Autore: Pietro Villari, 2014 e 2018. Tutti i diritti riservati.
Pubblicato on-line il 7 Febbraio 2014, e con
alcuni aggiornamenti in http://www.thereportersblog.com il 2 Novembre 2018. Trasferito il
18 Giugno 2020 in https://www.thereporterscorner.com.
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L’archeologia possiede l’aspirazione, non priva di una
certa presunzione di fondo, di proporsi quale “scienza” dell’antichità. In
realtà, si tratta di un campo di ricerca molto ampio che in condizioni ideali
dovrebbe coinvolgere una lunga serie di discipline, le quali possono essere tra
loro non affini e appartenenti alle scienze storiche, sociali, economiche, naturali,
fisiche, politiche e, non ultime, filosofiche. Ed è attraverso lo scavo
archeologico e lo studio delle informazioni da esso ottenute, che l’archeologia
si identifica quale unica via d’indagine per acquisire dati atti alla
conoscenza del passato dell’uomo.
Ciò assodato, appare inoltre evidente come l’attività
archeologica sia un insieme di risultati ottenuti mediante metodologie basate
sulla tecnica di ricerca, lo studio e l’esperienza. In uno scavo archeologico
ideale, dovrebbe essere compito di diverse squadre di professionisti sottoposte
a un’unica direzione quello di studiare il sito tridimensionalmente,
analizzandone ogni suo contenuto, sia esso originato dall’attività umana o da
cause “naturali”. L’importanza della messa in luce di strutture architettoniche,
di manufatti, di resti di origine animale o vegetale, per dirla in breve dei
reperti cari all’antico interesse collezionistico-museale o storico-artistico,
dovrebbe essere secondaria e finalizzata allo sviluppo della piena conoscenza
dell’antichità nella sua più ampia accezione.
Tuttavia, è noto a tutti i professionisti del settore che
attualmente l’organizzazione e lo svolgimento dello scavo archeologico, sono
ben lontani dal comportare un grado di distruzione stratigrafica “accettabili”
in relazione alla quantità d’informazioni e reperti messi in luce. Nella quasi
totalità dei casi si ha l’assenza parziale o completa d’importanti settori di
ricerca, essendo le attività focalizzate al recupero di strutture e di
manufatti. E’ questo un fatto della massima gravità, poiché si tratta di
un’attività ormai sistematicamente effettuata da dirigenti di istituzioni
pubbliche, i quali spesso deliberatamente aboliscono la corretta raccolta di
una importante parte dei reperti e informazioni di grande valore scientifico.
Questa grave disfunzione si verifica principalmente per
due motivi: la non appartenenza di questi dati (soprattutto quelli
bioarcheologici) al contesto dei personali interessi scientifici di quanti
preposti alla direzione e allo studio dei giacimenti archeologici, che
generalmente ha come base l’analisi dei manufatti; e la volontà di eliminare
una grande parte delle spese di scavo e di studio non attinenti a quei
personali interessi di studio.
Tali scellerate motivazioni producono l’abbandono di un
corretto approccio scientifico e la distruzione di imponenti quantità di dati
di importanza fondamentale per la conoscenza del sito. Viene così prodotto
anche un danno alla collettività che finanzia queste ricerche, effettuata dai
responsabili dello scavo, ai quali viene permesso di limitare drasticamente gli
specialisti presenti sullo scavo e quindi i settori di studio, per usufruire a
proprio vantaggio della totalità dei fondi pubblici stanziati per le
investigazioni. Inoltre, questa scelta di tagliare fuori una gran parte di
importanti campi di ricerca evita di condurre alla perdita del controllo
tecnico e scientifico della direzione degli scavi, che ancora oggi continua a
essere effettuata dalle sezioni archeologiche delle soprintendenze e dai
Dipartimenti di Scienze dell’Antichità, questi ultimi sempre costituite da
archeologi formati esclusivamente nelle Facoltà di Lettere e Filosofia e mai
nelle Facoltà di Scienze.
Di conseguenza, il problema riguarda anche il potere
acquisito nel corso dell’ultimo secolo, da parte di una categoria di
“archeologi” provenienti dagli studi classici, un potere che andrebbe
ridimensionato, redistribuito, e quindi allargato all’intero comparto di
specialisti in discipline archeologiche che sino a oggi sono state emarginate,
escluse dagli studi o ridotte in condizione di precariato ancillare.
Una buona metà degli studi archeologici, ovvero quella
mancante in Sicilia e in buona parte dell’intero territorio italiano,
appartiene al campo di ricerca delle Facoltà di Scienze: una situazione che ha
dell’incredibile considerato lo stato di totale mancanza di interventi da parte
delle Autorità preposte alla salvaguardia dei Beni Culturali della Regione
Sicilia e delle istituzioni statali preposte alla repressione del crimine, in
questo caso rapresentato dalla prassi ormai consolidata di condurre la pressochè
totale distruzione di reperti bioarcheologici o dalla mancanza di campionamento
di paleosuoli contenenti informazioni fondamentali per lo studio dei siti.
Il settore di ricerca che più di tutti è stato
penalizzato dal verificarsi dell’attuale condizione è quello delle Scienze
Naturali, e in particolare le discipline bioarcheologiche quali
l’archeozoologia e la paleobotanica. Esse sono d’importanza fondamentale per la
conoscenza delle attività di sussistenza delle popolazioni umane quali caccia,
allevamento e agricoltura, per la conoscenza dei paleoambienti, dell’evoluzione
del paesaggio, di pratiche religiose, di scambi commerciali a corto e lungo
raggio. Vi sono ancora ampie aree dell’Italia Meridionale e non solo, ove le
moderne tecniche di scavo bioarcheologico non sono mai state applicate, e
laddove si pratica un campionamento, questo è tecnicamente inadeguato, condotto
da operatori privi di esperienza e di specifiche conoscenze professionali,
compromettendo l’intero risultato degli studi.
Occorre quindi un forte intervento nel settore a livello
di repressione da parte degli organi giudiziari, in quanto si tratta ormai di
un’attività illegale organizzata e perpetuata mediante precise pianificazioni,
che conducono alla puntuale distruzione d’ingenti quantitativi di beni
archeologici. Non meno salutare sarebbe un piano di riorganizzazione a livello
nazionale del Ministero per i Beni e le attività Culturali e in particolare
della struttura tecnico-scientifica delle soprintendenze per i beni
archeologici (suoi organi periferici), e sugli organismi preposti alla
valutazione del rilascio dei permessi di scavo archeologico.
Ma questi interventi risulterebbero inutili se
l’archeologia non si dotasse di una sua dottrina d’ispirazione modernista e
antropologica nel senso più ampio, ovvero di una riorganizzazione sistematica
dei suoi principi teorici fondamentali. Necessita in primo luogo una moderna
revisione in chiave filosofica delle finalità della ricerca archeologica,
attraverso la logica della ricerca di regole e principi di metodo. Sulla base
di questa ineluttabilità riformista, appare evidente che pressoché la totalità
degli atenei italiani ove sono state allestite scuole di specializzazione in
scienze archeologiche, soprattutto quelle peninsulari e della Sicilia,
correggano non solo le loro profonde e inaccettabili carenze strutturali, ma
anche la loro visione d’insieme dell’archeologia, ancorata a un’appartenenza
arrogata con esclusività dalle Facoltà di Lettere e Filosofia, oggi
inaccettabile.
Il pericolo della diffusione dell'emergenza siciliana
all'intera rete nazionale dei beni archeologici
Circa un anno addietro alcune personaggi della politica
siciliana si pronunciarono a favore dell’ipotesi che il Parlamento regionale
isolano, costretto dalla crescita dei debiti, potrebbe essere spinto ad
inoltrare al governo nazionale la richiesta di restituire al controllo statale,
ovvero al Ministero per i Beni e le attività Culturali, le Soprintendenze
regionalizzate alla fine degli anni Settanta.
La proposta potrebbe giungere gradita in sede europea,
nell’ambito di un’operazione volta ad una progressiva perdita o forte
ridimensionamento della pessima gestione dell’Autonomia isolana e quindi
accettata dal Governo italiano. Se condotta con le modalità ipotizzate dai
politici siciliani, l’operazione che vedrebbe al centro le soprintendenze
isolane e soprattutto la loro abnorme massa di impiegati, sarebbe un ennesimo
attacco al bene nazionale e quindi europeo.
In prima analisi, l’attuale crisi economica, ovvero delle
risorse di sussistenza internazionale, è solo agli inizi e potrebbe portare
probabilmente entro il corso degli anni Venti ad una frantumazione degli Stati
in realtà regionali confederate a livello europeo. Se proprio nell’immediato
futuro si vorrà effettuare la statalizzazione delle soprintendenze, sarà bene
che il passaggio avvenga ponendo dei limiti alle furbizie e delle condizioni a
garanzia di prevenire i guasti che a breve termine questa operazione
comporterebbe al funzionamento delle soprintendenze nazionali.
Le Soprintendenze, un tempo denominate alle Antichità,
costituivano una importante parte di quegli apparati burocratici di controllo
del territorio che furono stravolti da un forte rinnovamento alla fine degli
anni Settanta. L’operazione era stata promossa a livello nazionale dal ministro
Giovanni Spadolini, al fine di una ristrutturazione nell’ambito della
imposizione di un crescente controllo del potere politico su quello
burocratico. In Sicilia il fenomeno ebbe uno sviluppo tanto anomalo quanto
scellerato, le soprintendenze passarono da tre a nove (!) e “metasomatizzate” a
tal punto da apparire oggi nelle peggiori condizioni proponibili: un tipico
terziario elefantiaco costituito quasi unicamente da isolani, con funzionari e
dirigenti in soprannumero suddivisi in molteplici sezioni.
Poco prima dell’ultima tornata elettorale del 2013 vi
furono ammassati ulteriori funzionari provenienti dalla stabilizzazione di
alcune centinaia di precari. A parte lo schiaffo alla metodologia
meritocratica, si tratta di un impegno finanziario rilevante: un personale in
gran parte scelto con metodi clientelari e interamente non selezionato per
mezzo di un concorso pubblico.
E come se non bastasse, c’è purtroppo dell’altro da
prendere in considerazione. L’operazione potrebbe essere stata posticipata per
permettere l’assunzione, poco prima delle elezioni del 2014, di un ulteriore
consistente quantitativo dell’immenso serbatoio clientelare di “precari”. Solo
una parte di questo, ovvero poco meno di diecimila nuovi dipendenti regionali.
Imposto dalla crisi economica, già nel 2015 un piano di
riduzione dei dirigenti e in generale di tutto il personale regionale siciliano
operante nel settore dei beni archeologici (ma lo stesso dicasi per altri
istituti periferici regionali), potrebbe aprire la strada, nel caso di un
passaggio al comparto statale, al trasferimento di parte di questa massa non
solo presso musei e soprintendenze di altre regioni italiane ma anche presso
organismi di ministeri diversi da quelli per i Beni Culturali e per l’Ambiente.
Si tratta di funzionari ancora giovani, taluni già pervenuti al grado di
dirigente, specializzati presso scuole scientificamente carenti, che
penalizzerebbero quanto meno l’intero settore della ricerca archeologica
nazionale, intralciandone gravemente per decenni un eventuale processo di
modernizzazione e rinnovamento generazionale. Si pensi ad esempio agli
archeologi specializzati presso la Scuola di perfezionamento istituita presso
l’Università di Messina ove ancor oggi (Gennaio 2014) mancano, tra le altre,
tutte le materie del settore degli studi bioarcheologici!…
Inoltre, nel caso dell’esistenza
di contiguità di una parte di questa massa con il sistema politico-clientelare,
ciò potrebbe favorire un ulteriore consolidamento o un espandersi del potere
criminale isolano in altre aree nazionali. In alcuni casi potrebbe trattarsi di
anziani dirigenti prossimi alla pensione, ormai impresentabili in quanto
compromessi da guai giudiziari o persino pluripregiudicati, il cui
licenziamento e perdita della indennità di buonuscita (sino a circa mezzo
milione di euro) e lauta pensione potrebbe innescare un terremoto giudiziario.
Difatti, essi sono stati per decenni organici di alto livello al “sistema” e
quindi in possesso di una mole di testimonianze dirette sulla perpetuazione di
decenni di gravi attività criminali a quello legate.
Gli organi dello Stato
istituzionalmente preposti dovrebbero quindi intervenire sin da ora, quanto
meno al fine di regolamentare, anche in termini quantitativi e qualitativi i
passaggi del personale regionale. D’altronde, provocando un danno disastroso non
soltanto all’economia regionale, al patrimonio culturale e ambientale della
regione siciliana, ma agli stessi valori ai quali si ispira lo Statuto
repubblicano, simili operazioni, le loro modalità e tempi di realizzazione,
propongono anch’esse importanti riflessioni di natura criminologica.