di Pietro Villari
27 Settembre 2020, ore 7:54
Accompagnato da nuove informazioni e considerazioni, ripubblico questo mio
articolo scritto nel 1989 e rifiutato dai Media sino all’ottobre 1998, quando
fu accolto dalla rivista “Grifone” (1). Si tratta di due vicende
“convergenti” tipicamente siciliane, illuminanti testimonianze per comprendere
come il malaffare gestito dai “colletti bianchi” abbia nell’Isola radici
antiche, che nessun governo ha mai voluto estirpare.
Due esempi, quindi, tra i tanti ignorati da coloro che, per competenza
Istituzionale, avrebbero dovuto quanto meno investigare. E invece nulla, ieri
come oggi generazioni di servitori risoluti a mantenere l’avido sguardo sugli
avanzi che i padroni usano gettare nella loro scodella. E quel sinistro
silenzio, che conta più di mille parole, attuato dalla Stampa di regime e della
cosiddetta Opposizione, in certi casi con modalità che considerata
la pubblica visibilità delle azioni criminose e delle somme di denaro pubblico
elargite, rivelano la tragica fondatezza della convinzione, propria di tutti i
personaggi coinvolti, di godere di una sorta d’impunità garantita dal sistema
dominante ai suoi fedeli. Eppure, non di rado si tratta di situazioni che
straripano in parossismi surreali.
Nei corso dei decenni successivi alla pubblicazione dell’articolo, acquisii
ulteriori informazioni anche da alcuni dirigenti regionali che, come lumache
uscite in giardino dopo una tempesta, si lasciavano andare a qualche commento
ben sapendo che i personaggi-chiave delle due vicende erano ormai “usciti di
scena”, deceduti in tutta tranquillità dopo aver goduto il frutto del loro
operato. In Sicilia, “quannu mori ‘u cani, mori ‘a raggia (quando
muore il cane, muore la malattia della rabbia silvestre).
Fu soltanto allora che appresi di avere rischiato molto, procedendo in modo
incauto nella ricerca dei meccanismi e dei nominativi dei personaggi
implicati nei due “affari” qui presentati (2). Ero
arrivato vicino ad entrare in possesso di alcune fotocopie di ricevute bancarie
che, mi fu detto, avrebbero condotto agli acquisti di due immobili (“due
ville”) nell’Isola di Pantelleria, effettuati alla fine degli anni 1980, e
al nominativo di un funzionario per anni nel gruppo di potere al vertice
dell’Amministrazione Regionale siciliana (3).
Nel caso della statua in bronzo, bisognava vagliare la possibilità che
l’acquisto fosse un escamotage ideato per il pagamento di
una grossa tangente a un alto dirigente regionale, mentre l’acquisto della
collezione Pennisi rivelava uno sperpero di denaro pubblico a beneficio
di parenti, che coinvolgeva direttamente il governatore siciliano di quel
tempo. Nell’operazione comparivano i nominativi di alcuni noti accademici e del
soprintendente ai BB.CC.AA. di Siracusa, Giuseppe Voza. Questi si
distinse in quegli anni (1986-1988) anche per il ruolo avuto nella distruzione,
rimasta impunita, di parte dell’importante giacimento paleontologico e
della necropoli monumentale di età greca e romana di Contrada Fusco, vicenda
oggetto anche di un illuminante articolo di Fabrizio Carbone pubblicato nel
1989 dal settimanale “Panorama” (4).
In “Saldi archeologici: il guerriero di bronzo” puntavo a indicare
non soltanto l’esistenza di prove concrete relative a sperperi d’ingenti somme
di denaro da parte del governo regionale, quanto piuttosto il sospetto che vi
fosse una curiosa sorta di impunità, costantemente riservata a politici e funzionari
quando trattarsi di misfatti pertinenti ai beni archeologici siciliani.
Pur essendovi implicati accademici e burocrati isolani di massimo rilievo,
oggi queste due vicende non rappresentano nemmeno dei “cold cases”, in
quanto non furono degnate dell’apertura di un’inchiesta non dico dalla
magistratura, ma nemmeno da una soltanto delle grandi testate giornalistiche di
quel tempo alle quali mi rivolsi. Bisogna anche ricordare che, negli anni 1990,
due coraggiosi Sostituti Procuratori della Repubblica, rispettivamente Angela
Pietroiusti del Tribunale di Siracusa e Lorenzo Matassa del Tribunale di
Palermo, dopo essersi occupati con successo di due diverse vicende aventi per
oggetto l’operato della Soprintendenza diretta dal Voza, furono trasferiti a
Firenze per incompatibilità ambientale. Solo il giudice Matassa rientrò molti
anni dopo in Sicilia, quando il Voza era ormai stato collocato in pensione. La
Pietroiusti rimase a Firenze, sussistendo in Siracusa il pericolo per la sua
incolumità, in particolare per evitare la possibilità che la mafia organizzasse
un secondo attentato (il primo era stato disinnescato per tempo da un
componente della sua scorta: un ordigno in Tribunale, collocato sotto
la sua poltrona sarebbe esploso a contatto) (5) .
In quegli anni di stragi dette di mafia, ma in realtà connesse
all’insorgenza di un periodo di lotte di potere all’interno del Deep State
regionale che riflettevano assestamenti nella rete soprannazionale, mi trovai
purtroppo l’unico tra gli studiosi siciliani nel settore dei beni archeologici
a tentare di approfondire le conoscenze e pubblicare gli scempi, le corruzioni
di ogni sorta, cercando di mettere in luce le squallide dinamiche che
coinvolgevano tecnocrati siciliani del settore dei beni culturali, le forme di
connivenza che conducevano anche al totale silenzio del mondo accademico e dei
Media. Ciò venne giudicato dai colleghi quale un comportamento non etico in
quanto anti-corporativo, tradendo una sorta di consegna del silenzio che a me
appariva e appare a tutt’oggi quale omertà di stampo mafioso.
In ambito regionale l’articolo “Saldi archeologici” venne rifiutato,
per motivi che a quel tempo mi sfuggivano non conoscendone la loro tragica
contestualità. Il punto più profondo della mia delusione lo raggiunsi quando il
rifiuto arrivò agli inizi del 1990 persino da un quotidiano palermitano a quel
tempo considerato implacabile oppositore del malaffare in Sicilia, L’Ora,
pur avendo l’anno precedente questa pubblicato un mio articolo sulla disastrosa
vicenda di contrada Fusco. Il diniego forse nacque dal fatto che nel caso di
quell’immenso scempio, l’articolo aveva accentuato divisioni e scontri
all’interno dei vertici regionali e nazionali del Partito Comunista Italiano e
una serie di interpellanze sulle distruzioni degli importanti reperti e del
sito presentate da autorevoli uomini politici sia al Parlamento regionale che a
quello nazionale (6). Il P.C.I. si dissolse poco tempo dopo, nel
febbraio del 1991, e gran parte dei suoi membri afferirono a una nuova forza
politica di stampo socialdemocratico filo-occidentale, che era notevolmente
cresciuta negli anni seguenti all’improvvisa morte del segretario Enrico
Berlinguer avvenuta nel 1984.
Rifiutato anche da molti quotidiani e settimanali nazionali ai quali lo
avevo proposto, riuscii a pubblicarlo con dieci anni di ritardo il 31
ottobre 1998 in “Grifone” (7), la rivista bimestrale edita dall’Ente Fauna
Siciliana (affiliato alla Federazione Nazionale Pro Natura) del quale
anni dopo diressi la sezione di Messina. In quegli anni, la rivista pubblicò
una serie di miei circostanziati articoli da altre redazioni ritenuti non
pubblicabili.
Il direttore responsabile della rivista era Bruno Ragonese, noto naturalista e ambientalista con il quale avevo stretto amicizia nel
1988, quando assieme ad altri studiosi venne a trovarmi nel corso dei lunghi
mesi di scavi operati sotto la mia direzione scientifica nella Grotta
Spinagallo presso Siracusa. Condividevamo la stessa impietosa visione della
situazione siciliana e le identiche speranze infrante degli ideali politici
della giovinezza. Bruno era un uomo d’azione, di grandi capacità organizzative
e dal coraggio temerario, e fu sino alla fine uno di quei rari oppositori,
autentici e irriducibili del sistema dominante in Sicilia, anch’egli come me e
pochi altri non esentandosi dal pagarne costantemente e infine in modo grave le
conseguenze (8).
L’articolo pubblicato
La cosiddetta legge sulla
trasparenza, quella che apre i pubblici archivi al cittadino comune, è una
pietra miliare nel lento processo di trasformazione in corso nel nostro
Paese. È sulla base di questa legge che possiamo oggi effettuare
ricerche, ad esempio, su decreti assessoriali emanati in Sicilia nel corso
degli anni ottanta, a quei tempi pubblicati con scarsissime informazioni sulla
Gazzetta Ufficiale regionale.
Oggi le Gazzette Ufficiali
rappresentano una vera miniera di dati per chi vuole conoscere come la Regione
Siciliana ha elargito il denaro dello Stato ai fini della pubblica utilità.
Premettiamo di essere interessati
esclusivamente a vicende inerenti alla tutela ed alla valorizzazione di beni
archeologici, operate dal competente Assessorato Regionale ai Beni Culturali e
per la Pubblica istruzione: da circa un decennio stiamo lentamente ricostruendo
la trama di personaggi e fatti che hanno caratterizzato gli ultimi
cinquant’anni dell’archeologia siciliana.
Una ulteriore premessa. La legge
regionale n.80 del 1977 stabiliva la procedura secondo la quale i decreti
assessoriali in materia di BB.CC.AA. dovevano essere presentati alla Corte
dei Conti per la registrazione, ovvero essere sottoposti al giudizio
di merito e di legittimità. Sorprendentemente, nel 1986 una legge regionale ha
stabilito che tali decreti possono essere direttamente registrati presso la
Ragioneria Centrale del competente Assessorato, la quale entro un certo periodo
di tempo ha obbligo di trasmetterli a consuntivo alla Corte dei Conti.
Esaminiamo il supplemento
della Gazzetta Ufficiale della Regione Siciliana del 10.09.1988 n.
39. Scorrendo il lungo elenco di somme elargite e qui sommariamente
rendicontate dall’Assessorato Regionale ai BB.CC.AA. e P.I., le cifre a nove
zeri evidenziano la presenza di due importanti voci relative all’acquisto di
reperti di interesse numismatico ed archeologico, entrambe oggetto del D.A.
4636 del 31.12.1986.
La prima è pertinente alla somma
di lire 4.145.000.000 pagata dalla Regione per l’acquisto dei relitti
della collezione numismatica Pennisi di Floristella (1.600 pezzi degli
originali 30.000). La cifra è certamente notevole e forse determinata
dal fatto che nella valutazione è stato considerato anche un presunto valore
storico rappresentato dall’insieme.
Da un punto di vista
storico-collezionistico, difatti, il valore aggiunto può essere motivato solo
dalle indicazioni circa la storia di ogni singolo pezzo, contenente cioè anche
notizie quali le modalità di ritrovamento e la provenienza, che solo il collezionista
può fornire. In breve, morto questi, l’insieme perde dell’interesse storico se
non supportato da una solida documentazione. Mancando questa, non vi è alcuna
differenza con gli insiemi periodicamente in vendita presso una qualsiasi Casa
d’Aste specializzata in numismatica.
Il problema è stato
autorevolmente affrontato ne “Il Giornale dell’Arte” che ha
recentemente dedicato una approfondita analisi (ottobre 1998, n. 170).
In definitiva, a nostro avviso il
gruppo di monete acquistate dalla Regione Siciliana non rappresentano una
collezione nel pieno senso qualitativo e storico del termine. Di conseguenza,
il decreto assessoriale soffre di una generale sopravvalutazione qualitativa
che presumiamo avrà influito sulla stima del valore.
A parte quel che è già stato
scritto della vicenda, quel che più ci stupisce è che nessuno ha dato
spiegazione del motivo per il quale i funzionari della competente
Soprintendenza o dell’Autorità Giudiziaria all’uopo preposti, si siano mai
attivati per conoscere dove fossero finite le splendide monete della Collezione
Pennisi pubblicate dal Rizzo negli anni Quaranta.
Pregevoli monete dichiarate
appartenute a tale collezione sono notoriamente da anni battute da diverse Case
d’Aste straniere.
Continuando a scorrere l’elenco
della Gazzetta Ufficiale del 10.09.1988, segue la voce relativa all’acquisto
di una statua di guerriero in bronzo di età greco-arcaica, di
proprietà di tale avv. Domenico La Malfa (nominativo ignoto ai collezionisti
siciliani). Deve trattarsi di un reperto di rilevante valore storico-artistico
se dieci anni orsono la Regione Siciliana ritenne opportuno sborsare la somma
di lire 2.500.000.000 per acquisirla al patrimonio pubblico. Consideriamo,
con le dovute distinzioni pertinenti al fatto di trovarci innanzi a una statua
di età arcaica, che la grande statua di età ellenistica raffigurante un satiro
danzante, recentemente rinvenuta nel Canale di Sicilia, è stata valutata lire
1.300.000.000.
Desidereremmo tanto vedere questa
preziosa statua e chiediamo all’Assessorato Regionale ai BB.CC.AA. di poterci
gentilmente indicare in quale museo sia esposta o custodita. Se possibile,
desidereremmo anche conoscere chi effettuò la perizia e la relazione tecnica in
base alla quale è stato disposto l’acquisto.
Settembre 2020: rinvenendo l’articolo in una vecchia carpetta
Scoprii la vicenda del “guerriero di bronzo” per fortunata
coincidenza nel settembre del 1988, scorrendo la Gazzetta Ufficiale della
Regione Siciliana, dove nel lungo elenco delle somme spese dall’Assessorato
Regionale per i BB.CC.AA. saltava all’occhio la sequenza di due imponenti somme
a nove zeri che il decreto assessoriale disponeva per l’acquisto sia dei resti
della collezione numismatica del Barone Pennisi di Floristella e,
contemporaneamente, della statua arcaica in bronzo raffigurante un guerriero.
Come sopra accennato, tra il 1989 e il 1997 non ero riuscito a convincere alcun
direttore di una qualsiasi testata giornalistica a pubblicare quel poco che
avevo appreso della vicenda.
Tornai alla carica nei primi mesi del 1998, quando ebbi la fortuna di
studiare il voluminoso contenuto di un faldone, che alla redazione di “Grifone”
si presumeva proveniente dall’archivio di un anziano personaggio siciliano di
potere della Prima Repubblica. Un pezzo da novanta, come si dice
nell’Isola, evidentemente dedito da lungo tempo a quel cosiddetto collezionismo
di dossier che da alcuni secoli permette a generazioni di tipi del genere,
associazioni e apparati dello Stato di formare archivi segreti non soltanto in
grado di proteggerli, ma soprattutto di ricattare o, in casi estremi, di
azzerare lo status sociale dei loro nemici.
Il faldone era stato inviato a Bruno Ragonese, evidentemente conoscendo che
questi non l’avrebbe tenuto in un cassetto per proprio tornaconto e che sarebbe
partito a testa bassa, come un toro alla vista di un drappo color sangue. Dopo
averlo visionato e constatato che trattava di beni archeologici siciliani,
Bruno mi invitò a dargli un’occhiata in tutta segretezza e a garantirgli che
avrei tirato fuori quanto ritenessi di pubblica utilità.
Si trattava di una ingente mole di documenti di varia provenienza che, a
quel tempo, coprivano quarant’anni di storia siciliana, dando una chiara idea
dei rapporti di diffidenza tra le varie istituzioni statali in Sicilia, e
il modus operandi di tutto riguardo che queste istituzioni
riservavano alle famiglie legate al sistema di potere dominante o da questo
“rispettate”.
D’accordo con il Ragonese dapprima tentai di pubblicare la prima parte su
varie testate giornalistiche badando di mostrare solo un riassunto
in cinque righe, ma come avevamo già previsto ricevemmo solo rifiuti, in un
caso persino il tentativo di acquisto della documentazione
originale. Alla fine decidemmo che la vicenda della collezione
Pennisi di Floristella conteneva una tale mole di informazioni su quanto
avvenuto ai beni culturali siciliani che doveva essere tramandata ai posteri.
Ci accordammo quindi di dividerla in due lunghi articoli, pubblicati da
“Grifone” dopo essere stati visionati da due avvocati di fiducia del
Ragonese (9).
Gli articoli ebbero un’inaspettata diffusione negli ambienti del potere,
soprattutto trasmessi via fax o in fotocopie passate brevi mano. Assieme a “Saldi
archeologici: il guerriero di bronzo” e altri che sfornai in quegli anni,
questi scritti riuscirono a ottenere l’effetto (oggi impensabile) di un sasso
gettato nelle putride acque di uno stagno, immobili da tempo immemorabile, in
quanto colpivano (in Sicilia!) i vertici della burocrazia, dipartimenti
universitari, soprintendenze ai beni culturali e ambientali, e ancora uffici
giudiziari, caserme, logge massoniche, persino autorità ecclesiastiche. I meno
accorti ritenevano che avessi preso visione di un archivio di chissà quali
altri segreti inconfessabili correlati di liste di nominativi da mettere alla gogna.
La cosa ebbe anche un risvolto divertente quando la redazione di un
quotidiano siciliano giunse a inviarmi a domicilio una procace giovane
praticante giornalista che, in mille modi, tentò di farmi sussurrare i presunti
segreti presenti nel dossier. Gradii molto i generosi ma inutili sforzi della
giovane, che mi tornarono in mente anni dopo quando lessi su una rivista del
suo matrimonio con il figlio di un uomo di potere siciliano.
Innanzi a quei pochi personaggi che considera ostili, il sistema ancor oggi
reagisce dapprima con la massima circospezione, chiudendo tutte le possibilità
di collaborazione professionale con Istituzioni pubbliche scrivendo il nome sul
libretto nero regionale dei proscritti e avvisando i media controllati dal
regime. Contemporaneamente viene avviata una stretta attività di monitoraggio e
di dossieraggio che coinvolge l’intera vita professionale e
privata, attuale e trascorsa dell’attenzionato. Se si constatata
l’assenza di valide “coperture”, viene deliberato se lasciare carta bianca agli
specialisti dell’omicidio o a quelli del discredito finalizzato alla morte
sociale. È interessante notare il ruolo delle logge massoniche e
altri club-service controllati dal potere dominante, essendo questi in grado di
raccogliere in breve tempo informazioni richiedendole ai personaggi
appartenenti a tutte le Entità che vi sono rappresentate. In breve, i dati sono
inviati al profiler e agli operativi incaricati delle varie
attività di neutralizzazione dell’attenzionato.
“Grifone”, dicembre 1998: quando giunse la minaccia di guai giudiziari
Era ovvio a tutti, conoscenti e amici, che prima o poi mi sarebbe accaduto
qualcosa di ulteriormente spiacevole, un peggioramento di quanto in Italia mi
aveva con inesorabile e veloce gradualità isolato professionalmente sin dal
1989, affinché non fossi più in condizioni di provocare altri problemi al
sistema. Si verificarono quindi una serie di fatti interessanti per comprendere
alcune sue modalità operative per intimidire e neutralizzare.
A circa un mese e mezzo dalla pubblicazione dell’articolo “Saldi
archeologici: il guerriero di bronzo” e a tre mesi e mezzo dalla
pubblicazione della prima parte della vicenda dell’acquisto della Regione
Siciliana dei miseri resti della collezione numismatica Pennisi di Floristella
(il 5,33%, dell’originaria collezione, in pratica le monete rifiutate
dal mercato internazionale di alto livello nel corso della seconda metà del
Novecento…), e dopo due decenni di inconcludenti attività svolte dalla
Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Siracusa (già Soprintendenza
ai Beni Archeologici per la Sicilia Orientale) nei confronti dei Pennisi, a
metà dicembre 1998 Giuseppe Voza in qualità di soprintendente inviò una missiva
alla Redazione di “Grifone”.
Bruno Ragonese, direttore responsabile della rivista, non era tipo da farsi
intimidire e rispose pubblicamente con grande fermezza come ancora era
possibile a quel tempo, prima della serie di leggi-bavaglio a giornalisti e
editori, con un articolo pubblicato sul suo “Grifone” in data 31 dicembre
1998 (10). Ne riporto qui alcuni stralci per ricordare come ancora
fosse possibile esprimere senso civico in quegli anni e come difendemmo la
libertà d’espressione:
“Il
Soprintendente Giuseppe Voza vuole sapere come, da chi e perché abbiamo
avuto la documentazione che ci ha consentito di pubblicare La vera
storia della collezione numismatica dei baroni Pennisi… collezione recentemente
venuta alla ribalta della cronaca per fatti legati a traffici
internazionali, alienazioni ed illegali vendite all’asta di importanti monete
della Sicilia.
Per fornirgli
quanto richiesto, il Soprintendente Voza ci dà dieci giorni di tempo (a
partire dal 17/12/1998), scaduti i quali procederà a termini di legge.
L’ultimatum del Soprintendente Voza, il quale sa bene che
non siamo tenuti a rivelare la fonte delle nostre informazioni, proprio perché
la legge salvaguarda la ricerca giornalistica, non ci turba, né ci
impressiona, né – soprattutto – ci fa desistere dal pubblicare, come
abbiamo preannunciato, la seconda parte della storia, che riguarda il
periodo in cui la collezione Pennisi fu acquistata dalla Regione Siciliana,
cioè quando era già Soprintendente di Siracusa il dott. Giuseppe Voza.
Tutti sanno,
fin dai tempi delle appassionanti lotte per Vendicari, che non è facile
impressionarci, che già altre volte abbiamo avuto rogne con la
giustizia per avere pubblicato la verità, ma siamo sopravvissuti, siamo ancora
in prima linea a combattere contro coloro che, preposti alla tutela del
patrimonio culturale della Sicilia, lo hanno svenduto, disperso,
contrabbandato, rubato al suo popolo”.
Anche se con un anno e mezzo di ritardo, “Grifone” riuscì a pubblicare la
seconda parte della vicenda della collezione Pennisi, quella più densa di fatti
d’interesse criminologico. Desidero evidenziare che nonostante la gravità delle
notizie fornite dalla documentazione e i nominativi di personaggi di potere
rivelati dall’articolo, la redazione lo accettò così come era avvenuto con il
primo, entusiasta, pubblicandolo senza disporre o suggerirmi alcuna modifica.
Fare “terra bruciata”, simbolo di morte sociale
Dopo qualche tempo dalla pubblicazione, la proprietà terriera di Bruno Ragonese,
contenente tra l’altro il centro di cura per uccelli selvatici feriti dai
bracconieri, fu in parte devastata da un incendio doloso. L’abitazione di
Bruno, che vi viveva con la moglie, e la grande biblioteca naturalistica in
essa contenuta lungo le pareti di quasi tutte le stanze si salvarono per
l’intervento di parenti e amici che crearono un ampio spazio tagliafuoco.
Un nostro tesserato mi telefonò la notizia e dall’Olanda raggiunsi la
Sicilia in auto, come a quel tempo mi avventuravo spesso per motivi
professionali durante l’anno, preferendola all’aereo. Circa una settimana dopo
mi recai quindi a fargli visita per manifestargli la mia vicinanza.
Mentre stavamo discutendo dei danni alla proprietà e di come affrontare la
situazione, fummo raggiunti da un personaggio che ben conoscevo sin dal 1976,
trattandosi di un anziano dirigente della Soprintendenza siracusana. Nella
seconda metà degli anni 1980 mi aveva proposto di entrare a fare parte di una
loggia massonica siracusana, offerta che avevo declinato con le stesse modalità
che in seguito adoperai nei confronti di una loggia milanese, in seguito
all’invito di un parente acquisito. Con Bruno si erano frequentati sin da
ragazzi, rapporti poi raffreddati da diverse scelte di vita. Era accompagnato
da un giovane che mi fu presentato quale uno dei nuovi tecnici assunti dalla
Soprintendenza, un tipo vestito di nero e il corpo deformato da depositi adiposi.
Mi colpì il fatto che l’anziano provò dapprima in diversi modi di sondare
una mia reazione ai suoi segnali di identificazione massonica, forse per
eliminare l’eventualità che avessi aderito a una “famiglia” all’Estero. Non
ricevendo risposta, cambiò atteggiamento e rinnovò la richiesta del
Soprintendente di ottenere il nominativo di chi aveva consegnato il dossier e
se vi fossero altre rivelazioni in corso di pubblicazione. Ragonese intervenne
a chiarire che la documentazione gli era anonimamente pervenuta in un plico,
via posta, e gli mostrò l’involucro affrancato, recante il timbro postale di
Palermo.
Una donna che si occupava assieme ad altri volontari della rimozione dei
resti dell’incendio nella parte esterna alla proprietà mi informò
che, prima di andare via, l’anziano funzionario aveva annotato su un foglio
alcune informazioni circa la mia auto con targa olandese. L’anno seguente mi fu
recapitata (all’indirizzo siciliano di una mia familiare!) una multa per
eccesso di velocità eseguita in quel giorno, a quell’ora e in quella località,
e fatto che rendeva ancor più degradante la vicenda, la multa risultava
fortemente maggiorata di alcuni mancati pagamenti, pur non avendo io mai
ricevuto alcun avviso.
L’avvento dell’ordine degli “aristoi” sopranazionali
Nei miei quattro lunghi articoli che ad oggi costituiscono la serie “La
Tecnocrazia e il Sistema di Potere siciliani” postati su questo blog ho
cercato di inquadrare, anche tramite la narrazione di vicende, i principali
problemi che impediscono ancor oggi un corretto svolgimento della vita sociale
siciliana. Gli articoli sono il frutto di oltre un trentennio di esperienze
dirette, sia private che professionali e di accurate raccolte d’informazioni,
incontrando innumerevoli volte personaggi ben addentro ai meccanismi della
cosiddetta Prima Repubblica.
Pur assumendo un nuovo aspetto, dagli inizi degli anni 1990 il “sistema”
dominante in Sicilia è rimasto vassallo dell’imponente rete del Blocco
Occidentale. Esso è ancor oggi lasciato più o meno libero di gestire il
patrimonio dell’Isola a propria discrezione, ma nel pieno rispetto delle
necessità dell’Autorità militare statunitense che dal 1943 vi ha fondato basi
militari oggi in forte espansione. Così i poteri forti siciliani hanno visto
ampliare le concessioni e le garanzie precedentemente elargitegli, dal 1860 al
1943, da tutti i governi di Sinistra e di Destra succedutisi durante il regno
dei Savoia.
La disastrosa scelta di accordare mano libera amministrativa ai “vassalli”
(le Cinque Entità o Poteri Forti che compongono il Deep State regionale
siciliano) ha creato una situazione che, oltre a svilire l’autorevolezza dello
Stato Italiano, ancor oggi interviene puntualmente con pesantissime vessazioni,
non soltanto su tutte le pubbliche attività economiche e politiche, ma anche su
quelle private che il comune cittadino s’avventura a intraprendere quando non
protetto da una delle componenti della piramide del potere.
Tuttavia, la progressiva infiltrazione di gruppi finanziari stranieri
potrebbe determinare un interesse di questi anche nello sfruttamento economico
dei beni culturali e ambientali siciliani, divenendo in un prossimo futuro
oggetto di operazioni finanziarie di grande impatto, garantite dalla protezione
del network Deep States europeo. Il pericolo dell’avvento di un periodo di
imponenti programmi speculativi, per intenderci del tipo operato ad esempio
nelle Isole Canarie, scaturirebbe non solo dai danni sofferti da aree
d’interesse archeologico, paesaggistico e ambientale, ma anche dalle modalità
di gestione delle spese per la tutela e la valorizzazione per finalità di
crescita e sfruttamento in tutte le stagioni di grandi flussi turistici,
captando anche gran parte degli ingenti fondi provenienti dalla comunità
europea destinate alla popolazione locale.
Ma in questo quadro già allarmante vi sarebbe un pericolo ancora maggiore
per la società siciliana. Ormai, le tecniche per legalizzare ingenti quantità
di denaro provenienti da attività illecite e l’assenza di adeguate risposte
degli Stati, sono tali da permettere impuni investimenti persino in grandi
opere private di grande impatto pubblico, al punto da rendere difficilmente
evitabile una sempre più forte presenza di grandi organizzazioni criminali nel
mercato del lavoro pubblico e privato.
Ecco quindi a cosa giungerà il “progresso” sociale riservato alla Sicilia,
perla del Mediterraneo: a lasciare apparire vicende come quella dei “Saldi
archeologici: il guerriero di bronzo” quali amarcord di un
periodo dominato da bande di arraffoni, facilmente neutralizzabili se lo Stato
fosse esistito davvero, anzitutto come ideale amato e quindi rispettato
collettivamente. Oggi, in Sicilia, è ormai tardi.
Note
1 – Villari P., Saldi archeologici: il guerriero di
bronzo, in “Grifone”, 31 ottobre 1998, anno VII, n.5 (35), pagina 12
2 – La notizia mi giunse da un noto dirigente della regione siciliana nel corso
di un viaggio da Palermo ad un’area archeologica in una desolata campagna del
Trapanese. Mi disse che gli era stato chiesto come favore dal Prof. Santo Tinè
(questi nel 2007 ormai gravemente malato, a mia domanda si limitò a rivelarmi
che era intervenuto dopo avere appreso la notizia a
Roma).
Con fare amichevole che mi allarmò, il tecnocrate regionale cercò
inutilmente di conoscere particolari dei rapporti professionali che
intrattenevo con un generale di brigata, Roberto Conforti, a quel tempo al
vertice del T.P.A. (oggi T.P.C.) uno speciale nucleo dei carabinieri, del cui
operato si stava occupando un commissario di polizia della Digos – Catania.
Continuò confidandomi che “qualcuno ai piani alti” era stato attivato “per
cercare d’incastrare il Generale”, investigando sull’operato di una serie di
suoi controversi contatti in Sicilia, due dei quali arrestati dalla polizia
elvetica (un noto collezionista e un magistrato) e di smettere di cercare prove
delle malefatte di funzionari delle soprintendenze, in quanto autentico
suicidio professionale e che poteva accadermi anche di peggio. Risposi che la
mia esperienza mi portava a identificare l’alto ufficiale quale un uomo di rara
devozione allo Stato, cosa di cui sono ancora oggi convinto ad alcuni anni
dalla sua tragica scomparsa, nonostante in seguito avessi appreso delle
differenti convinzioni del magistrato Felice Casson, che lo aveva indagato per
i rapporti con Felice Maniero, capo di una organizzazione criminale
internazionale nota alle cronache quale “mafia del Brenta”.
Poco tempo dopo fui chiamato telefonicamente, presso la mia residenza in
Olanda, da un magistrato del Tribunale di Catania che indagava su un gruppo di
“colletti bianchi” della Sicilia centro-orientale. Mi palesò l’importanza di
incontrarci per un colloquio nel suo ufficio dove mi recai alcune settimane
dopo. Partecipò anche il commissario della Digos, che volle interrogarmi quale
persona informata sulle attività di certi burocrati e accademici, operanti
nella Sicilia Orientale, coinvolti in una vicenda oggetto di alcuni miei
articoli pubblicati da Centonove, settimanale a diffusione
regionale. Poi tentò di questionare il mio rapporto con il generale, ma fu
interrotto dal giudice che aveva già appurato la natura delle mie attività e la
mia impossibilità a rivelare notizie su delicate ricerche in corso sia in
Sicilia che in vari Paesi europei.
Purtroppo alcuni particolari del mio operato in Sicilia vennero alla luce
circa sette anni dopo, a causa della maldestra deposizione di un sottufficiale
dei carabinieri nel corso di due processi svolti in Sicilia a un famoso
antiquario svizzero che lambirono elementi del cosiddetto terzo livello, tra i
quali Sebastiano Tusa, ma tutto si risolse nel nulla. Tuttavia, rivelando il
contenuto di uno dei miei rapporti, inviato in via riservata ad una speciale
unità investigativa con sede in Roma, il sottufficiale “bruciò” ogni
possibilità di continuare le mie attività collaborative e dovetti mio malgrado
interrompere tutte le ricerche in corso ed in particolare quelle sull’operato
di diversi dirigenti di alcune soprintendenze siciliane.
Il “fuoco amico”, il peggiore quando si opera sotto copertura in
quanto colpisce alle spalle, oltre ad arrecarmi anche ingenti danni economici
per investimenti logistici professionali e privati, mi espose improvvisamente
alle reazioni di organizzazioni criminali non solo europee ma anche di aree
extra-europee.
Fui salvato dal tempestivo intervento di un famoso giudice romano, che
compresa la situazione operò in modo da mettermi sotto la protezione di un
Ufficio dei servizi informativi di un Paese europeo, con il quale collaborai
sino al 2014, anno in cui per aggravati motivi di salute mi ritirai da ogni
attività professionale.
3 – l’intera documentazione, appartenente a un avvocato della Sicilia
Occidentale, fu invece consegnata a Sebastiano Tusa, come lo stesso mi confermò
facendomi il nome del funzionario che avrebbe acquistato i due lussuosi
immobili nell’Isola di Pantelleria. La tempistica di una serie di accadimenti
mi indusse a presumere che le mie attività in Sicilia fossero oggetto di
monitoraggio specialistico.
4 – Carbone F., In treno sui fossili, in Panorama, 8
ottobre 1989, p. 67; Ragonese B., Rizza E., Villari P., 27 agosto
1995, Fusco: una distruzione enorme, incredibile, irreparabile. Non
deve restare impunita, in “Grifone”, anno IV, n. 4, pp.4-6; Villari
P., 3 dicembre 1989, Parco paleontologico. Può ancora essere
realizzato in contrada Fusco, in “La Sicilia”, Cronaca di Siracusa
(pubblicato anche dal quotidiano “L’Ora”, il 16 dicembre 1989, p. 6, con il
titolo “Per un parco paleontologico”).
5 – In realtà il contesto in cui fu collocata la bomba era fortemente
simbolico. Esso svela come si trattasse di un avvertimento giunto da poteri
talmente più forti di quelli del magistrato da farla “spostare lassù”
(al Nord Italia, in termini siciliani), lontano da quel ruolo istituzionale
svolto con grande impegno nella sua Siracusa.
A Firenze la Pietroiusti fu per anni destinata al Tribunale per i Minori (ovvero
di casi di nessun impatto sull’operatività del Sistema dominante), ma riuscì a
risalire lentamente la china tornando recentemente al ruolo di Sostituto
Procuratore della Procura della Repubblica (ma in Firenze anziché Siracusa),
dopo un periodo trascorso in qualità di Pubblico Ministero della Direzione
Distrettuale Antimafia del capoluogo toscano.
6 – La Redazione de “L’Ora” attraversava un triste periodo,
subendo arroganti tentativi di pressioni politiche, e denunzie a seguito di
articoli pubblicati che potevano tradursi in sostanziose perdite di denaro.
Mancava il pieno sostegno dello Stato o delle forze politiche dell’arco
costituzionale e in quei mesi qualcuno si illuse potessero giungere fondi a
livello regionale o statale, che tuttavia non arrivarono. Il quotidiano recava
realmente fastidio agli equilibri di potere di quel periodo e fu costretto a
chiudere pochi mesi dopo avermi comunicato telefonicamente il rifiuto di
pubblicare tra altri anche il mio articolo edito anni dopo da “Grifone”.
7 – Saldi archeologici: il guerriero di bronzo, in “Grifone”, 31 ottobre 1998, op.cit. in nota 1
8 – per Bruno Ragonese fu un terribile colpo, avendo quell’evento
distrutto alberi centenari e parte degli sforzi della sua vita. Ebbe un infarto
(mentre tentava di mettere ordine nella proprietà affinché risorgesse “più
forte di prima”), dal quale si riprese solo parzialmente giungendo a
partecipare a una missione dell’Università di Catania in Congo, per campionare
ragni e altri Artropodi velenosi in una regione dove, a parte la guerra tra
bande armate, imperversava una terribile epidemia di ebola che mieteva
vittime... Prima di partire da Amsterdam per l’Africa venne a salutarmi assieme
ad altri studiosi siciliani e passammo assieme i due giorni della sua visita
alla città. Gli mancavano già i paesaggi rurali della Sicilia sudorientale,
l’impegno civile di ogni giorno, ma l’avventura africana lo emozionava.
Al suo ritorno ci tenemmo ancora in contatto telefonico, ma non lo rividi
più. Affaticato dalle continue battaglie ambientaliste in difesa del territorio
sudorientale isolano, il cuore gli cedette nel 2004. Fu una grave perdita per
la Sicilia che nessun media governativo volle mettere in giusto risalto, come
sempre accade agli uomini veramente liberi.
9 – Villari P., 1998, “La vera storia della
collezione numismatica dei Baroni Pennisi di Floristella”, in “Grifone” 31
Agosto 1998, pp. 4-7; Villari P., 2000, “La vera storia
della collezione numismatica dei Baroni Pennisi di Floristella. Parte 2: Quando
la Regione Siciliana sborsò oltre quattro miliardi di lire”, in “Grifone”
30 giugno 2000, pp. 6-10. In seguito furono pubblicati anche dal
settimanale messinese “Centonove”.
10 – Ragonese B., 1998, “Guai giudiziari in
vista”, in “Grifone” 31 dicembre 1998, p. 12.