
contenente appunti e missive da questi ricevute da noti studiosi italiani del
periodo a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento.
La compagna, che era presente all’incontro, s’inserì nel dialogo dicendo commossa
che era un dono per la mia biblioteca, e per il comportamento leale che le
ricordava quello del fratello, deceduto prematuramente tempo addietro.
Mi rivelò che di recente avevano ricevuto diversi
avvertimenti, con una tempistica che gettava gravi sospetti su quelle che
definiva “le macchinazioni del Veneroso”, pervenuti da
conoscenti che riferivano voci di una mia pessima reputazione in base a
infamità che si rifiutò di riferirmi. Un esempio di come agisce la
“macchina del fango”, risposi. Corrado replicò affettuosamente di non
preoccuparmi e di focalizzare la mia attenzione sul fatto che aveva deciso di
vendermi la collezione paletnologica al prezzo dieci volte inferiore a quello
offertogli dal Veneroso.
L’operazione, pur lusingandomi per la fiducia, non mi
attirava affatto. Cercando di non offendere la sua sensibilità, risposi che
acquistando la collezione a prezzo così basso avrei attirato le ire sia del
Veneroso che di Sebastiano Tusa, al quale questi era legato da antica amicizia.
I due, evidentemente, rinnovavano i rapporti intercorsi molti anni addietro in
quel di Selinunte, tra un ancora giovane Veneroso e il Soprintendente Vincenzo
Tusa, padre di Sebastiano (14).
Rifiutai di vendere la collezione all’Avv. Veneroso,
cosa che venne da questi considerata un grave affronto e, come prima
conseguenza, mai piu' ricevetti alcun incarico professionale dalle Istituzioni
statali e regionali in Sicilia. Tuttavia, la vera “punizione” giunse una
dozzina di anni dopo, quando rientrai in Sicilia per difendere l’ampia area
archeologica di Monte Belvedere - Pianura Chiusa di Fiumedinisi, ove ha tra
l’altro sede il Castello Svevo, ovvero le surreali devastazioni apportate
tramite cementificazioni e sventramenti con ruspe da personale dirigente della
locale Soprintendenza e da una ditta appaltatrice dei lavori banditi dalla
locale amministrazione comunale, al tempo in cui sindaco era Cateno De
Luca (15).
Alcuni anni addietro, fortemente sostenuta dai
discendenti di Ippolito Cafici, il Comune di Vizzini volle istituire una
sezione museale cittadina dedicata alle attività scientifiche e politiche degli
esponenti di primo piano della famiglia Cafici nei secoli scorsi. Il tutto si
svolse sotto l’occhio vigile della locale Soprintendenza.
L’inaugurazione fu affiancata da un convegno, del
quale ebbi notizia mesi dopo da una giovane che si presentò quale
collaboratrice di una testata giornalistica della provincia catanese. Mi chiese
il motivo del mio silenzio sull’evento, avendo ricevuto da un collega la copia
del mio articolo pubblicato da “Grifone” nel 1998 e incuriosita dal fatto che
nel corso del convegno un archeologo le aveva fatto il mio nome, asserendo che
custodivo una importante parte dell’archivio delle corrispondenze intrattenute
da Corrado Cafici con paletnologi italiani e stranieri di quel periodo.
Non le chiesi chi le aveva fornito quel mio numero di
cellulare, che cambiai il giorno stesso trattandosi di un numero riservato. Mi
limitai a rispondere che vivendo in Olanda non ne avevo saputo nulla, e che
ormai nutrivo scarso interesse alla vicenda. Inutile riferirle che Corrado
Cafici, avendo un quarto di secolo addietro rifiutato di cooperare con la
Soprintendenza di Catania, era stato probabilmente cancellato dalla lista dei
personaggi da citare, includendo nel trattamento anche le sue collezioni. Ne
risultò che la figura del suo avo omonimo passò in secondo piano rispetto a
quella del fratello Ippolito, non saprei dire se per motivi familiari o per le
limitate capacità dei curatori di quella mostra dei tesori paesani.
Come prevedibile, la giovane insistette sul tema
dell’ingiustizia e dell’indignazione per creare una diatriba funzionale ai suoi
fini giornalistici, secondo la consuetudine di mantenere la verginità
professionale facendo carriera con il culo degli altri. Preferii quindi
rispondere che ormai non avevo alcun contatto con gli ambienti delle
soprintendenze e delle università siciliane, e che il compito di indagare ormai
apparteneva solo ai giornalisti professionisti come lei.
Se ne guardò bene dal farlo. Avrebbe dovuto spiegare,
ai lettori del suo giornale di provincia, com’è strutturato e come funziona il
sistema del potere dominante che decide e controlla tutte le attività della
società siciliana. Prima, però, avrebbe dovuto trovare il modo di addolcire il
garante della testata, il quale solo a leggere le prime righe dell’articolo in
condizioni normali si sarebbe imbestialito, dandole quantomeno dell’imbecille.
Ma lei non era il tipo da suicidarsi professionalmente. Non per un ideale
lontano anni luce dalla sua realtà, legata alla necessità di sopravvivere in
quell’Isola dei Dannati. Una che sa stare al suo posto, senza versare notizie
fuori dal vaso.
Note
1) Villari P., 31
ottobre 1998, La “scoperta”, il restauro e la catalogazione della Collezione
Malacologica dei Baroni Cafici, Grifone, organo bimestrale
dell’Ente Fauna Siciliana, anno VII, fasc.5 (35), pp. 2-3.
2) Alcune
settimane dopo, nel corso di una fiera filatelica tenutasi a Verona, scoprii
dai Bolaffi di Torino che la collezione Cafici, iniziata dal bisnonno Vincenzo,
godeva da lungo tempo fama nazionale.
3) Colgo
l’occasione per ricordare come l’operazione comportò uno scempio ambientale, in
quella sua brutale consuetudine operativa che costituisce un monumento
all’arroganza del cementificio politico-clientelare siciliano, compromettendo
irrimediabilmente l’antica bellezza dei luoghi, come fosse una calcolata
profanazione perpetuata da chi odia la manifestazione dell’armonia.
4) Mi riferisco
al (controverso) suicidio dell’architetto Paul Ernest Auberson, al quale ho
dedicato il diciannovesimo capitolo di un mio romanzo, inserendo anche alcuni
cenni relativi a questa vicenda:
Villari P., (2006) 2013, L’Indagine Orfica.
Terza edizione, Archaeological Centre ed., Olanda, pp. 1-324. ISBN
9789082069518 (Cap. 19, pp. 210-235).
5) Un aneddoto
che dedico ai giovani costretti a emigrare, affinché riflettano sulla
onnipresente possibilità del verificarsi d’imprevisti. Nel dicembre 1991, prima
dell’aggravarsi delle condizioni di salute di Djellah van Walt van Praag,
deliziosa compagna di viaggi avventurosi, avevamo programmato già nei dettagli
di stabilirci in un’isoletta della Polinesia Francese.
Avevamo accettato l’offerta pervenutaci da una coppia
di anziani suoi amici di famiglia, ai quali necessitavano partners affidabili
per gestire le loro coltivazioni di vaniglia di qualità pregiata, iniziate
decenni addietro per sostenere la comunità hippy della quale
facevano parte, poi lentamente estintasi. Non avendo figli né parenti
disponibili, sarebbero stati felici di accoglierci nella gestione delle
attività e, con i lauti guadagni, di sostenere il nostro progressivo
rilevamento della loro proprietà. Le informazioni che aveva raccolto il padre
di Djellah, anziano ex ambasciatore olandese giramondo, erano entusiasmanti: un
sogno da vivere in quella sorta di Blue Lagoon.
Tuttavia, ebbi il buon senso di comprendere che mi
sarebbe stato impossibile godere quel Paradiso, se torturato dalla
consapevolezza di avere lasciato alle spalle, impunite, le gravi infamie che
avevo subito in quell’orrore sociale ancora chiamato Sicilia.
Fui fortunato a non impegnarmi finanziariamente in
quell’attività. L’anno seguente Djellah iniziò ad avere gravi problemi di
salute, scoprì di avere un cancro devastante, sopravvisse all’operazione, ma
alla fine il male ritornò con voracità tale da ucciderla. Mi ammalai gravemente
anch’io e persi ogni interesse per quel paradiso che si sarebbe trasformato in
un inferno, in quanto l’isoletta polinesiana era piuttosto distante e a volte
per giorni non raggiungibile dall’unico ospedale specializzato nell’area, sito
nell’Isola di Tahiti.
La giovane olandese che divenne la mia nuova compagna,
e i cinque figli che in seguito avemmo, non avrebbero sopportato a lungo i
ritmi di una vita pressoché solitaria in quell’Eden primordiale. Il ricordo
delle foto dell’Isola mostratemi nel 1992, quella bellezza struggente del
paesaggio, l’essenzialità delle capanne e della vita scandita dalle fasi della
Natura, torna talora ancor oggi a ospitare i miei sogni inquieti.
6) per i miei
rapporti intercorsi con Luigi Bernabò Brea rimando agli articoli:
Villari P., 26 ottobre 2022, Lipari anni 1980.
Luigi Bernabò Brea e le offerte
sacre del dio Eolo; la solitudine di Leonardo Sciascia nel Cinema Eolo. E altri
aneddoti. Pubblicato in The Reporter’s Corner:
https://www.thereporterscorner.com/2022/10/lipari-anni-1980-luigi-bernabo-brea-e.html
Villari P., 3 gennaio 2023, Fantasmi di
processi mai nati. 3) Il dossier scomparso “Collezione numismatica Pennisi di Floristella”.
Seconda parte: quando la Regione Siciliana sborsò oltre quattro miliardi di
lire. Pubblicato in The Reporter’s Corner:
https://www.thereporterscorner.com/2023/01/fantasmi-di-processi-mai-nati-3-il.html
7) Villari P., 19 dicembre 2022, Fantasmi di processi mai
nati. 2) Il dossier scomparso “Collezione numismatica Pennisi di Floristella”,
Prima parte: il carteggio. in The Reporter’s Corner. In particolare leggasi il
capitolo “Come giunsi a localizzare e effettuare lo studio del Carteggio
Pennisi di Floristella” (e quanto specificato in quella sede in
nota 5).
https://www.thereporterscorner.it/2022/12/fantasmi-di-processi-mai-nati-2-il.html
Villari P., 3 gennaio 2023, Fantasmi di processi mai
nati. 3) Il dossier scomparso “Collezione numismatica Pennisi di Floristella”.
Seconda parte: quando la Regione Siciliana sborsò oltre quattro miliardi di
lire. The Reporter’s Corner:
https://www.thereporterscorner.com/2023/01/fantasmi-di-processi-mai-nati-3-il.html
Gran parte dei preziosi contatti, copie di documenti e
chiarimenti rilasciati in via confidenziale da personaggi siciliani a
conoscenza della vicenda Pennisi di Floristella per la stesura degli articoli
pubblicati nel 1998 e nel 2000, furono facilitati dall’appoggio fornito dal
barone Corrado Cafici.
8) rimando a
quanto ho già ampiamente espresso sull’argomento in molti articoli pubblicati
da questo blog, tra i quali segnalo:
Strutture operative transnazionali e il network
sopranazionale Deep States. Un criminilogo nell’Arca di Noah, (ex thereportersblog.com 30 luglio 2018, non più
attivo) dal 18 giugno 2018 consultabile all’indirizzo:
https://thereporterscorner.com/2018/06/strutture-operative-trasnazionali-e-il.html
La Tecnocrazia e il Sistema di Potere siciliano, Parte
IV. Come evitare un processo per associazione a delinquere e divenire la
direttrice di uno dei più importanti parchi archeologici d’Europa. (ex
thereportersblog.com 13 agosto 2019, non più attivo) dal 19 Giugno 2020 trasferito all’indirizzo:
https://www.thereporterscorner.com/2019/08/la-tecnocrazia-e-il-sistema-di-potere.html
La Tecnocrazia e il Sistema di Potere in
Sicilia. Parte V: il festschrift, il “cerchio magico”, e la costruzione del
mito dell’Intellighenzia tecnocratica, in The Reporter’s Corner, 12 agosto
2022.
https://thereporterscorner.com/2022/08/la-tecnocrazia-e-il-sistema-di-potere.html
9) vicenda collezione numismatica dei baroni Pennisi di
Floristella, op. citate in nota 7.
10) L’Archeological
Centre nacque in Olanda con il preciso intento di fornirmi le credenziali
necessarie al fine di svolgere, legalmente, tutte le attività inerenti alla
raccolta diretta di informazioni negli ambienti del collezionismo e del commercio
di antichità d’interesse archeologico. Particolare attenzione era da me
dedicata alle attività che dalla Sicilia si diramavano a livello internazionale
e viceversa, nonché alle vicende nelle quali apparivano personaggi appartenenti
alle Soprintendenze, Musei e Istituti Universitari isolani e loro relazioni con
personalità di spicco della società siciliana.
A distanza di 27 anni dalla fondazione
dell’Archeological Centre, la maggior parte dei risultati non sono stati
divulgati, alcuni anche per il motivo di essere stati da me comunicati alle
Istituzioni statali di competenza giuridica, con le quali necessitava
intrattenere rapporti nel caso di dati d’interesse criminologico nelle nazioni
interessate. Le ricerche e gli studi effettuati sulle riproduzioni di ceramiche
archeologiche prodotte in Italia, furono invece oggetto di due monografie
pionieristiche pubblicate nel 2013 e 2014 (riferimenti bibliografici in nota
11).
11) Secondo
Corrado Cafici, il nome Giuseppe fu scelto dall’avo Vincenzo in onore di due
personaggi dell’Ottocento ai quali era stato legato politicamente: Giuseppe
Mazzini, che aveva frequentato da giovane condividendo gli ideali
Risorgimentali, e Giuseppe Garibaldi con il quale aveva combattuto in Sicilia
contro l'esercito Borbonico.
12) Si trattava di
un manico di padella (pàtera) in bronzo del VI sec. a.C., recipiente che
si presume legato a usi rituali svolti nell’ambito di cerimonie religiose.
Foggiato nella pregevole figura di un kouros, era l’unico reperto
archeologico che Corrado custodiva nel suo caveau casalingo. Portai
il calco a Roma, presso uno specialista indicatomi al Comando, che eseguì una
copia quasi perfetta, rifinita in base ai dettagli fotografati. Al suo interno
fu però inserita, al momento della fusione con la tecnica della cera perduta,
una minuta lastrina in acciaio recante un contrassegno moderno, in modo da
rivelarla ad eventuali esami di laboratorio quali la XRF.
Oltre che a Londra e ad Amsterdam, in seguito
utilizzai con notevole successo questa riproduzione anche per entrare nel giro
dei maggiori collezionisti della Sicilia Centrale e Occidentale, segnalatimi
quali in stretto contatto con personaggi appartenenti alla piramide del potere
dominante siciliano. Iniziai così ad apprendere preziosi particolari di vicende
siciliane con risvolti nazionali e internazionali, e a compilare nominativi,
loro relazioni d’affari e dirette osservazioni nel “mercato clandestino” svolto
nelle provincie siciliane: una mole di dati che illuminò il campo delle mie
conoscenze. Fu un peccato dovere cessare ogni attività quando ormai vicino a
compilare l’organigramma, in quanto tradito dalle rivelazioni che arrivarono in
Sicilia da Roma. Le mie attività furono rivelate nel corso di un processo
tenuto in Sicilia per le attività di un noto mercante internazionale, ritenuto
in rapporti con il vertice mafioso siciliano. Nel corso del processo un
sottufficiale dei carabinieri rivelò l’esistenza di un mio rapporto inviatogli,
concernente tra l’altro sospette attività e rapporti d’amicizia intrattenuti in
quel di Selinunte da Sebastiano Tusa. In gergo militare una simile rivelazione
è definita tecnica del fuoco amico, quella che
vigliaccamente neutralizza la propria avanguardia colpendola alle spalle.
Come da accordi, la copia del kouros fu
distrutta anni dopo, fusa nella stessa fonderia che l’aveva prodotta.
Nel 2006, parte di quel che avevo scoperto nel corso
dell’esperienza di infiltrato in quell’ambiente, mi permise di scrivere e
pubblicare la prima edizione del mio romanzo “L’Indagine Orfica - Le vie
oscure dell’archeologia siciliana”. L’ultima edizione, datata al 2013,
contiene gli aggiornamenti di quella mia lunga ricerca nel settore
delle contraffazioni archeologiche e della loro vendita quali originali nelle
case d’asta internazionali e gallerie antiquarie.
Per le vicende legate alle repliche o imitazioni di
vasetti di rari vasetti di vetro dell’antichità, invito il lettore a consultare
su questo blog l’articolo (in lingua inglese):
Villari P., Illusory
manipulations and auction houses. The mechanism of transformation of modern
imitations into precious antiquities. (ex thereportersblog.com, 8 Marzo 2019),
trasferito in The Reporter’s Corner dal 19 giugno 2020
https://www.thereporterscorner.com/2019/03/illusory-manipulations-and-auction.html
Villari P., Egyptian style core-formed glass
forgeries, white collar crimes and national treasures. How professional
misconduct and misconstruction can compromise the authentication and appraisal
process. (ex thereportersblog.com, 31 luglio
2018), trasferito in The Reporter’s Corner dal 18 giugno 2020
https://www.thereporterscorner.com/2020/06/egyptian-style-core-formed-glass.html
Villari P., 2014, Il vasetto di vetro dell’Antico
Egitto venduto per 90.000 euro fatto in Italia per pochi spiccioli, pubblicato
da Coscienze in Rete (non consultabile dal 2022):
Dal
Per le contraffazioni archeologiche, rimando alle
monografie:
Villari P., 2013, Guida alle recenti riproduzioni
italiane di ceramiche archeologiche, vol.I, pp. 1-224, Archaeological Centre
ed., Roma.
Villari P., 2014, Guida alle recenti riproduzioni
italiane di ceramiche archeologiche, vol.II, pp. 1-378, Archaeological Centre
ed., prima edizione stampata a Amsterdam; seconda edizione, dicembre 2014,
Roma).
13) Ho avuto modo
di conoscere a fondo questo personaggio nel corso di quasi quarant’anni, sin
dagli scavi nella Grotta dell’Uzzo (in provincia di Trapani) nell’estate 1976,
per motivi professionali o nel corso di varie indagini dove spesso saltava
fuori il suo nome. Alla controversa figura dell’archeologo e massone Sebastiano
Tusa, e a quella del padre, il Soprintendente Vincenzo Tusa, massone risultante
negli elenchi della Loggia Propaganda 2 quale affiliato all’occhiello del
Maestro Venerabile Licio Gelli, ho dedicato diversi articoli in
questo blog. Rimando il lettore ad alcuni di questi nel caso volesse
approfondire le modalità di ascesa alla politica di un tipico rampollo della
tecnocrazia siciliana:
Villari P., La Tecnocrazia e il Sistema di Potere
siciliano... Parte III: la Destra neoliberista e i neo-Ronin della
stegocrazia, (ex thereportersblog.com, 5 Giugno
2019), dal 19 Giugno 2020 trasferito in The Reporter’s Corner.
https://www.thereporterscorner.com/2019/06/la-tecnocrazia-e-il-sistema-di-potere.html
Villari P., La
Tecnocrazia e il Sistema di Potere siciliano... Parte II: nel nome del padre,
del figlio e della Stegocrazia. (ex thereportersblog.com, 16 maggio
2019), dal 19 Giugno 2020 su The Reporter’s Corner.
https://www.thereporterscorner.com/2020/06/la-tecnocrazia-e-il-sistema-di-potere_19.html
Villari P., La
Tecnocrazia e il Sistema di Potere siciliano che attraverso la morte delle sue
creature celebra sé stesso e si rigenera. Parte I: nozioni introduttive. (ex thereportersblog.com, 17 aprile
2019), dal 19 Giugno 2020 su The Reporter’s Corner
https://www.thereporterscorner.com/2020/06/la-tecnocrazia-e-il-sistema-di-potere.html
14) La vicenda fu
da me approfondita una decina di anni dopo, in gran parte raccontatami
dall’Avv. Primo Veneroso in qualità di testimone dei fatti e corredata dai
nominativi dei principali attori. La riassumo brevemente qui di seguito, in
quanto penso costituisca un valido esempio per comprendere quali affari in
Sicilia intercorrano a certi livelli del potere, e le squallide modalità con le
quali vengono svolti.
Si trattava di una raccolta di vasi d’età greca,
proveniente da vari siti della Sicilia Centro-Occidentale, quasi tutti
provenienti da Selinunte, e in minore misura da Agrigento, Eraclea Minoa e
Solunto. Le cronache “ufficiali” la riportano quale venduta a una banca
siciliana negli anni 1950 da un ingegnere dell’Agrigentino, quale proveniente
da antiche collezioni di famiglia. In realtà, era un insieme di piccole
raccolte appartenenti a più collezionisti della Sicilia Occidentale, che
l’avevano quasi interamente formata acquistandola a prezzi irrisori da
tombaroli locali, in modo quindi illegale. Il soprintendente Vincenzo Tusa
aveva fornito alla banca acquirente il proprio espertizzo, per il buon esito
del quale i collezionisti gli avevano promesso un premio extra di cinque
milioni di lire (la promessa rappresentava un accordo illegale, in quanto Tusa
in quell’attività rappresentava l’esperto dell’Istituzione bancaria
acquirente).
Tuttavia, la promessa fu tutt’altro che mantenuta:
innanzi a altri collezionisti partecipanti all’operazione, al momento di
riscuotere la somma, l’Ingegnere mostrò al Soprintendente la sua borsa vuota,
pronunciando a voce alta e in modalità de rimprovero la frase “Io non la
pago!”. La vicenda divenne talmente nota che circolò per decenni, riesumata
a ogni convegno o conferenza al quale in soprintendente partecipasse in quella
parte dell’Isola. A detta del Veneroso, i motivi di questo rifiuto scaturivano
da un comportamento giudicato grave, al punto di sottoporre l’alto dirigente
regionale a una plateale e umiliante punizione.
Il gruppo di collezionisti aveva tra l’altro avuto il
potere di rendere disponile la banca a prestarsi a questa operazione criminale,
camuffandola da opera mecenatica, finanziando tra l’altro gli scavi della ricca
necropoli di Selinunte diretti da Vincenzo Tusa. Questi si spinse a impiegare
una massa di tombaroli, facendo passare la sua decisione quale un’opera
umanitaria, quale in parte effettivamente era.
Ma in Sicilia c’è sempre un lato oscuro in
queste operazioni. Tutti i testimoni da me interpellati concordavano sul fatto
che, alla sera, gli operai concludevano il lavoro di scavo per iniziare quello
di apertura di una parte delle tombe, prelevando il contenuto d’interesse
antiquariale. I reperti venivano immediatamente venduti, sotto la supervisione
di mafiosi locali, a collezionisti e mercanti mediante un’asta tenuta innanzi a
ogni tomba. Questa prassi mi fu tra gli altri confermata, con l’aggiunta di particolari,
anche dall’avvocato Primo Veneroso pochi anni prima della sua morte (avvenuta
nel settembre 2014), specificando in qualità di testimone anche alcuni
nominativi dei presenti. Appresi inoltre che, da giovane, il Veneroso era
solito accompagnare l’Ingegnere quando si recava in auto anche in altre aree
della Sicilia, dove acquistava antichità presso simili aste illegali o per
sceglierli tra gli stock di reperti immagazzinati da mediatori, i quali
svolgevano la loro attività grazie alle protezioni dei poteri locali.
15) Dapprima quale
direttore di scavo preposto dall’Istituto Italiano di Archeologia Sperimentale
e in seguito dalla University of South Florida, fui oggetto di un’operazione
diretta a screditarmi e isolarmi (in termini mafiosi definito “mascariato”) non
soltanto professionalmente, ma soprattutto al fine di impedirmi di
testimoniare, rendendomi non credibile, nell’ambito di un processo nei
confronti di una dirigente regionale accusata per associazione a delinquere. Il
risultato fu che dalla fine del 2008 sino al 2010 (tempi burocratici) venni
attenzionato da indagini preliminari svolte dalla magistratura, a causa di un
verbale redatto con accuse pesantemente infamanti sul mio operato, che si
palesarono sin dall’inizio totalmente infondate e quindi subito rigettate dal
giudice delle indagini preliminari. Tuttavia, il risultato delle lungaggini
ottenuto dai miei detrattori era stato raggiunto.
Cito l’episodio per indicare come questa metodologia
viene disinvoltamente usata dal vertice del vero potere dominante in Sicilia,
per eliminare (character assassination) chi cerca di contrastarne le
attività affaristiche. La finalità primaria è quella d’infangare l’immagine
pubblica e privata della vittima, in quanto è molto difficile scrollarsi di
dosso narrazioni tossiche, rimanendo queste sempre almeno in parte
incollate al destinatario. Il trattamento serve anche da monito, rivolto a
quanti volessero emulare le contestazioni nei confronti del comportamento di
personale dirigente delle Istituzioni dello Stato, qualsiasi siano la
dimensione e le conseguenze per i crimini da questi eventualmente commessi.
Per le tecniche di “mascariamento”, rimando al mio
articolo:
Villari P., 12 settembre 2018, Sicilia. Riflessioni sui recenti decessi di due dei migliori investigatori della polizia, in particolare leggasi il Cap. La stagione dei veleni del Parco dei Nebrodi, in The Reporter’s Blog (non più attivo), dal 18 giugno 2020 trasferito in The Reporter’s Corner, all’indirizzo:
https://www.thereporterscorner.com/2018/06/Sicilia-riflessioni-sui-recenti-decessi.html