Fantasmi di processi mai nati. 1) “Saldi archeologici. Il guerriero di bronzo”

di Pietro Villari

27 Settembre 2020, ore 7:54


Accompagnato da nuove informazioni e considerazioni, ripubblico questo mio articolo scritto nel 1989 e rifiutato dai Media sino all’ottobre 1998, quando fu accolto dalla rivista “Grifone” (1). Si tratta di due vicende “convergenti” tipicamente siciliane, illuminanti testimonianze per comprendere come il malaffare gestito dai “colletti bianchi” abbia nell’Isola radici antiche, che nessun governo ha mai voluto estirpare.

Due esempi, quindi, tra i tanti ignorati da coloro che, per competenza Istituzionale, avrebbero dovuto quanto meno investigare. E invece nulla, ieri come oggi generazioni di servitori risoluti a mantenere l’avido sguardo sugli avanzi che i padroni usano gettare nella loro scodella. E quel sinistro silenzio, che conta più di mille parole, attuato dalla Stampa di regime e della cosiddetta Opposizione, in certi casi con modalità che considerata la pubblica visibilità delle azioni criminose e delle somme di denaro pubblico elargite, rivelano la tragica fondatezza della convinzione, propria di tutti i personaggi coinvolti, di godere di una sorta d’impunità garantita dal sistema dominante ai suoi fedeli. Eppure, non di rado si tratta di situazioni che straripano in parossismi surreali.

Nei corso dei decenni successivi alla pubblicazione dell’articolo, acquisii ulteriori informazioni anche da alcuni dirigenti regionali che, come lumache uscite in giardino dopo una tempesta, si lasciavano andare a qualche commento ben sapendo che i personaggi-chiave delle due vicende erano ormai “usciti di scena”, deceduti in tutta tranquillità dopo aver goduto il frutto del loro operato. In Sicilia, “quannu mori ‘u cani, mori ‘a raggia (quando muore il cane, muore la malattia della rabbia silvestre).

Fu soltanto allora che appresi di avere rischiato molto, procedendo in modo incauto nella ricerca dei  meccanismi e dei nominativi dei personaggi implicati nei due “affari” qui presentati (2).  Ero arrivato vicino ad entrare in possesso di alcune fotocopie di ricevute bancarie che, mi fu detto, avrebbero condotto agli acquisti di due immobili (“due ville”) nell’Isola di Pantelleria, effettuati alla fine degli anni 1980, e al nominativo di un funzionario per anni nel gruppo di potere al vertice dell’Amministrazione Regionale siciliana (3).  

Nel caso della statua in bronzo, bisognava vagliare la possibilità che l’acquisto fosse un escamotage ideato per il pagamento di una grossa tangente a un alto dirigente regionale, mentre l’acquisto della collezione Pennisi rivelava uno sperpero di denaro pubblico a beneficio di parenti, che coinvolgeva direttamente il governatore siciliano di quel tempo. Nell’operazione comparivano i nominativi di alcuni noti accademici e del soprintendente ai BB.CC.AAdi Siracusa, Giuseppe Voza. Questi si distinse in quegli anni (1986-1988) anche per il ruolo avuto nella distruzione, rimasta impunita, di parte dell’importante giacimento paleontologico e della necropoli monumentale di età greca e romana di Contrada Fusco, vicenda oggetto anche di un illuminante articolo di Fabrizio Carbone pubblicato nel 1989 dal settimanale “Panorama” (4).

In “Saldi archeologici: il guerriero di bronzo” puntavo a indicare non soltanto l’esistenza di prove concrete relative a sperperi d’ingenti somme di denaro da parte del governo regionale, quanto piuttosto il sospetto che vi fosse una curiosa sorta di impunità, costantemente riservata a politici e funzionari quando trattarsi di misfatti pertinenti ai beni archeologici siciliani.

Pur essendovi implicati accademici e burocrati isolani di massimo rilievo, oggi queste due vicende non rappresentano nemmeno dei “cold cases”, in quanto non furono degnate dell’apertura di un’inchiesta non dico dalla magistratura, ma nemmeno da una soltanto delle grandi testate giornalistiche di quel tempo alle quali mi rivolsi. Bisogna anche ricordare che, negli anni 1990, due coraggiosi Sostituti Procuratori della Repubblica, rispettivamente Angela Pietroiusti del Tribunale di Siracusa e Lorenzo Matassa del Tribunale di Palermo, dopo essersi occupati con successo di due diverse vicende aventi per oggetto l’operato della Soprintendenza diretta dal Voza, furono trasferiti a Firenze per incompatibilità ambientale. Solo il giudice Matassa rientrò molti anni dopo in Sicilia, quando il Voza era ormai stato collocato in pensione. La Pietroiusti rimase a Firenze, sussistendo in Siracusa il pericolo per la sua incolumità, in particolare per evitare la possibilità che la mafia organizzasse un secondo attentato (il primo era stato disinnescato per tempo da un componente della sua scorta: un ordigno in Tribunale, collocato sotto la sua poltrona sarebbe esploso a contatto(5) .  

In quegli anni di stragi dette di mafia, ma in realtà connesse all’insorgenza di un periodo di lotte di potere all’interno del Deep State regionale che riflettevano assestamenti nella rete soprannazionale, mi trovai purtroppo l’unico tra gli studiosi siciliani nel settore dei beni archeologici a tentare di approfondire le conoscenze e pubblicare gli scempi, le corruzioni di ogni sorta, cercando di mettere in luce le squallide dinamiche che coinvolgevano tecnocrati siciliani del settore dei beni culturali, le forme di connivenza che conducevano anche al totale silenzio del mondo accademico e dei Media. Ciò venne giudicato dai colleghi quale un comportamento non etico in quanto anti-corporativo, tradendo una sorta di consegna del silenzio che a me appariva e appare a tutt’oggi quale omertà di stampo mafioso.

In ambito regionale l’articolo “Saldi archeologici” venne rifiutato, per motivi che a quel tempo mi sfuggivano non conoscendone la loro tragica contestualità. Il punto più profondo della mia delusione lo raggiunsi quando il rifiuto arrivò agli inizi del 1990 persino da un quotidiano palermitano a quel tempo considerato implacabile oppositore del malaffare in Sicilia, L’Ora, pur avendo l’anno precedente questa pubblicato un mio articolo sulla disastrosa vicenda di contrada Fusco. Il diniego forse nacque dal fatto che nel caso di quell’immenso scempio, l’articolo aveva accentuato divisioni e scontri all’interno dei vertici regionali e nazionali del Partito Comunista Italiano e una serie di interpellanze sulle distruzioni degli importanti reperti e del sito presentate da autorevoli uomini politici sia al Parlamento regionale che a quello nazionale (6). Il P.C.I. si dissolse poco tempo dopo, nel febbraio del 1991, e gran parte dei suoi membri afferirono a una nuova forza politica di stampo socialdemocratico filo-occidentale, che era notevolmente cresciuta negli anni seguenti all’improvvisa morte del segretario Enrico Berlinguer avvenuta nel 1984.

Rifiutato anche da molti quotidiani e settimanali nazionali ai quali lo avevo proposto, riuscii a pubblicarlo con dieci anni di ritardo il 31 ottobre 1998 in “Grifone” (7), la rivista bimestrale edita dall’Ente Fauna Siciliana (affiliato alla Federazione Nazionale Pro Natura) del quale anni dopo diressi la sezione di Messina. In quegli anni, la rivista pubblicò una serie di miei circostanziati articoli da altre redazioni ritenuti non pubblicabili.

Il direttore responsabile della rivista era Bruno Ragonese, noto naturalista e ambientalista con il quale avevo stretto amicizia nel 1988, quando assieme ad altri studiosi venne a trovarmi nel corso dei lunghi mesi di scavi operati sotto la mia direzione scientifica nella Grotta Spinagallo presso Siracusa. Condividevamo la stessa impietosa visione della situazione siciliana e le identiche speranze infrante degli ideali politici della giovinezza. Bruno era un uomo d’azione, di grandi capacità organizzative e dal coraggio temerario, e fu sino alla fine uno di quei rari oppositori, autentici e irriducibili del sistema dominante in Sicilia, anch’egli come me e pochi altri non esentandosi dal pagarne costantemente e infine in modo grave le conseguenze (8).

 

L’articolo pubblicato

La cosiddetta legge sulla trasparenza, quella che apre i pubblici archivi al cittadino comune, è una pietra miliare nel lento processo di trasformazione in corso nel nostro Paese. È sulla base di questa legge che possiamo oggi effettuare ricerche, ad esempio, su decreti assessoriali emanati in Sicilia nel corso degli anni ottanta, a quei tempi pubblicati con scarsissime informazioni sulla Gazzetta Ufficiale regionale.

Oggi le Gazzette Ufficiali rappresentano una vera miniera di dati per chi vuole conoscere come la Regione Siciliana ha elargito il denaro dello Stato ai fini della pubblica utilità.

Premettiamo di essere interessati esclusivamente a vicende inerenti alla tutela ed alla valorizzazione di beni archeologici, operate dal competente Assessorato Regionale ai Beni Culturali e per la Pubblica istruzione: da circa un decennio stiamo lentamente ricostruendo la trama di personaggi e fatti che hanno caratterizzato gli ultimi cinquant’anni dell’archeologia siciliana.

Una ulteriore premessa. La legge regionale n.80 del 1977 stabiliva la procedura secondo la quale i decreti assessoriali in materia di BB.CC.AA. dovevano essere presentati alla Corte dei Conti per la registrazione, ovvero essere sottoposti al giudizio di merito e di legittimità. Sorprendentemente, nel 1986 una legge regionale ha stabilito che tali decreti possono essere direttamente registrati presso la Ragioneria Centrale del competente Assessorato, la quale entro un certo periodo di tempo ha obbligo di trasmetterli a consuntivo alla Corte dei Conti.

Esaminiamo il supplemento della Gazzetta Ufficiale della Regione Siciliana del 10.09.1988 n. 39. Scorrendo il lungo elenco di somme elargite e qui sommariamente rendicontate dall’Assessorato Regionale ai BB.CC.AA. e P.I., le cifre a nove zeri evidenziano la presenza di due importanti voci relative all’acquisto di reperti di interesse numismatico ed archeologico, entrambe oggetto del D.A. 4636 del 31.12.1986.

La prima è pertinente alla somma di lire 4.145.000.000 pagata dalla Regione per l’acquisto dei relitti della collezione numismatica Pennisi di Floristella (1.600 pezzi degli originali 30.000). La cifra è certamente notevole e forse determinata dal fatto che nella valutazione è stato considerato anche un presunto valore storico rappresentato dall’insieme.

Da un punto di vista storico-collezionistico, difatti, il valore aggiunto può essere motivato solo dalle indicazioni circa la storia di ogni singolo pezzo, contenente cioè anche notizie quali le modalità di ritrovamento e la provenienza, che solo il collezionista può fornire. In breve, morto questi, l’insieme perde dell’interesse storico se non supportato da una solida documentazione. Mancando questa, non vi è alcuna differenza con gli insiemi periodicamente in vendita presso una qualsiasi Casa d’Aste specializzata in numismatica.

Il problema è stato autorevolmente affrontato ne “Il Giornale dell’Arte” che ha recentemente dedicato una approfondita analisi (ottobre 1998, n. 170).

In definitiva, a nostro avviso il gruppo di monete acquistate dalla Regione Siciliana non rappresentano una collezione nel pieno senso qualitativo e storico del termine. Di conseguenza, il decreto assessoriale soffre di una generale sopravvalutazione qualitativa che presumiamo avrà influito sulla stima del valore.

A parte quel che è già stato scritto della vicenda, quel che più ci stupisce è che nessuno ha dato spiegazione del motivo per il quale i funzionari della competente Soprintendenza o dell’Autorità Giudiziaria all’uopo preposti, si siano mai attivati per conoscere dove fossero finite le splendide monete della Collezione Pennisi pubblicate dal Rizzo negli anni Quaranta.

Pregevoli monete dichiarate appartenute a tale collezione sono notoriamente da anni battute da diverse Case d’Aste straniere.

Continuando a scorrere l’elenco della Gazzetta Ufficiale del 10.09.1988, segue la voce relativa all’acquisto di una statua di guerriero in bronzo di età greco-arcaica, di proprietà di tale avv. Domenico La Malfa (nominativo ignoto ai collezionisti siciliani). Deve trattarsi di un reperto di rilevante valore storico-artistico se dieci anni orsono la Regione Siciliana ritenne opportuno sborsare la somma di lire 2.500.000.000 per acquisirla al patrimonio pubblico. Consideriamo, con le dovute distinzioni pertinenti al fatto di trovarci innanzi a una statua di età arcaica, che la grande statua di età ellenistica raffigurante un satiro danzante, recentemente rinvenuta nel Canale di Sicilia, è stata valutata lire 1.300.000.000.

Desidereremmo tanto vedere questa preziosa statua e chiediamo all’Assessorato Regionale ai BB.CC.AA. di poterci gentilmente indicare in quale museo sia esposta o custodita. Se possibile, desidereremmo anche conoscere chi effettuò la perizia e la relazione tecnica in base alla quale è stato disposto l’acquisto.

 

Settembre 2020: rinvenendo l’articolo in una vecchia carpetta

Scoprii la vicenda del “guerriero di bronzo” per fortunata coincidenza nel settembre del 1988, scorrendo la Gazzetta Ufficiale della Regione Siciliana, dove nel lungo elenco delle somme spese dall’Assessorato Regionale per i BB.CC.AA. saltava all’occhio la sequenza di due imponenti somme a nove zeri che il decreto assessoriale disponeva per l’acquisto sia dei resti della collezione numismatica del Barone Pennisi di Floristella e, contemporaneamente, della statua arcaica in bronzo raffigurante un guerriero. Come sopra accennato, tra il 1989 e il 1997 non ero riuscito a convincere alcun direttore di una qualsiasi testata giornalistica a pubblicare quel poco che avevo appreso della vicenda.

Tornai alla carica nei primi mesi del 1998, quando ebbi la fortuna di studiare il voluminoso contenuto di un faldone, che alla redazione di “Grifone” si presumeva proveniente dall’archivio di un anziano personaggio siciliano di potere della Prima Repubblica. Un pezzo da novanta, come si dice nell’Isola, evidentemente dedito da lungo tempo a quel cosiddetto collezionismo di dossier che da alcuni secoli permette a generazioni di tipi del genere, associazioni e apparati dello Stato di formare archivi segreti non soltanto in grado di proteggerli, ma soprattutto di ricattare o, in casi estremi, di azzerare lo status sociale dei loro nemici.

Il faldone era stato inviato a Bruno Ragonese, evidentemente conoscendo che questi non l’avrebbe tenuto in un cassetto per proprio tornaconto e che sarebbe partito a testa bassa, come un toro alla vista di un drappo color sangue. Dopo averlo visionato e constatato che trattava di beni archeologici siciliani, Bruno mi invitò a dargli un’occhiata in tutta segretezza e a garantirgli che avrei tirato fuori quanto ritenessi di pubblica utilità.

Si trattava di una ingente mole di documenti di varia provenienza che, a quel tempo, coprivano quarant’anni di storia siciliana, dando una chiara idea dei rapporti di diffidenza tra le varie istituzioni statali in Sicilia, e il modus operandi di tutto riguardo che queste istituzioni riservavano alle famiglie legate al sistema di potere dominante o da questo “rispettate”.

D’accordo con il Ragonese dapprima tentai di pubblicare la prima parte su varie testate giornalistiche  badando di mostrare solo un riassunto in cinque righe, ma come avevamo già previsto ricevemmo solo rifiuti, in un caso persino il tentativo di acquisto della documentazione originale.  Alla fine decidemmo che la vicenda della collezione Pennisi di Floristella conteneva una tale mole di informazioni su quanto avvenuto ai beni culturali siciliani che doveva essere tramandata ai posteri. Ci accordammo quindi di dividerla in due lunghi articoli, pubblicati da “Grifone” dopo essere stati visionati da due avvocati di fiducia del Ragonese (9).

Gli articoli ebbero un’inaspettata diffusione negli ambienti del potere, soprattutto trasmessi via fax o in fotocopie passate brevi mano. Assieme a “Saldi archeologici: il guerriero di bronzo” e altri che sfornai in quegli anni, questi scritti riuscirono a ottenere l’effetto (oggi impensabile) di un sasso gettato nelle putride acque di uno stagno, immobili da tempo immemorabile, in quanto colpivano (in Sicilia!) i vertici della burocrazia, dipartimenti universitari, soprintendenze ai beni culturali e ambientali, e ancora uffici giudiziari, caserme, logge massoniche, persino autorità ecclesiastiche. I meno accorti ritenevano che avessi preso visione di un archivio di chissà quali altri segreti inconfessabili correlati di liste di nominativi da mettere alla gogna.

La cosa ebbe anche un risvolto divertente quando la redazione di un quotidiano siciliano giunse a inviarmi a domicilio una procace giovane praticante giornalista che, in mille modi, tentò di farmi sussurrare i presunti segreti presenti nel dossier. Gradii molto i generosi ma inutili sforzi della giovane, che mi tornarono in mente anni dopo quando lessi su una rivista del suo matrimonio con il figlio di un uomo di potere siciliano.

Innanzi a quei pochi personaggi che considera ostili, il sistema ancor oggi reagisce dapprima con la massima circospezione, chiudendo tutte le possibilità di collaborazione professionale con Istituzioni pubbliche scrivendo il nome sul libretto nero regionale dei proscritti e avvisando i media controllati dal regime. Contemporaneamente viene avviata una stretta attività di monitoraggio e di dossieraggio che coinvolge l’intera vita professionale e privata, attuale e trascorsa dell’attenzionato. Se si constatata l’assenza di valide “coperture”, viene deliberato se lasciare carta bianca agli specialisti dell’omicidio o a quelli del discredito finalizzato alla morte sociale. È interessante notare il ruolo delle logge massoniche e altri club-service controllati dal potere dominante, essendo questi in grado di raccogliere in breve tempo informazioni richiedendole ai personaggi appartenenti a tutte le Entità che vi sono rappresentate. In breve, i dati sono inviati al profiler e agli operativi incaricati delle varie attività di neutralizzazione dell’attenzionato.

 

“Grifone”, dicembre 1998: quando giunse la minaccia di guai giudiziari

Era ovvio a tutti, conoscenti e amici, che prima o poi mi sarebbe accaduto qualcosa di ulteriormente spiacevole, un peggioramento di quanto in Italia mi aveva con inesorabile e veloce gradualità isolato professionalmente sin dal 1989, affinché non fossi più in condizioni di provocare altri problemi al sistema. Si verificarono quindi una serie di fatti interessanti per comprendere alcune sue modalità operative per intimidire e neutralizzare.

A circa un mese e mezzo dalla pubblicazione dell’articolo “Saldi archeologici: il guerriero di bronzo” e a tre mesi e mezzo dalla pubblicazione della prima parte della vicenda dell’acquisto della Regione Siciliana dei miseri resti della collezione numismatica Pennisi di Floristella (il  5,33%, dell’originaria collezione, in pratica le monete rifiutate dal mercato internazionale di alto livello nel corso della seconda metà del Novecento…), e dopo due decenni di inconcludenti attività svolte dalla Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Siracusa (già Soprintendenza ai Beni Archeologici per la Sicilia Orientale) nei confronti dei Pennisi, a metà dicembre 1998 Giuseppe Voza in qualità di soprintendente inviò una missiva alla Redazione di “Grifone”.

Bruno Ragonese, direttore responsabile della rivista, non era tipo da farsi intimidire e rispose pubblicamente con grande fermezza come ancora era possibile a quel tempo, prima della serie di leggi-bavaglio a giornalisti e editori, con un articolo pubblicato sul suo “Grifone” in data 31 dicembre 1998 (10). Ne riporto qui alcuni stralci per ricordare come ancora fosse possibile esprimere senso civico in quegli anni e come difendemmo la libertà d’espressione:

Il Soprintendente Giuseppe Voza vuole sapere come, da chi e perché abbiamo avuto la documentazione che ci ha consentito di pubblicare La vera storia della collezione numismatica dei baroni Pennisi… collezione recentemente venuta alla ribalta della cronaca per fatti legati a traffici internazionali, alienazioni ed illegali vendite all’asta di importanti monete della Sicilia.

Per fornirgli quanto richiesto, il Soprintendente Voza ci dà dieci giorni di tempo (a partire dal 17/12/1998), scaduti i quali procederà a termini di legge.

L’ultimatum del Soprintendente Voza, il quale sa bene che non siamo tenuti a rivelare la fonte delle nostre informazioni, proprio perché la legge salvaguarda la ricerca giornalistica, non ci turba, né ci impressiona, né – soprattutto – ci fa desistere dal pubblicare, come abbiamo preannunciato, la seconda parte della storia, che riguarda il periodo in cui la collezione Pennisi fu acquistata dalla Regione Siciliana, cioè quando era già Soprintendente di Siracusa il dott. Giuseppe Voza.

Tutti sanno, fin dai tempi delle appassionanti lotte per Vendicari, che non è facile impressionarci, che già altre volte abbiamo avuto rogne con la giustizia per avere pubblicato la verità, ma siamo sopravvissuti, siamo ancora in prima linea a combattere contro coloro che, preposti alla tutela del patrimonio culturale della Sicilia, lo hanno svenduto, disperso, contrabbandato, rubato al suo popolo”.

Anche se con un anno e mezzo di ritardo, “Grifone” riuscì a pubblicare la seconda parte della vicenda della collezione Pennisi, quella più densa di fatti d’interesse criminologico. Desidero evidenziare che nonostante la gravità delle notizie fornite dalla documentazione e i nominativi di personaggi di potere rivelati dall’articolo, la redazione lo accettò così come era avvenuto con il primo, entusiasta, pubblicandolo senza disporre o suggerirmi alcuna modifica.

 

Fare “terra bruciata”, simbolo di morte sociale

Dopo qualche tempo dalla pubblicazione, la proprietà terriera di Bruno Ragonese, contenente tra l’altro il centro di cura per uccelli selvatici feriti dai bracconieri, fu in parte devastata da un incendio doloso. L’abitazione di Bruno, che vi viveva con la moglie, e la grande biblioteca naturalistica in essa contenuta lungo le pareti di quasi tutte le stanze si salvarono per l’intervento di parenti e amici che crearono un ampio spazio tagliafuoco.

Un nostro tesserato mi telefonò la notizia e dall’Olanda raggiunsi la Sicilia in auto, come a quel tempo mi avventuravo spesso per motivi professionali durante l’anno, preferendola all’aereo. Circa una settimana dopo mi recai quindi a fargli visita per manifestargli la mia vicinanza. 

Mentre stavamo discutendo dei danni alla proprietà e di come affrontare la situazione, fummo raggiunti da un personaggio che ben conoscevo sin dal 1976, trattandosi di un anziano dirigente della Soprintendenza siracusana. Nella seconda metà degli anni 1980 mi aveva proposto di entrare a fare parte di una loggia massonica siracusana, offerta che avevo declinato con le stesse modalità che in seguito adoperai nei confronti di una loggia milanese, in seguito all’invito di un parente acquisito. Con Bruno si erano frequentati sin da ragazzi, rapporti poi raffreddati da diverse scelte di vita. Era accompagnato da un giovane che mi fu presentato quale uno dei nuovi tecnici assunti dalla Soprintendenza, un tipo vestito di nero e il corpo deformato da depositi adiposi.

Mi colpì il fatto che l’anziano provò dapprima in diversi modi di sondare una mia reazione ai suoi segnali di identificazione massonica, forse per eliminare l’eventualità che avessi aderito a una “famiglia” all’Estero. Non ricevendo risposta, cambiò atteggiamento e rinnovò la richiesta del Soprintendente di ottenere il nominativo di chi aveva consegnato il dossier e se vi fossero altre rivelazioni in corso di pubblicazione. Ragonese intervenne a chiarire che la documentazione gli era anonimamente pervenuta in un plico, via posta, e gli mostrò l’involucro affrancato, recante il timbro postale di Palermo.

Una donna che si occupava assieme ad altri volontari della rimozione dei resti dell’incendio nella parte esterna alla  proprietà mi informò che, prima di andare via, l’anziano funzionario aveva annotato su un foglio alcune informazioni circa la mia auto con targa olandese. L’anno seguente mi fu recapitata (all’indirizzo siciliano di una mia familiare!) una multa per eccesso di velocità eseguita in quel giorno, a quell’ora e in quella località, e fatto che rendeva ancor più degradante la vicenda, la multa risultava fortemente maggiorata di alcuni mancati pagamenti, pur non avendo io mai ricevuto alcun avviso.    

 

L’avvento dell’ordine degli “aristoi” sopranazionali

Nei miei quattro lunghi articoli che ad oggi costituiscono la serie “La Tecnocrazia e il Sistema di Potere siciliani” postati su questo blog ho cercato di inquadrare, anche tramite la narrazione di vicende, i principali problemi che impediscono ancor oggi un corretto svolgimento della vita sociale siciliana. Gli articoli sono il frutto di oltre un trentennio di esperienze dirette, sia private che professionali e di accurate raccolte d’informazioni, incontrando innumerevoli volte personaggi ben addentro ai meccanismi della cosiddetta Prima Repubblica.

Pur assumendo un nuovo aspetto, dagli inizi degli anni 1990 il “sistema” dominante in Sicilia è rimasto vassallo dell’imponente rete del Blocco Occidentale. Esso è ancor oggi lasciato più o meno libero di gestire il patrimonio dell’Isola a propria discrezione, ma nel pieno rispetto delle necessità dell’Autorità militare statunitense che dal 1943 vi ha fondato basi militari oggi in forte espansione. Così i poteri forti siciliani hanno visto ampliare le concessioni e le garanzie precedentemente elargitegli, dal 1860 al 1943, da tutti i governi di Sinistra e di Destra succedutisi durante il regno dei Savoia.

La disastrosa scelta di accordare mano libera amministrativa ai “vassalli” (le Cinque Entità o Poteri Forti che compongono il Deep State regionale siciliano) ha creato una situazione che, oltre a svilire l’autorevolezza dello Stato Italiano, ancor oggi interviene puntualmente con pesantissime vessazioni, non soltanto su tutte le pubbliche attività economiche e politiche, ma anche su quelle private che il comune cittadino s’avventura a intraprendere quando non protetto da una delle componenti della piramide del potere.

Tuttavia, la progressiva infiltrazione di gruppi finanziari stranieri potrebbe determinare un interesse di questi anche nello sfruttamento economico dei beni culturali e ambientali siciliani, divenendo in un prossimo futuro oggetto di operazioni finanziarie di grande impatto, garantite dalla protezione del network Deep States europeo. Il pericolo dell’avvento di un periodo di imponenti programmi speculativi, per intenderci del tipo operato ad esempio nelle Isole Canarie, scaturirebbe non solo dai danni sofferti da aree d’interesse archeologico, paesaggistico e ambientale, ma anche dalle modalità di gestione delle spese per la tutela e la valorizzazione per finalità di crescita e sfruttamento in tutte le stagioni di grandi flussi turistici, captando anche gran parte degli ingenti fondi provenienti dalla comunità europea destinate alla popolazione locale.

Ma in questo quadro già allarmante vi sarebbe un pericolo ancora maggiore per la società siciliana. Ormai, le tecniche per legalizzare ingenti quantità di denaro provenienti da attività illecite e l’assenza di adeguate risposte degli Stati, sono tali da permettere impuni investimenti persino in grandi opere private di grande impatto pubblico, al punto da rendere difficilmente evitabile una sempre più forte presenza di grandi organizzazioni criminali nel mercato del lavoro pubblico e privato.

Ecco quindi a cosa giungerà il “progresso” sociale riservato alla Sicilia, perla del Mediterraneo: a lasciare apparire vicende come quella dei “Saldi archeologici: il guerriero di bronzo” quali amarcord di un periodo dominato da bande di arraffoni, facilmente neutralizzabili se lo Stato fosse esistito davvero, anzitutto come ideale amato e quindi rispettato collettivamente. Oggi, in Sicilia, è ormai tardi.

 

Note

– Villari P.Saldi archeologici: il guerriero di bronzo, in “Grifone”, 31 ottobre 1998, anno VII, n.5 (35), pagina 12

– La notizia mi giunse da un noto dirigente della regione siciliana nel corso di un viaggio da Palermo ad un’area archeologica in una desolata campagna del Trapanese. Mi disse che gli era stato chiesto come favore dal Prof. Santo Tinè (questi nel 2007 ormai gravemente malato, a mia domanda si limitò a rivelarmi che era intervenuto dopo avere appreso la notizia a Roma).    

Con fare amichevole che mi allarmò, il tecnocrate regionale cercò inutilmente di conoscere particolari dei rapporti professionali che intrattenevo con un generale di brigata, Roberto Conforti, a quel tempo al vertice del T.P.A. (oggi T.P.C.) uno speciale nucleo dei carabinieri, del cui operato si stava occupando un commissario di polizia della Digos – Catania. Continuò confidandomi che “qualcuno ai piani alti” era stato attivato “per cercare d’incastrare il Generale”, investigando sull’operato di una serie di suoi controversi contatti in Sicilia, due dei quali arrestati dalla polizia elvetica (un noto collezionista e un magistrato) e di smettere di cercare prove delle malefatte di funzionari delle soprintendenze, in quanto autentico suicidio professionale e che poteva accadermi anche di peggio. Risposi che la mia esperienza mi portava a identificare l’alto ufficiale quale un uomo di rara devozione allo Stato, cosa di cui sono ancora oggi convinto ad alcuni anni dalla sua tragica scomparsa, nonostante in seguito avessi appreso delle differenti convinzioni del magistrato Felice Casson, che lo aveva indagato per i rapporti con Felice Maniero, capo di una organizzazione criminale internazionale nota alle cronache quale “mafia del Brenta”.  

Poco tempo dopo fui chiamato telefonicamente, presso la mia residenza in Olanda, da un magistrato del Tribunale di Catania che indagava su un gruppo di “colletti bianchi” della Sicilia centro-orientale. Mi palesò l’importanza di incontrarci per un colloquio nel suo ufficio dove mi recai alcune settimane dopo. Partecipò anche il commissario della Digos, che volle interrogarmi quale persona informata sulle attività di certi burocrati e accademici, operanti nella Sicilia Orientale, coinvolti in una vicenda oggetto di alcuni miei articoli pubblicati da Centonove, settimanale a diffusione regionale. Poi tentò di questionare il mio rapporto con il generale, ma fu interrotto dal giudice che aveva già appurato la natura delle mie attività e la mia impossibilità a rivelare notizie su delicate ricerche in corso sia in Sicilia che in vari Paesi europei.

Purtroppo alcuni particolari del mio operato in Sicilia vennero alla luce circa sette anni dopo, a causa della maldestra deposizione di un sottufficiale dei carabinieri nel corso di due processi svolti in Sicilia a un famoso antiquario svizzero che lambirono elementi del cosiddetto terzo livello, tra i quali Sebastiano Tusa, ma tutto si risolse nel nulla. Tuttavia, rivelando il contenuto di uno dei miei rapporti, inviato in via riservata ad una speciale unità investigativa con sede in Roma, il sottufficiale “bruciò” ogni possibilità di continuare le mie attività collaborative e dovetti mio malgrado interrompere tutte le ricerche in corso ed in particolare quelle sull’operato di diversi dirigenti di alcune soprintendenze siciliane.

Il “fuoco amico”, il peggiore quando si opera sotto copertura in quanto colpisce alle spalle, oltre ad arrecarmi anche ingenti danni economici per investimenti logistici professionali e privati, mi espose improvvisamente alle reazioni di organizzazioni criminali non solo europee ma anche di aree extra-europee.

Fui salvato dal tempestivo intervento di un famoso giudice romano, che compresa la situazione operò in modo da mettermi sotto la protezione di un Ufficio dei servizi informativi di un Paese europeo, con il quale collaborai sino al 2014, anno in cui per aggravati motivi di salute mi ritirai da ogni attività professionale.

– l’intera documentazione, appartenente a un avvocato della Sicilia Occidentale, fu invece consegnata a Sebastiano Tusa, come lo stesso mi confermò facendomi il nome del funzionario che avrebbe acquistato i due lussuosi immobili nell’Isola di Pantelleria. La tempistica di una serie di accadimenti mi indusse a presumere che le mie attività in Sicilia fossero oggetto di monitoraggio specialistico.

 Carbone F.In treno sui fossili, in Panorama, 8 ottobre 1989, p. 67; Ragonese B., Rizza E., Villari P., 27 agosto 1995, Fusco: una distruzione enorme, incredibile, irreparabile. Non deve restare impunita, in “Grifone”, anno IV, n. 4, pp.4-6;  Villari P., 3 dicembre 1989, Parco paleontologico. Può ancora essere realizzato in contrada Fusco, in “La Sicilia”, Cronaca di Siracusa (pubblicato anche dal quotidiano “L’Ora”, il 16 dicembre 1989, p. 6, con il titolo “Per un parco paleontologico”).

– In realtà il contesto in cui fu collocata la bomba era fortemente simbolico. Esso svela come si trattasse di un avvertimento giunto da poteri talmente più forti di quelli del magistrato da farla “spostare lassù” (al Nord Italia, in termini siciliani), lontano da quel ruolo istituzionale svolto con grande impegno nella sua Siracusa.

A Firenze la Pietroiusti fu per anni destinata al Tribunale per i Minori (ovvero di casi di nessun impatto sull’operatività del Sistema dominante), ma riuscì a risalire lentamente la china tornando recentemente al ruolo di Sostituto Procuratore della Procura della Repubblica (ma in Firenze anziché Siracusa), dopo un periodo trascorso in qualità di Pubblico Ministero della Direzione Distrettuale Antimafia del capoluogo toscano.

– La Redazione de “L’Ora” attraversava un triste periodo, subendo arroganti tentativi di pressioni politiche, e denunzie a seguito di articoli pubblicati che potevano tradursi in sostanziose perdite di denaro. Mancava il pieno sostegno dello Stato o delle forze politiche dell’arco costituzionale e in quei mesi qualcuno si illuse potessero giungere fondi a livello regionale o statale, che tuttavia non arrivarono. Il quotidiano recava realmente fastidio agli equilibri di potere di quel periodo e fu costretto a chiudere pochi mesi dopo avermi comunicato telefonicamente il rifiuto di pubblicare tra altri anche il mio articolo edito anni dopo da “Grifone”.

7 – Saldi archeologici: il guerriero di bronzo, in “Grifone”, 31 ottobre 1998, op.cit. in nota 1

8 – per Bruno Ragonese fu un terribile colpo, avendo quell’evento distrutto alberi centenari e parte degli sforzi della sua vita. Ebbe un infarto (mentre tentava di mettere ordine nella proprietà affinché risorgesse  “più forte di prima”), dal quale si riprese solo parzialmente giungendo a partecipare a una missione dell’Università di Catania in Congo, per campionare ragni e altri Artropodi velenosi in una regione dove, a parte la guerra tra bande armate, imperversava una terribile epidemia di ebola che mieteva vittime... Prima di partire da Amsterdam per l’Africa venne a salutarmi assieme ad altri studiosi siciliani e passammo assieme i due giorni della sua visita alla città. Gli mancavano già i paesaggi rurali della Sicilia sudorientale, l’impegno civile di ogni giorno, ma l’avventura africana lo emozionava.

Al suo ritorno ci tenemmo ancora in contatto telefonico, ma non lo rividi più. Affaticato dalle continue battaglie ambientaliste in difesa del territorio sudorientale isolano, il cuore gli cedette nel 2004. Fu una grave perdita per la Sicilia che nessun media governativo volle mettere in giusto risalto, come sempre accade agli uomini veramente liberi.

9 – Villari P., 1998, “La vera storia della collezione numismatica dei Baroni Pennisi di Floristella”, in “Grifone” 31 Agosto 1998, pp. 4-7;  Villari P., 2000, “La vera storia della collezione numismatica dei Baroni Pennisi di Floristella. Parte 2: Quando la Regione Siciliana sborsò oltre quattro miliardi di lire”, in “Grifone” 30 giugno 2000, pp. 6-10.  In seguito furono pubblicati anche dal settimanale messinese “Centonove”.

10 – Ragonese B., 1998,  “Guai giudiziari in vista”, in “Grifone” 31 dicembre 1998, p. 12.

 

Le ruspe nel complesso religioso residenziale e cerimoniale megalitico dell’Antica età del Bronzo di Monte Belvedere (Fiumedinisi, Sicilia Nordorientale). Parte II. La classe teocratica.


di Pietro Villari

Pubblicato il 25 Luglio 2020, ore 2:45

 

Il centro teocratico di Fiumedinisi: origini e distruzione di un potere super partes

La popolazione stanziata nella Sicilia nordorientale nel corso dell’Antica e della Media età del Bronzo tra circa 4100 e 3400 anni fa, nel periodo di massimo sviluppo probabilmente contava alcune decine di insediamenti per un totale di non oltre poche migliaia di abitanti. Essa era il risultato della commistione dei discendenti delle comunità eneolitiche, formatesi nel corso del terzo millennio a.C., con le nuove ondate di genti migrate nell’Isola soprattutto da aree costiere del Mediterraneo orientale. Ne dovette risultare una complessa composizione, con la presenza di territori che mostravano sensibili differenze di usi e costumi proprie delle società multietniche originate dalla fenomenologia dei flussi migratori. Un processo culturale dinamico che nel corso di alcune generazioni condusse a ulteriori differenziazioni, facendo assumere a ogni comunità propri caratteri identificativi.

 

Fig. 5 - il Monte Belvedere dal torrente Allume. Particolare da una foto eseguita dall'Autore (Giugno 2008. Tutti i diritti riservati) e elaborata con l’uso di particolari filtri. Venne scattata in una proprietà di famiglia lungo la vallata del torrente Allume, in occasione del rinvenimento di tracce di affioramenti di arsenopirite, testimoni di antiche manifestazioni d’interesse geologico alle quali si deve la presenza di vene metallifere in questo territorio peloritano. Tutti i diritti riservati).

 

In Sicilia iniziarono a distinguersi quattro principali aree culturali (nordorientale, sudorientale, centrale e occidentale) ognuna delle quali caratterizzata da influenze esterne maggiormente attive nei centri costieri. Inizialmente si trattava di società tribali etnicamente "allargate" per accogliere i nuovi coloni e confederate, poi evolute in forme arcaiche di regni (17) con caratteri feudali, la cui sicurezza era garantita da alleanze e accordi politici, militari e commerciali che in alcune aree andavano oltre l’ambito regionale, e da un alto numero di abitanti e difese tali da rendere meno probabili pericoli di razzie. In questi centri erano presenti anche mercanti, gruppi di esuli, o di coloni, provenienti non solo dalle grandi civiltà delle coste orientali del Mediterraneo, ma anche dai centri popolati dalle genti appartenenti alla cultura protoappenninica della penisola italiana ove erano presenti influssi culturali tardocampaniformi e di altre aree europee centro-occidentali, seguendo le rotte commerciali marittime attive a quel tempo.

L’area nordorientale siciliana fu particolarmente esposta a queste rotte, ed ebbe i maggiori contatti con le popolazioni italiane peninsulari abitanti le coste tirreniche, ioniche e del basso Adriatico, in particolare con l’area metallifera Toscana, con la Calabria e la Puglia, a loro volta esposte a contatti con le culture balcaniche.

La presenza di peculiarità, riscontrate nei resti pervenuti dalla cultura materiale dell’Antica età del Bronzo della Sicilia nordorientale, induce a presumere l’esistenza di una locale confederazione di comunità, nella quale il potere teocratico svolgeva un ruolo di primaria importanza. Un organismo autonomo dal potere militare e commerciale detenuto dall’aristocrazia, probabilmente giunta a operare attivamente a livello socio-politico quale riferimento super partes del sistema di alleanze militari e economiche regionali e interregionali. Un sistema che comportava sicurezze nel corso degli scambi commerciali, di attraversamento di territori e obblighi di forme di reciproca assistenza tra i regni, quali ad esempio in caso di carestie o di devastazioni da parte di popolazioni nemiche, che praticavano la pirateria e divenute progressivamente molto temute per le attività di razzia e schiaviste che causavano lo spopolamento di parte del territori.

Durante questa età, i territori asiatici che si affacciano sul Mediterraneo orientale erano caratterizzati dalla presenza di civiltà organizzate in regni, costantemente pronte alla guerra per proteggere le rotte commerciali dalla pirateria e fronteggiare le ondate migratorie dall’Asia centro-orientale di bellicose genti indo-europee. Tramite i profughi provenienti dall’esito di queste guerre, che coinvolsero l’Anatolia, il Vicino Oriente e infine Creta e altre isole dell’Egeo orientale, giunsero in Sicilia nuove conoscenze scientifiche e concezioni che si fusero con altre provenienti dall’Europa centro-occidentale attraverso la penisola italiana, influenzando le comunità isolane anche in campo politico e religioso.

I resti della cultura materiale prodotti in Sicilia tra la fine del terzo e la metà del secondo millennio a.C., rivelano le fasi dell'insorgenza e l’opera di una classe sacerdotale innovativa, che affiancò e legittimò il potere dei regnanti, sino a coincidere in forme di potere teocratico, diffondendo nuove dottrine religiose legate all’uso dei megaliti. Ne rimane traccia monumentale anche a Fiumedinisi, nella forma nota in letteratura paletnologica italiana con il termine “pietra forata”, adoperata per osservazioni astronomiche corrispondenti ai cicli della natura, la cui conoscenza era di grande utilità per le attività agricole, di allevamento, della caccia e anche per intraprendere attività marinare. A Monte Belvedere di Fiumedinisi vi sono evidenze che inducono a ritenere altamente probabile che i megaliti fossero utilizzati anche nel corso di cerimonie magico-religiose, che pubblicherò prossimamente nella terza parte di questa serie monografica.  

Rispettata dalla popolazione soprattutto per l’eccellenza delle attività prodigate in suo favore, così come nelle lontane aree dalle quali si diffuse, la classe sacerdotale fu probabilmente la principale artefice e l’aggregante della confederazione dei regni, e del superamento dei problemi derivati dalle problematiche multietniche determinatesi nell’Isola. L’attività di amalgamazione culturale svolta dal potere teocratico, non poteva che basarsi sul coinvolgimento di ogni individuo della comunità al fine di determinare una condivisione sincretica della concezione del soprannaturale, intervenendo così nella trasmissione della narrativa mitologica, nelle celebrazioni di culti, nelle ricorrenze religiose annuali legate ai cicli della natura, nel rispetto dei totem e dei tabù, regolando i mercati regionali nell’ambito di queste ricorrenze, determinando momenti di aggregazione a beneficio del consolidamento del regno e delle alleanze tra regni. Una teocrazia “pontificale”, connessione tra il mondo naturale e quello soprannaturale, dove le figure dei  regnanti le popolazioni della regione erano spiritualmente sottomesse a quella del Gran Sacerdote.

La formazione della confederazione iniziò probabilmente nella fase finale dell’Eneolitico, attorno all’ultimo quarto del III millennio a.C. in concomitanza con la crescita d’importanza della navigazione nello Stretto di Messina, frequentato dalle rotte mercantili verso i consistenti distretti metalliferi della Toscana e della Sardegna, e i centri commerciali costieri della Francia Meridionale. Rotte necessarie a coprire il fabbisogno dei metalli nelle civiltà dell’Oriente mediterraneo, che raggiunsero anche i giacimenti di Fiumedinisi. In cambio, dall’Oriente arrivarono mercanzie esotiche quali preziosi tessuti, spezie e potenti droghe allucinogene.

In base alle scoperte inerenti all’Antica età del Bronzo della Sicilia nordorientale, in particolare quelle avvenute negli anni 1970, nella ricchissima e complessa area archeologica di Fiumedinisi, possediamo oggi fondamentali informazioni per la comprensione dell’origine delle attività magico-religiose siciliane durante questo periodo, mostrando queste influenze provenienti dalla cultura Tardocampaniforme e dall’area Egeo-Anatolica, in particolare tramite la civiltà talassocratica minoica (18). Ne abbiamo esempio in due frammenti di ciotole carenate d’impasto, prodotte in due differenti siti non siciliani, le cui forme e decorazioni in stile tardocampaniforme (Fig. 6) ci informano  di contatti, diretti o indiretti, con maestranze presenti nelle aree metallifere tirreniche.  

 

Fig. 6 - ricostruzione grafica della ciotola carenata tardocampaniforme di Monte Belvedere, scoperta dall'Autore nel 1976. Diam. max cm 24,5. Disegno dell'Autore, da "I giacimenti preistrorici...," 1981, op. cit. in nota 17.

 

Essendo posto a metà strada lungo l’importante rotta marittima che collegava centri commerciali dell’Egeo mesoelladico ai distretti minerari della Toscana, Monte Belvedere di Fiumedinisi divenne un centro religioso frequentato stagionalmente dai naviganti, probabilmente protetto a nord dalla marineria del regno eoliano (cultura di Capo Graziano) e dagli insediamenti collinari di Messina, e a sud da quelli del territorio etneo, questi ultimi molto più popolosi e economicamente potenti.

Si trattò di un periodo di lunghi viaggi marittimi avventurosi, d’incontri tra culture con usi e costumi espressione di tradizioni culturali molto differenti, di scoperte di affioramenti di filoni minerari che rappresentavano favolose ricchezze, di esperienze umane straordinarie accadute a coloro che frequentarono le fasce costiere del Mediterraneo, sfidando i pericoli posti da entità soprannaturali avverse che si palesavano tramite spaventose forze della natura e dei totem di popolazioni bellicose.

L’eco dei pericoli e delle meraviglie di questa età, dei suoi personaggi e luoghi venne in seguito ricordato dai Greci quale Età dell’Oro, che nei loro più antichi scritti accolsero parti di leggende e miti dell’antica tradizione orale siciliana, molti dei quali andarono in seguito perduti. Essendo stata sede di un importante centro religioso, la vetta del Monte Belvedere conserva importanti informazioni per conoscere questo passato, e bisognerà applicare la massima cura e professionalità per cercare di non distruggerle proprio in fase di scavo archeologico. Non mi riferisco soltanto agli scavi stratigrafici d’indirizzo bioarcheologico, sino ad oggi costantemente mortificati da distruzioni imponenti e irrimediabili, e che invece avrebbero potuto determinare fondamentali scoperte paletnologiche e paleoambientali, ma anche alla raccolta delle evidenze d’interesse magico-religioso e esoterico, essendo campo di ricerche specialistiche.

Le evidenze che negli anni 1970 raccolsi in questo illuminante sito dell’Antica età del Bronzo della Sicilia nordorientale, permettono di avanzare l’ipotesi che il gran sacerdote, i suoi adepti e gli appartenenti alla popolazione chiamati a svolgere periodiche prestazioni di lavoro al servizio dei religiosi, costituissero una corte teocratica che viveva in periodica condizione di isolamento in questo centro religioso, lontana dagli abitati. L’indagine scientifica di laboratorio dovrà cercare di scoprire se essa risiedesse stabilmente a Monte Belvedere, o soltanto in determinati periodi dell’anno, in relazione a cadenze di festività stagionali, nel corso delle quali celebravano cerimonie e pratiche rituali relative a culti, calcoli astronomici, divinazioni e attività negromantiche (delle quali abbiamo traccia tramite le coppe incantatorie). È inoltre presumibile che in questo luogo si tenessero anche fiere annuali che attraevano pellegrini da altre aree del Mediterraneo, ai quali la classe religiosa garantiva un temporaneo accesso e soggiorno incolume. 

In definitiva, non è appropriato distinguere nell’età del Bronzo siciliana una serie di “culture” delimitate territorialmente, trattandosi di un “complesso culturale” fluido, nel quale si identificavano anche le popolazioni della Sicilia Nordorientale, governate da regni arcaici dai caratteri protofeudali, confederati in un sistema di alleanze garantito da una teocrazia costituita dalla classe religiosa super partes al cui vertice (forse in ognuna delle quattro principali aree dell’Isola) era posto un Gran Sacerdote (o forse più probabilmente una Sacerdotessa, come sembrano suggerire le ricerche nei maggiori centri della cultura Minoica. Daltronde. le impronte delle dita delle mani presenti sui vasi di uso magico-religioso, tutti di produzione locale, sono attribuibili a mani femminili). Una classe rispettata e probabilmente parte di un sistema missionario proprio del fenomeno megalitico, che si propose quale una sorta di ordine iniziatico garante del circuito commerciale mediterraneo.   

 

Simbolo di status iniziatico, strumento per calcoli astronomici o semplice bilancino?

Le future ricerche dovranno anche appurare se in quest’area dei Monti Peloritani siano ancora miracolosamente presenti luoghi dove le attività recenti non abbiano cancellato le tracce dell’estrazione dei metalli in età preistorica, e se le fasi finali di queste successive alla lavorazione a freddo per frantumazione e battitura delle rocce contenenti vene metallifere, o alla più complessa tecnica di frantumazione, fusione e colatura a getto entro stampi e la rifinitura degli oggetti, si svolgessero nel sito di Monte Belvedere o piuttosto presso gli affioramenti minerari. Al proposito ricordo che alcuni blocchetti di quarzo contenenti consistenti vene di rame nativo, malachite e azzurrite furono da me rinvenuti a Fiumedinisi nell’area dove raccolsi in superficie una notevole quantità di frammenti ceramici dell’Eneolitico Tardo e Finale che ritenni attribuibili a insediamenti (19).  

A quarant’anni dalla pubblicazione di un oggetto in bronzo che rinvenni nell’area residenziale di Monte Belvedere, ad oggi il più antico e raro esempio di arte preistorica in metallo prodotta in Sicilia (Fig. 7), mi chiedo se esso realmente rappresenti i resti di un bilancino, ipotesi condivisa dal mio mentore di quegli anni, Luigi Bernabò Brea e molti anni dopo fatta propria da Vincenzo La Rosa (20).

 

 Fig. 7 - Monte Belvedere, frammenti di oggetti in bronzo dalla struttura abitativa capannicola dell'Antica età del Bronzo. Foto dell'Autore, 1980, da "Considerazioni sulla presenza...", op. cit. in nota 17).

 

Difatti, alla fine degli anni 1990 iniziai a considerare questo importante reperto quale evidenza di un ben più complesso oggetto di potere. Agli inizi del corrente secolo il manufatto fu oggetto di esami di laboratorio, che ne certificarono l’antichità e appurarono la provenienza peloritana del rame in esso contenuto (21).

In base a quanto osservai e dedussi, l'oggetto era stato ottenuto con la fusione a getto utilizzando uno stampo a lastrina con il lato superiore aperto. Raffreddato in acqua, l’oggetto era stato decorato con un cesello (in selce o ossidiana) e un perforatore a punta litica con estremità convessa, e quindi rifinito (probabilmente utilizzando in sequenza un ciottolo di arenaria, pomice, osso di seppia, sostanze lucidanti e patinanti di origine sia vegetale che animale e infine un panno in pelle). Soltanto una delle due superfici è decorata e ha il bordo smussato, mentre l’altra è piana. Entrambe presentano un’usura dovuta non soltanto a un lungo periodo d’uso.  


 Fig. 8 - Monte Belvedere. Ricostruzione grafica del bilancino in bronzo. Disegno dell'Autore, Giugno 2020. Tutti i diritti riservati.

 

La decorazione nella metà del giogo pervenutoci consiste in due archi incisi a linea spezzata, contrapposti in modo da produrre l’effetto ottico di una X, e con tre degli spazi derivati da questo apparente incrocio campiti da tre gruppi di tre coppelle incuse disposte irregolarmente a triangolo, e quello più esterno con quattro coppelle incuse. Altre tre coppelle incuse disposte a triangolo sono disposte presso l’estremità, troncata in antico, che forse si prolungava in uno spazio subcircolare contenente il foro per la sospensione dell’oggetto. In posizione opposta, presso quella che ritengo fosse l’area centrale del giogo, si conserva una banda verticale in rilievo contenente una fila verticale di quattro coppelle incuse, seguita da una banda verticale incusa contenente tre coppelle. Il frammento misura 38 mm di lunghezza e 1,7 mm di spessore.

Un tentativo di parziale ricostruzione del reperto è qui presentato in Fig.8, che stabilisce una lunghezza di 7,5 cm mancante delle estremità, in base alla quale il giogo di bilancino di Monte Belvedere di Fiumedinisi sarebbe calcolabile tra gli 8,5 e i 9,5 cm di lunghezza.

La figura 9 mostra due reperti rinvenuti rispettivamente da Luigi Bernabò Brea nell’Isola di Poliochni, nell’Egeo nordorientale, datato nel corso della seconda metà del III millennio a.C. (circa 12 cm di lunghezza)e da Paolo Orsi nella necropoli siciliana sudorientale di Castelluccio, databile alla prima metà del II millennio a.C., lungo circa 8 centimetri (22).

 

Fig. 9 - Bilancini provenienti da Castelluccio (da Orsi P., 1892) e da Poliochni, in basso (da Bernabo Brea L., 1964). Figura tratta da Villari P., 1980, "Considerazioni sulla presenza...", op. cit. in nota 17.

 

Questa decorazione è identificabile quale l’espressione simbolica astratta della concezione del dimorfico dualismo binario, riferibile quindi all’opera di un artigiano di elevato grado di conoscenza iniziatica, probabilmente un sacerdote.

Difatti, siamo innanzi a diversi livelli di lettura, del quale l’introduttivo (primo livello) potrebbe indicare le due fasi del percorso iniziatico scalonato riferito all’antichissima concezione animistica di Tempo e alle fasi della Natura,  legati al ciclo della vita e della morte. In secondo livello di lettura, superiore, i due archi potrebbero esprimere le due fasi del movimento lunare, ovvero i due crescenti di grande importanza magico-religiosa non soltanto nella preistoria europea, nell’Egitto e nel Vicino e Medio Oriente, ma anche in quasi tutte le popolazioni del passato. La disposizione delle coppelle, i loro gruppi e quantità numeriche, le barre verticali indicano questa raffigurazione quale la descrizione dell’osservazione astronomica relativa alle posizioni assunte nel corso delle stagioni dalle Sette Sorelle appartenenti alla costellazione circumpolare dell’Orsa Maggiore (coppelle = Entità astrali), in relazione ai cicli lunari. Tutto questo mi induce a ipotizzare che il frammento sia effettivamente riferibile all’asta di un bilancino, ma nel senso di strumento adoperato per misurazioni e calcoli astronomici, anche a fini calendari. Mi chiedo quindi se avesse avuto anche un uso per l'orientamento nelle navigazioni marittime d’alto mare.

Nell’eventualità l’oggetto potesse fungere anche da bilancino, ovvero se questo fosse uno dei suoi molteplici usi, bisogna presumere che esso fosse riservato a pesare quantità minime di sostanze piuttosto rare e preziose, prodotte nel territorio e oggetto di scambi interregionali, quali l’oro e l’argento, polveri medicinali (tra le quali allume e malachite) e sostanze allucinogene derivate da specie vegetali.

Tuttavia, essendo l’usura visibile anche sulla frattura centrale (ma di minore gravità), essa dimostra che dopo un lungo periodo d'uso quale parte del bilancino, il frammento venne utilizzato per un minor tempo quale pendente, un simbolo di “status” di rango che assieme ad altre evidenze materiali, quali le coppe su alto piede recanti disegni incantatori, e gli idoletti, rivela molto su coloro che risiedettero in questa costruzione.

 

Trading-post occidentale della talassocrazia minoica? Una fine violenta e improvvisa

La posizione arroccata di questo centro e i rinvenimenti dei resti della cultura materiale, sembrano indicare Monte Belvedere quale un insediamento atipico nel panorama siciliano di questa età. Difatti, esso sembra evocare quella concezione residenzale in posizione arroccata e dominante del potere aristocratico che nel Minoico Medio, tra il 1900 e il 1700 a.C. nell’Egeo caratterizzò l’età Protopalaziale, pur avendo a Fiumedinisi una connotazione architettonica propria, legata alla tradizione indigena, ma anch’essa perfettamente innestata nella monumentalità sacrale della Natura che ancora oggi, nonostante le moderne devastazioni, impera in questo luogo (23)Nel loro insieme, le evidenze archeologiche indicano che ci troviamo innanzi ai resti di un importante centro teocratico, che fungeva anche da “trading-post”, uno dei pochi dell’estrema periferia occidentale delle rotte commerciali del sistema talassocratico minoico.

Oltre ai ritrovamenti di oggetti d’importazione che attestano contatti intercorsi con lontane civiltà, indubbiamente da riferire anche alla presenza di notevoli ricchezze ambite dal prospero commercio mediterraneo di quel periodo, rappresentate dagli affioramenti metalliferi oggetto di estrazione e lavorazione, l’eccezionalità del centro religioso di Fiumedinisi è determinata dalla presenza presso la vetta di un’opera megalitica di eccezionale interesse. Si tratta di un affioramento roccioso forato di uso astronomico e magico-religioso, al quale bisogna forse affiancare anche i resti di una seconda struttura, anch’essa riferibile alla tradizione architettonica megalitica, che localizzai in località Rocca di Buticari sita nel territorio di Nizza di SiciliaEssa è distante solo alcuni chilometri in linea d’aria dalla vetta del Monte Belvedere ed è costituita da una piccola piramide a tre gradoni su base quadra, ove rinvenni anche molti frammenti ceramici appartenenti alla locale fase dell’Antica età del Bronzo. La struttura potrebbe rappresentare i resti di un osservatorio dei movimenti solari, in particolare dei solstizi, in seguito modificata in torre di guardia in età storica (24).

Il sito del Monte Belvedere venne distrutto in modo violento, presentando evidenti tracce di un grande incendio e del crollo di parte del muro a secco perimetrale (schiacciando alcuni vasi). Uno strato di ceneri, carboni e resti dell’intonaco argilloso cotto ad alta temperatura, che rivestiva le pareti dell’elevato a impianto ligneo (chiari resti di buche della palificazione combusta), sigilla i reperti di uso quotidiano ancora presenti all’interno di un ambiente dell’area residenziale (25)

Il comprensorio tornò a essere occupato dall’uomo soltanto nel corso del XV secolo a.C., con l’edificazione di un semplice abitato sito in una piccola area fortemente arroccata che costituisce l’estrema digitazione della Pianura Chiusa (traslitterazione in lingua italiana dal dialetto locale “Chiana Chiusa”, inteso quale pianoro delimitato da precipizi), sovrastante la contrada Buticari (dal Castillano botigaro, azienda vinicola) il Palazzo Rosso (probabilmente l'antica Torre Rossa della locale tradizione popolare da me raccolta nel 1969). Negli anni 1970 vi raccolsi quanto affiorava in superficie dei resti di un complesso vascolare ceramico, costatando la coesistenza di elementi stilistici presenti nella fase del Monte Belvedere, ma qui associati a quelli predominanti di quella che nei suoi scavi nell'arcipelago eoliano Bernabò Brea definì cultura del Milazzese, appartenente alla Media età del Bronzo. Limitato in Sicilia alla sola porzione peloritana e alle Isole Eolie, il principale centro di potere di questo regno risiedeva probabilmente nell’attuale area urbana di Messina e in alcuni abitati dell’area tirrenica quali il promontorio di Milazzo e le Isole Eolie dove venne per prima identificata (26)

 

Il Gran Sacerdote: una notevole esperienza iniziatica

Per avere un’idea di quanto avveniva nel centro cerimoniale di Fiumedinisi e avere ottimi spunti per prevenire distruzioni e perdite di importanti informazioni in corso di attività di scavi, in Sicilia di consueto condotti da équipes (anche straniere) non specializzate in questo settore di ricerca, è opportuno prendere in considerazione i risultati degli studi etnologici effettuati nel corso del diciottesimo e del diciannovesimo secolo nelle comunità arcaiche e tradizionali, sin allora sopravvissute (oggi in gran parte estinte o culturalmente contaminate) (27). In questi studi è stato osservato come lo sciamano, o “uomo (o donna) di medicina”, dal quale derivò la figura del gran sacerdote, svolga un ruolo di guida spirituale che spesso sovrasta quello del capo guerriero o della forma arcaica di aristocrazia regnante, essendo colui che oltre a possedere professionali conoscenze naturalistiche e magico-religiose, aveva anche riconosciuta la capacità di entrare in contatto con il mondo degli spiriti e di “negoziare”, con entità spirituali, il recupero e il mantenimento del benessere della sua comunità.

Nelle società dov’era presente la classe teocratica che affiancava il potere regnante, il gran sacerdote fu anche il riferimento spirituale della classe guerriera e nessuna attività di guerra o le grandi opere di pubblico interesse potevano essere avviate senza i suoi consigli e avvertimenti, in quanto rilasciati sulla base di attività divinatorie e magico-apotropaiche. 

La presenza di strutture megalitiche, di rinvenimenti di ceramiche importate tardocampaniformi e protoappenniniche; di un vaso rituale dipinto nel più antico stile della produzione Castellucciana; di due bronzi la cui decorazione è stilisticamente riferibile a simbologie presenti nella Grecia mesoelladica e soprattutto a concezioni cosmologiche e magico-religiose del Vicino Oriente; di ceramiche con influenze stilistiche che si ricollegano a tradizioni di altre aree del Mediterraneo sia orientale che occidentale (28), costituiscono un insieme di elementi che permettono di porsi domande e di avanzare ipotesi sull’organizzazione sociale presente nel centro religioso dell’Antica età del Bronzo di Monte Belvedere di Fiumedinisi.

In particolare se esso fosse retto da una classe sacerdotale fondata da uno o più personaggi di provenienza alloctona, o se il Gran Sacerdote fosse un personaggio autoctono, che dopo essere stato iniziato alla tradizione locale, aveva viaggiato in terre lontane, forse mosso dalla sacra sete della conoscenza, approfondendo i segreti del mondo naturale e del soprannaturale, della medicina, della estrazione e della lavorazione dei metalli. Come più sopra accennato, queste ultime erano probabilmente praticate a Fiumedinisi almeno sin dal Tardo Eneolitico (in particolare per i blocchetti contenenti rame nativo, da me rinvenuti negli anni 1970 assieme a abbondanti resti di ceramiche nello “spiazzo alfa” (29). Bisogna ricordare che in Europa e in Asia i segreti della metallurgia e la conoscenza delle proprietà dei metalli, fino a pochi secoli addietro rimasero di tradizionale appannaggio delle corporazioni strettamente collegate alla sapienza esoterica e alla pratica dell'arte magica.  

Esplorando le aree degli insediamenti dell’Eneolitico Tardo e Finale potrebbe anche rivelarsi un fatto fondamentale, ovvero che gli sciamani di Monte Belvedere fossero già da quell’età rinomati per il loro livello di conoscenze e capacità, e che nell’Antica età del Bronzo il centro cerimoniale di Fiumedinisi si fosse trasformato in un centro di eccellenza nell’ambito di un sistema di luoghi di culto teologico-astrale, dove erano praticati insegnamenti originari dell’area mesopotamica e anatolica, e altri forse mutuati da popolazioni peninsulari italiane che conservavano una forte tradizione animistica indigena pervenuta dal culto neolitico della Dea Madre, determinando locali forme di sincretismo. Luoghi legati a narrazioni mitologiche, quali il Monte Scuderi sede di una importante formazione carsica (30), e molti altri il cui insieme probabilmente costituiva una rete di siti dove erano ritenute possibili connessioni con i regni soprannaturali.

D'altronde, si tratta di un territorio dal clima mite, i campi fertili e i grassi pascoli, ricco di sorgenti e affiancato da due fiumare, i grandi boschi dove abbondava la selvaggina, di affioramenti rocciosi contenenti ricchezze metallifere, condizioni che al credente indicavano quanto fosse amato e abitato da misteriose entità telluriche. Difatti, è qui che esse si manifestavano più che in ogni altro luogo, circoscritto dalle manifestazioni vulcaniche dell’arcipelago eoliano e dell’area etnea, dai mari profondi dominati dai mostri Scilla e Cariddi, e devastato da terremoti e maremoti imprevedibili e violenti.

Stabilirsi in questo territorio significava impegnarsi a vivere quotidianamente in un’armonia dinamica, pattuita dalla classe sacerdotale con le entità soprannaturali, osservando un codice comportamentale atto a non attirare la loro ira, rispettando e intensificando all’occorrenza i sacrifici rituali per invocare la loro benevolenza.

Bisogna quindi prendere in considerazione che, nella Sicilia nordorientale, le attività magico-religiose, le cerimonie stagionali, le offerte sacrificali (in questa età, e probabilmente ancora nella Tarda età del Ferro, di Monte Belvedere di Fiumedinisi, anche di giovani vite umane) celebrate dal Gran Sacerdote, la rete di luoghi di culto possano avere determinato, nel periodo compreso dall’Eneolitico Tardo all’Antica età del Bronzo, una forte predisposizione di quest’area al consolidamento del potere teocratico. Condizione verosimilmente concretizzatasi anche nelle Isole Eolie, delle quali ne conserva forse ricordo il racconto omerico, descrivendo le avventure di Odisseo alla corte del re Eolo, colui che dominava i venti, personaggio evidentemente tratto da cronache mitizzate preesistenti all’arrivo dei Greci in Sicilia (31).

Questa situazione perdurò sino all’arrivo di nuove genti, che distrussero l’intero sistema dominante il commercio nel Mediterraneo, forse iniziando proprio dai centri del potere religioso, spezzando nella popolazione le certezze riposte nella fede nell’antica sapienza teocratica, dimostrando così di essere beneficiari di un potere superiore a quello della classe sacerdotale e di quella regnante, eliminati con la violenza.

Da quel che ebbi l’emozione e il privilegio di constatare negli anni 1970, le attività nel centro residenziale di Fiumedinisi vennero stroncate da un improvviso incendio. I reperti mostravano come la vita si fosse spenta per sempre  lasciando le suppellettili in sito, in frantumi forse in seguito a un saccheggio e coperte da uno strato di ceneri, destinandole così a millenni di oblio (32).

 

Note

17 – preferisco adoperare la definizione generica ma flessibile di “regno arcaico” per evitare l’uso di “dominio semplice” e “dominio complesso” (derivati dalla traduzione dall’anglosassone “chiefdom”) in quanto frutto capzioso di strutturazioni schematiche proprie dell’antropologia, inapplicabili all’archeologia per mancanza di dati, approfonditi e verificabili, della realtà propria di ogni sito preistorico soprattutto in un’area come quella della Sicilia nordorientale. 

Circa le definizioni di “chiefdom” e dominio rimando al lavoro: Giusti F., 2002, I primi stati: la nascita dei sistemi politici centralizzati tra antropologia e archeologia, Donzelli ed., Roma.

Con “regno arcaico” intendo una società presente su un dato territorio, costituita da villaggi e insediamenti minori, retta da un capo riconosciuto quale “regnante” per merito di qualità straordinarie, o per diritto di discendenza o matrimoniale, che governa assistito da una élite, ovvero una corte costituita da consiglieri e sacerdoti, e nei villaggi attraverso un suo designato (figura simile a quella del vassallo feudale) che ha anche l’incarico di raccogliere i tributi, amministrando in sua vece. La classe teocratica legata al megalitismo era espressione di un ordine sacerdotale il cui principale compito era missionario e di organismo super partes per bilanciare gli attriti tra regni in funzione del sistema commerciale dominante nel mediterraneo in quella età.

 

18 - Villari P., 1980, Considerazioni sulla presenza di alcuni bronzi in una capanna del periodo di transizione Tardo Eneolitico-Prima età del Bronzo di Fiumedinisi (Messina), in Atti della Società Toscana di Scienze Naturali, Pisa, serie A, n.87, pp. 465-474;. 1981, I giacimenti preistorici del Monte Belvedere e della Pianura Chiusa di Fiumedinisi e la successione delle culture nella Sicilia Nord Orientale, in Sicilia Archeologica, 44-47, pp. 111-121.

19 – Villari P., 1980, Considerazioni sulla presenza…, op cit.;  La successione delle culture… op.cit.; e 1981, Origini e diffusione della cultura di Piano Conte nella Sicilia Nord Orientale, Contributi alla conoscenza del territorio dei Nebrodi, 2, pp. 135-143;

20 – pubblicai il reperto alcuni anni dopo il mio rinvenimento in: 1980, Considerazioni sulla presenza…, op. cit.; 1981, I giacimenti…, op.cit.; La Rosa V., 2004, Le civiltà dell’Egeo. L’età del Bronzo nel bacino dell’Egeo, da “Il Mondo dell’Archeologia”, riproposto on-line in Enciclopedia Treccani. (Incomprensibilmente, il La Rosa usa qui una erronea definizione al femminile (“bilancina”) del termine tecnico da noi adoperato, inesistente in lingua italiana). http://www.treccani.it/enciclopedia/le-civilta-dell-egeo-l-eta-del-bronzo-nel-bacino-dell-egeo_%28Il-Mondo-dell%27Archeologia%29/

21 – di questi esami di laboratorio non mi è nota alcuna pubblicazione. Ne appresi notizia in modo informale, nel 2014, da Lorenzo Guzzardi, a quel tempo direttore della Sezione Archeologica della Soprintendenza ai BB.CC.AA. di Siracusa, dove il reperto era custodito sin dalla mia consegna, avvenuta in quella sede agli inizi degli anni 1980.

22 – Orsi P., 1892,La necropoli di Castelluccio, Bullettino di Paletnologia Italiano, 18, pp. 1-34 e 67-84; Bernabò Brea L., 1964, Poliochni, 1 (1-2), 1-705, 1-471, Roma.

23 – nonostante i successivi interventi dell’attività umana che, probabilmente a partire dall’età ellenistica, hanno condotto alla drastica estinzione dell’antica foresta preistorica che si estendeva sull'intera Sicilia, essa era stata ben poco alterata dalle attività delle popolazioni della tardapreistoria, avendo queste occupato solo piccole aree. 

A Fiumedinisi, ad esempio, erano state adattate ristrette aree per le necessità di pascolo e di coltivazione, in aree collinari e quali quelle della Pianura Chiusa e delle balze a gradoni naturali del Monte Belvedere.

A parte l’utilizzo cimiteriale dell’area nel III secolo a.C. da parte della guarnigione Mamertina che aveva fortificato il Monte Belvedere, il maggiore danno recato al  centro monumentale cerimoniale e a quello residenziale dell'Antica età del Bronzo, è stato quello avvenuto nel 2006, quando fu ruspata parte della principale area cerimoniale preistorica e cementificati i ruderi del Castello Belvedere, giungendo persino a stipare e seppellire immondizie tossiche nel sotterraneo, probabilmente un ipogeo utilizzato per culti di divinità ctonie in età classica. Queste sostanze potrebbero essere percolate nei paleosuoli presenti all’interno della cavità, inquinandoli irrimediabilmente e producendo anche danni ai reperti di origine organica in essi conservatisi quali resti scheletrici di animali, pollini e carboni.

24 – I resti di questa struttura di aspetto megalitico sono situati al termine dell’antico sentiero lungo la dorsale collinare che dalla vetta del Monte Belvedere conduceva alla costa che sovrasta l’attuate abitato di Nizza di Sicilia. L’opera domina un ampio tratto della costa ionica messinese tra i Capi Alì e Sant’Alessio, e la foce  dei torrenti Landro e Fiumedinisi. La base è certamente la più antica, costituita da un perimetro di blocchi litici, i due gradoni superiori sembrano rimaneggiati in età successive sino a fungere da base di una torretta di avvistamento probabilmente a impalco ligneo, più volte eretta e ricostruita sin dall’età greca e certamente sino al corso del XVII secolo.

Negli anni 1970, presso il lato rivolto alla costa e lungo il pendio sul lato occidentale rinvenni molti frammenti ceramici, che accumulai in un anfratto del luogo per evitare che andassero perduti in uno dei magazzini della soprintendenza, come a quel tempo accadeva ai frammenti considerati di scarso interesse artistico, essendo gli spazi dei pochi magazzini piuttosto limitati e sia per ovviare alla penuria di cassette lignee nelle quali venivano conservati. Li recuperai agli inizi degli anni 2000 consegnandoli al Museo Civico di Nizza di Sicilia da poco costituito. In massima parte risultavano appartenenti alla stessa facies culturale dell’Antica età del Bronzo, presenti presso la vetta di Monte Belvedere di Fiumedinisi e alcuni appartenenti a anfore acrome di età ellenistica, romana, e brocche smaltate d’età postmedievale. 

Nonostante i miei avvertimenti alle locali Autorità di appartenenza per loro competenza istituzionale, e una relazione inviata alla O.L.A.F. di Bruxelles, organismo antifrode della Commissione Europea, il sito è stato purtroppo interessato dai lavori di sistemazione dell’area adibita con consistenti fondi pubblici a “Parco suburbano Rocca di Buticari”. È probabile che sia stata così gravemente compromessa sia la sopravvivenza di monumenti e altre evidenze di età preistorica e storica e quindi l'intera gamma di attività di ricerca scientifica d'interesse archeologico, confermando quanto l’arroganza dei politici e dei burocrati sia spesso la peggiore nemica del patrimonio culturale siciliano e delle attività economiche produttive ad esso collegate.

25 – il saggio fu eseguito in seguito nel 1976, dopo il crollo di un breve tratto di un muro a secco medievale che aveva rivelato la presenza della stratigrafia preistorica e di abbondanti resti ceramici preistorici. Esso interessò un’area di circa un metro quadro, necessario a verificare la situazione stratigrafica e la presenza della struttura insediativa ai fini della emanazione degli atti necessari alla tutela del sito, purtroppo sino ad oggi mai effettuati. 

Nel 1981 venni informato di sondaggi eseguiti alcune settimane addietro dall’ex proprietario del fondo che dal 1975 mi aveva concesso di effettuare liberamente le ricerche nelle sue proprietà. Si trattava di un personaggio di notevole e controverso potere, Mario La Rosa, a quel tempo già addetto stampa presso la Presidenza della Repubblica Italiana, che in seguito scoprii strettamente legato a ambienti dell’Ambasciata statunitense a Roma e da diversi anni professore di Storia Moderna all'Università di Washington. Dopo avere ricevuto una mia monografia e un articolo pubblicato su una rivista specialistica dedicati ai miei ritrovamenti nel sito di sua proprietà, il La Rosa si era rivolto a un esperto in pozzi, in quanto desiderava eseguire dei carotaggi per constatare le dimensioni del deposito, che poi ampliò in sondaggi utilizzando contadini locali.

Era così giunto alla conclusione che la piccola area da me scoperta e pubblicata fosse effettivamente parte di un complesso abitativo e che come da me indicato, occupava un’ampia superficie, in parte sconvolta o distrutta da interventi operati nel corso dell’occupazione militare Mamertine e del terrazzamento medievale. Negli anni seguenti il sito fu devastato da ignoti che divelsero gran parte del muro a secco, spingendosi a scavare lungo tutto il fronte, distruggendo anche parte di quanto avevo già messo in luce al momento della scoperta e subito interrato.

Le operazioni di pulitura effettuate nel 2008 dalla University of South Florida, da me dirette, rimossero le macerie di quegli anni di scempi. La Fig.10 rende idea non solo del danno arrecato ai resti del monumento, ma anche della presenza del muro perimetrale e dei crolli subiti in antico. Fortunatamente, il resto del sito del quale rimangono alcune decine di mq è ancora oggi indenne: i futuri scavi certamente riveleranno una grande messe di reperti e informazioni.


Fig. 10 - Monte Belvedere, Giugno 2008. L'area residenziale dell'Antica età del Bronzo dopo la pulitura dagli sterri clandestini degli anni 1980. In primo piano le evidenze di muri e di crolli dovuti alla distruzione violenta del sito, probabilmente avvenuta nel corso del XVI secolo a.C. I reperti ceramici e ossei messi in luce dalla pulitura dell'area erano stati rimossi una settimana addietro per motivi di salvaguardia, trattandosi di un'area disabitata e non protetta. Foto dell'Autore, Giugno 2008. Tutti i diritti riservati.


26 – le prime tracce della cultura del Milazzese furono rinvenute nelle Isole Eolie e indagate da Luigi Bernabò Brea e da questo pubblicate: 1957Sicily before the Greeks, Thames & Hudson, London; 1986, Gli Eoli e l’inizio dell’età del Bronzo nelle Isole Eolie, Colloque d’histoire et d’archeologie de Bastia, III (1985), pp. 145-153; 1991, Meligunis Lipara VI – Filicudi. Insediamenti dell’età del  Bronzo, Palermo. 

Gran parte delle scoperte preistoriche nel centro urbano di Messina furono effettuate tra gli anni 1960 e 1970 grazie all’opera appassionata di Franz Riccobono, dell’Istituto di Geologia e Paleontologia dell’Università di Messina, che si recava nei cantieri edili per salvare memoria di quanto i palazzinari stavano distruggendo, indisturbati: la presenza di importanti testimonianze archeologiche, in seguito ricordate nel suo: 1975,  La storia ritrovata. 1965-1975: Dieci anni di ricerca archeologica a Messina, monografia, Messina, pp.1-67.

27 – per una introduzione allo Sciamanesimo, rimando ai lavori: James W., 1902, The Varieties of Religious Experience, London;  Eliade M., 1972, Shamanism: Archaic Techniques of Ecstasy. Princeton University Press; Emboden W.,1989, The Sacred Journey in Dynastic Egypt, in Journal of Psychoactive Drugs, vol 21(1, gennaio-marzo); Seymour-Smith C., 1991, Dizionario di Antropologia (v. Sciamanesimo),Sansoni Ed., Firenze, p.359; Conkey et al. (eds.), 1997, Beyond Art: Pleistocen Images and Symbol, Memoires of the California Academy of Sciences, XXIII, San Francisco, p. 231; Clottes J., Lewis-William D., 1998, The Shamans of Prehistory: Trance and Magic in the Painted Caves, New York; Ripinsky-Naxon M., 1998, Shamanistic Knowledge and Cosmology, in Wautischer H. (ed.), Tribal Epistemologies: Essays in the Philosophy of Anthropology, Aldershot; Price N. (ed.), 2001, The Archaeology of Shamanism, Routledge, London;   Shanon B., 2002, The Antipodes of the Mind: Charting the Phenomenology of the Ayahuasca Experience, Oxford University Press; Hancock G., 2006, Sciamani. I Maestri dell’Umanità, TEA, Milano; Stavros G., 2017, Sciamanesimo. Viaggio nel mondo dello spirito, Milano.

28 – vedasi in particolare i miei articoli: 1980, “Considerazioni… “, op.cit.; 1981, “I giacimenti…”, op cit.; 1984, Il rito dell’enchytrismòs nella Sicilia Nord Orientale (Antica età del Bronzo – Tarda età del Ferro), in The Deya Conference of Prehistory (British Archaeological Reports 229), Oxford, pp.465-486, dove avanzo l’ipotesi che in questa età i defunti fossero oggetto del rito dell’incinerazione.

29 – rimando alle notizie preliminari pubblicate in: 1980, Considerazioni sulla presenza…, op. cit.; 1981, I giacimenti…, op.cit. Tuttavia, nel corso degli anni 1980, quando in un'altra area (inedita) localizzai tracce di un insediamento del Neolitico Antico, fui sorpreso dalla presenza di resti di frammenti rocciosi contenenti carbonati di rame (malachite e azzurrite), estranei alla geologia del luogo. È quindi probabile che estrazioni minerarie fossero praticate a Fiumedinisi sin dal Neolitico Antico.

30 – Berdar A., Riccobono F., Schipani de Pasquale R., 1995, Monte Scuderi: la montagna del tesoro, Vol. 12 della collana “Messina e la sua storia, ed. EDAS, Messina, pp. 1-163

31 – per l’epopea delle prime grandi navigazioni nel Mediterraneo rimando a: Bernabò Brea L.,1957, Sicily before Greeks, op. cit.

32 – che non si tratti delle conseguenze di un violento terremoto, spesso associati a incendi a causa dell’uso di focolari domestici all’interno delle strutture capannicole, lo dimostra il fatto che il centro non venne ricostruito e che i superstiti non tornarono a raccogliere quanto recuperabile. Mi riferisco a quanto raccolsi nella piccola area da me esplorata negli anni 1970, ad esempio un intero set di oggetti da lavoro in osso, costituiti da spatole, punteruoli e aghi, o diverse asce e macinelli ottenute su rocce metamorfiche non presenti in Sicilia, o al frammento del gioco di bilancino in bronzo, a quel tempo certamente un bene prezioso. Se vi furono superstiti, quindi, questi non tornarono nel sito in quanto fuggiti o deportati in aree molto lontane.

  

Archaeological Centre-Villari Archive: pubblicazioni scientifiche

In questa sezione è presentata una selezione di pubblicazioni scientifiche di Pietro Villari (monografie, articoli editi da riviste speciali...