di Pietro Villari, 26 Ottobre 2022. Tutti i diritti riservati.
Scrivendo la quinta parte della monografia “La Tecnocrazia e il Sistema
di Potere in Sicilia”, un report in progress i
cui risultati sono saltuariamente editi in questo blog, mi erano venute in
mente alcuni ricordi dei periodi trascorsi da giovane nelle Isole Eolie sia
quando ancora studente di scienze naturali, specializzando in archeologica
preistorica e infine da libero professionista archeozoologo.
Non essendo la scelta adatta inserirli in quella sede, ho preferito
raccoglierli in questo post. Si tratta di vicende distintamente legate a due
personaggi alquanto diversi tra loro, Leonardo Sciascia e Luigi Bernabò Brea,
che mi hanno colpito per i particolari aspetti caratteriali e le scelte di
vita. I fatti si svolsero circa quarant’anni fa, in quella che, in linea
generale, era l’ancora bellissima Isola di Lipari, avvolta negli ultimi
bagliori della civiltà eoliana che aveva resistito sino agli anni 1960. In
alcuni luoghi dell’arcipelago, di un fascino oggi inimmaginabile, quel mondo a
parte sembrava essersi fossilizzato nei ruderi delle case e nei campi
abbandonati al tempo della massiccia emigrazione nelle Americhe e in Australia,
avvenuta tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento.
La casetta dell’Acropoli di Lipari
Al tempo dei miei periodi di residenza trascorsi in quelle isole d’origine
vulcanica, tra la metà degli anni 1970 e la seconda metà degli anni 1980,
nell’entusiasmo di condurre esplorazioni e studi scientifici pionieristici,
frequentai l’appena pensionato archeologo ligure Luigi Bernabò Brea, già
soprintendente alle Antichità per la Sicilia Orientale. Il rapporto fu
fruttuoso sino alla sua compita metamorfosi in un vecchietto acciaccato dalle
malattie senili, pauroso delle gelosie di certi “colleghi” che in diversi
ambienti erano ormai considerati “canazzi dell’Assessorato”, con
riferimento a quello per i Beni Culturali e Ambientali della Regione
Siciliana (1). Quei tecnocrati selezionati per soddisfare, senza
alcun ritegno, le necessità dei potenti politici siciliani del momento, in
cambio di una carriera blindata e folgorante. E altro.
Dopo il pensionamento avvenuto nel 1976, il Bernabò (2)(3) avrebbe
dovuto andarsene da Lipari senza più voltarsi indietro, ma era anche un po’
autistico, condizione che gli procurava non pochi problemi comportamentali. Non
ultimo il non poter riuscire a vivere senza quell’isola che aveva stregato sia
lui che Madaleine Cavalier, l’assistente-compagna francese che gli aveva
dedicato la vita da quando lo aveva conosciuto in Grecia. Il loro rapporto con
quelle Isole si può descrivere quale una forma di simbiosi materiale e
spirituale, affatto rara tra i pionieri delle grandi scoperte dell’archeologia
e delle scienze naturali dei due secoli scorsi.
Era quindi rimasto a godersi la vecchiaia in quell’angolo di paradiso, ma
era stato costretto a guardarne impotente la progressiva devastazione
ambientale e paesaggistica dei luoghi, da parte di potenti lobbies palazzinare,
e la profonda mutazione della locale cultura popolare ad opera degli orrori del
progresso globalista. Sempre più arroccato in posizione di difesa nella sua
casetta, Bernabò viveva con la certezza che, se avesse fiatato sulle conseguenze
delle speculazioni edilizie svolte in siti archeologici delle provincie
siciliane, persino in quell’Eden naturalistico, paesaggistico e culturale che
era l’arcipelago eoliano, i nuovi archeologi sensibili alle necessità dei
potentati lobbistici avrebbero avuto gioco facile a compiacere le logiche del
sistema dominante, mettendolo in condizioni di sloggiare dalla sua amatissima,
deliziosa casetta sull’acropoli di Lipari: senza dubbio la più affascinante che
io abbia visto nel mio girovagare per il pianeta.
Malgrado costruita sul ciglio di un precipizio a strapiombo sul mare, il
contesto circostante l’abitazione suscitava sensazioni benefiche. L’interno era
spartanamente arredato, ma al contempo dominato dal fascino imponente del
panorama e della luce che illuminava ogni cosa, attraverso le ampie finestre
con le bianche e sottilissime tende, che lentamente si gonfiavano ai venti e
infine si scostavano ai lati. Lasciavano soavemente inondare l’ambiente da
una creuza de mar, per dirla alla ligure, tipica dell’acropoli
liparota, che nel suo percorso si associava alle essenze selvatiche
mediterranee che crescevano lungo la falesia, e alle emanazioni della resina
dei pini che attorniavano la casetta, donando un intenso profumo e frescura al
patio.
In quel luogo vi era una struggente ma anomala percezione di pace. Su tutto
pendeva quella tensione carica di misteri primordiali, tipica delle isole
vulcaniche di tutti i mari, proveniente da quell’Entità tellurica, immane e
imprevedibile, che qui imperava sull’intera acropoli ancor più che sul resto
dell’Isola. Nei giorni di tempesta, la casa sembrava trasformarsi in una barca
in mezzo al mare, con la forza dei venti che si abbatteva sui vetri delle
finestre e sulla porta d’ingresso, fischiando, ululando o ruggendo. Le possenti
ondate del mare si abbattevano sulla compatta roccia vulcanica della falesia,
provocando tremiti e boati a volte terrificanti in quelle fredde e oscure notti
prive della luce della Luna e delle stelle.
Con il bello o il cattivo tempo, nel luogo era sempre percepibile un
indescrivibile senso di libertà e al contempo la consapevolezza del vivere alla
mercé del Fato. Era la casa dell’Odisseo dantesco, di colui che mosso da un
profondo desiderio di conoscenza, parte con la sua fragile nave per
oltrepassare il limite delle Colonne d’Ercole, ovvero di ciò che rappresenta
ogni dogma.
Mi sono spesso chiesto quanto quel luogo abbia ispirato e nutrito non
soltanto l’intera attività scientifica eoliana svolta da Luigi Bernabò Brea e
dalla sua compagna, ma soprattutto una profonda spiritualità che in quel luogo
coltivavano segretamente, al riparo dal resto dell’Umanità.
In quell’ombelico del loro mondo, i due archeologi vi avevano vissuto
idillicamente dagli anni 1950. Ma negli anni seguenti al suo pensionamento, il
Bernabò vide progressivamente svanire il proprio potere difensivo e a partire
dalla seconda metà degli anni 1980 sino alla sua morte avvenuta nel 2006, fu
costretto ad accettare l’amaro prezzo della protezione di tecnocrati e politici
regionali e inghiottire numerose umiliazioni. Basti citare l’esempio dei
soprintendenti archeologi operanti in Sicilia quali il Voza, i Tusa (padre e
figlio), e altri di pari livello dirigenziale, che dalla fine degli anni 1980
in privato avevano iniziato a soprannominarlo, con un profondo rigurgito di
viltà e acida gelosia “B.B., il pensionato d’oro della Regione
Siciliana”. Le prime due lettere scandite in modo da alludere alla più o
meno lieve balbuzie che talvolta faceva capolino nel corso delle conferenze.
Rividi la casetta dell’Acropoli in un fine settimana del giugno 2008,
quando portai al Museo di Lipari alcuni colleghi e gli specializzandi
statunitensi, che in quell’anno dirigevo negli scavi programmati dal
Fiumedinisi Project della University of South Florida. La guardarono con
disgusto. Era divenuta un buio e misero magazzino archeologico, chiuso al
pubblico e zeppo di cassette contenenti frammenti di vasi d’impasto rinvenuti
nel corso degli scavi svolti da Bernabò Brea e Cavalier sull’acropoli. L’interno
era con molta difficoltà visibile attraverso le sbarre di ferro poste alle
finestre. La follia burocratica l’aveva trasformata in una sorta di orrida buia
prigione, il risultato di un fanatismo mistico alla parabolante,
ovvero di quelle mezze tacche di giovani burocrati che ritenevano in tal modo
manifestare la loro ossequiosità di followers. Erano loro quelli
che adesso si occupavano della gestione del patrimonio dei beni archeologici in
quelle isole, ormai diventate il luna-park criminale dei palazzinari e dei
cartelli della droga che circolava a fiumi, riciclando il denaro anche
localmente in un silenzio che la dice lunga sulle capacità del potere
dominante.
Oltre un quarto di secolo addietro, il 5 maggio del 1980, giorno dai
caratteri atmosferici di estrema variabilità, mi ero trovato nei pressi di
questa casetta quando ancora abitata. Discutevo con il Bernabò Brea di un
problema tecnico insorto nella gestione di quell’area e, come spesso accadeva,
arrivammo alle nostre diverse vedute sul ruolo spettante alle scienze naturali
nell’archeologia siciliana, divertendoci ad alternare secche battute cariche
d’ironia.
Fu il custode Bartolo Mandarano a localizzarci, esortandoci a raggiungere
al più presto il parroco Gaetano Sardella (4) in attesa nell’adiacente
cattedrale di San Bartolo. Avevamo dimenticato che io ero lo sposo, e Bernabò
il mio testimone assieme a Madeleine. Eravamo in ritardo di quasi un’ora e
rischiavamo di ritardare anche il funerale che il prete avrebbe celebrato in
una chiesetta di Marina Corta. Fu un matrimonio senza predica, drasticamente
corto in quanto, nonostante durante il rituale finsi di bere il vino contenuto
nella coppa sacra, bagnando solo le labbra, rischiai comunque di vomitare per i
postumi di una memorabile bevuta solitaria la notte addietro. Il giovane
parroco se ne accorse e concluse in fretta.
All’uscita, appena scesa la scalinata della cattedrale, riuscii a fare
pochi metri innanzi, a destra, riuscendo ad affacciarmi sull’area archeologica
per liberare lo stomaco con un violento getto. Il Bernabò, che mi era accanto,
riuscì solo a dire “Ma no, no!” e non sapendo come scusarmi stravolto
com’ero dai capogiri, mi uscì una frase surreale, qualcosa simile
a “La consideri una offerta votiva a Eolo, dio dei venti”,
seguito da un secondo getto di liquido maleodorante che a causa del vento, finì
anche sull’abito usato per la cerimonia.
Una fotografia scattata da uno degli invitati alcuni minuti dopo, la dice
lunga sul divertito atteggiamento di disappunto tenuto dal professore. Mi stava
accanto nel caso non fossi riuscito a mantenermi in piedi mentre, con i capelli
sconvolti dal forte vento, posavo con lo sguardo perso nel vuoto e la mia
sposina accanto, per una ennesima foto-ricordo delle nozze, di quelle che
generalmente si eliminano o nascondono in una vecchia scatola di latta.
Poco dopo, nel corso del pranzo nuziale tenuto al ristorante “Filippino”
(dal nome del sicilianissimo proprietario), il Bernabò, che era seduto alla mia
destra, mi chiese sornione quale fosse stata la causa del mio voto a Eolo. Gli
dissi, ridendo, che avevo chiesto a Eolo di poter studiare i resti faunistici
rinvenuti nel corso degli scavi del bothros (il pozzo sacro
delle offerte) scavato vent’anni addietro da Bernabò e Cavalier. Mi rispose
seriamente che era una buona idea, lasciandomi esterrefatto (5). Due
giorni dopo ne riparlammo mentre ero suo ospite nella casetta, dove assieme
alle nostre compagne gustammo il suo eccellente gazpacho e non
ricordo che altro, concludendo con un bicchierino della sua ultima bottiglia di
malvasia prodotta negli anni 1930, donatagli decenni addietro dal notabile di
Lipari e suo carissimo amico, Paino (6).
Quel che oggi ricordo, con particolare tristezza, di quel giorno avvenne
sulla soglia della cattedrale. Un attimo prima di entrare assieme per dare
inizio alla cerimonia matrimoniale, il Bernabò mi disse qualcosa a significare
l’immagine allegorica di quel funerale della libertà che per esperienza
riteneva fosse il matrimonio cattolico… La frase giunse con un impatto talmente
inaspettato, maldestro e dissolutamente anarchico, che mi fu impossibile
trattenermi dal ridere assieme, in quella momentanea mia inconsapevolezza del
suo significato blasfemico. I pochi invitati alla cerimonia si voltarono a
guardarci con aria cupa.
Oggi penso che quella frase non fosse solo il presagio del funerale di quel
matrimonio bigotto, ma anche di ogni speranza di un corretto posizionamento
delle scienze naturali tra le fondamentali costituenti della ricerca
archeologica siciliana, e non relegate al ruolo di “scienze applicate” o, come
si diceva a quel tempo, “ancillari”. Difatti, otto anni dopo, l’arroganza e la
prevaricazione della burocrazia della pubblica amministrazione, unitamente agli
interessi accademici sia regionali che nazionali, permise ai laureati in
lettere classiche dapprima di accedere alla specializzazione nei campi delle
scienze naturali applicate all’archeologia, e in seguito l’esclusiva ai ruoli
di archeologo preistorico nelle soprintendenze, eliminando quindi intenzionalmente
e illegalmente (con modalità lobbistiche) le competenze dei naturalisti
specializzati in preistoria.
“Le bugie di Pinocchio hanno le gambe corte”
Nell’autunno del 1981 Bernabò mi telefonò in quel di Verona, dove ero
impegnato con la conduzione dello scavo archeologico e studio stratigrafico di
un insediamento atestino pubblicato l’anno seguente (7).
Ricordandomi il “voto” a Eolo mi chiese se ero disponibile a iniziare a breve
gli studi di quelle faune, essendo disposto a ospitarmi nella splendida
foresteria del museo, ricavata nella torre che controlla l’antico percorso di
accesso all’acropoli. Accettai con entusiasmo e appena concluso lo scavo in
Veneto, mi recai in auto a Lipari assieme alla mia consorte, trascorrendovi
parecchie settimane. Negli anni 1983 e 1984 vi ritornai per studiare tutti i
resti faunistici rinvenuti negli scavi degli insediamenti preistorici
dell’Acropoli di Lipari, portandovi anche la mia prima figlia, neonata, e
tornandovi ancora per lunghi periodi nel corso degli anni, per studi pertinenti
ai resti di un villaggio dell’antica età del Bronzo situato a Capo Graziano,
nell’Isola di Filicudi, e in occasione dei campionamenti in località Bagno
Secco in uno strato contenente porzioni vegetali fossili d’età pleistocenica
databili a circa 100.000 anni fa. Tra il 1984 e il 1986, effettuai
l’esplorazione di superficie dei depositi fossiliferi marini di età Quaternaria
presenti lungo la falesia della costa occidentale dell’Isola di
Lipari; nell’Isola di Panarea, invece, condussi il campionamento ai fini
dello studio osteozoologico di centinaia di esemplari endemici di coniglio
selvatico e di ratto deceduti, in seguito a una epidemia di mixomatosi. Infine,venni
affiancato all’architetto Vincenzo Cabianca nella realizzazione
dell’allestimento scientifico e museografico di parte del museo vulcanologico.
Oggi quella deliziosa dependance è sede degli uffici del personale
dirigente (8).
Così come avvenne ad altri studiosi coinvolti nella pubblicazione del
Bothros di Eolo e di quanto in esso contenuto, anche il mio studio previsto
nella monografia ad esso dedicata, fu bloccato da continui e bizzarri eventi
che fecero accumulare ritardi. Luigi Bernabò Brea favoleggiava la presenza di
una maledizione, opera del dio Eolo, adirato dalla profanazione del luogo sacro
e delle offerte ad egli dedicate. Ma ero convinto, come vedremo più avanti, che
qualcosa non quadrasse tra l’interpretazione dei dati fornita dallo studioso
alla conclusione degli scavi e quanto messo in luce dagli studi
archeozoologici.
Così, innanzi all’ennesimo ritardo per futili motivi, decisi di
infischiarmene dei divieti del Bernabò e nel 1989 consegnai il lavoro al
professore Pierre Ducos, a quel tempo docente presso l’Università di Lione, uno
dei pionieri dell’archeozoologia, fondatore e direttore di Archaeozoologia,
una rivista francese di respiro internazionale. Dopo averlo informato di quanto
era accaduto, Pierre raccolse informazioni tra i colleghi francesi del Centre Nationale de la Recherche Scientifique (CNRS) (9) circa
quanto mi stava accadendo in Sicilia, consigliandomi laconicamente di
pubblicare in fretta e di trasferirmi definitivamente all’Estero. L’anno dopo
volle formalizzarmi per iscritto l’invito di accettare l’ingaggio a tempo
indeterminato, nella qualità di ricercatore CNRS, nel laboratorio che aveva
realizzato in un delizioso piccolo villaggio montano, Saint-Andrè-de-Cruzières,
posto a circa mezzora di auto dalla splendida Cap d’Antibes. Tradusse il mio
studio in lingua inglese riuscendo però a pubblicarlo soltanto nel 1991 sulla
sua prestigiosa rivista, avendo cura d’inviarmelo prima che partissi per un
tour di scavi in Perù e nella Polinesia cilena (10).
Sin dal 1983, avevo reso partecipe Luigi Bernabò Brea della la mia
opinione, formulata in base a quanto si palesava già a primo acchito
dall’osservazione dei resti degli animali domestici, offerti nel corso di riti
e cerimonie dalla popolazione liparota nel VI secolo a.C., che era da ritenere
impossibile si trattasse di un deposito consacrato al dio Eolo. Difatti, le
offerte erano in massima parte da interpretare quali dedicate a diverse
divinità, e in particolare nella quasi totalità legate a culti della fertilità.
L’attribuzione, piuttosto fantasiosa e sensazionalistica, “creata” dal
Bernabò Brea, era stata fondata sulla presenza di una breve iscrizione greca (“Questo
è di Eolo” interpretata quale possibile abbreviazione di “Questa offerta
appartiene al dio Eolo”), presente su un solo frammento ceramico a fronte
delle parecchie centinaia appartenenti a vasi frantumati ritualmente e gettati
nel pozzo sacro. La presenza dell’iscrizione va quindi interpretata quale un
elemento di distinzione da tutte o gran parte delle altre. È inoltre
da rilevare che il pozzo era stato rinvenuto sigillato da una lastra litica la
cui parte superiore era stata scolpita con la raffigurazione di un leone,
ricorrente nella simbologia greco arcaica.
L’anno dopo avere effettuato quello studio, nel 1984, nel corso di un
ulteriore incontro informativo avuto con il Bernabò sul risultato dei miei
studi svolti a Lipari, mi ero reso “colpevole” di un secondo imperdonabile
errore commesso per non avere compreso come funzionava quell’ambiente. Infatti,
riferii l’esito delle analisi sedimentologiche, svolte assieme al Prof. Parere
dell’Università di Modena, su tre campioni di terreno da me campionati in
strato negli scavi diretti da Bernabò Brea e Cavalier nel 1983.
Si trattava di campionamenti effettuati in uno strato definito dal Bernabò
Brea quale “caratterizzato da ceneri e carboni, ricoprente l’abitato del
Bronzo Finale (Ausonio II)”, interpretato quale evidenza di un grande
incendio, avvenuto a conclusione di un violento episodio bellico. Purtroppo si
era spinto a fantasticare, un attacco piratesco proveniente dalle coste
tirreniche, che aveva determinato la fine dell’abitato e della potenza
marittima degli Ausoni (della quale, tuttavia, non si possiede alcuna evidenza
materiale) e dell’attività umana sull’Acropoli, rimasta disabitata per diversi
secoli sino all’arrivo dei coloni greci dall’Eubea. D'altronde, anche la
denominazione Ausoni, data alla popolazione del Bronzo tardo e
Finale presente a Lipari è da considerare una delle ipotesi dello studioso,
essendo costruita sulla base di racconti mitologici.
In realtà, l’analisi sedimentologica mostrava chiaramente trattarsi
dell’esito di una potente eruzione parossistica avvenuta nella vicina Isola di
Vulcano, che aveva causato la deposizione di una massiccia coltre di polveri e
sabbie fini. Come conseguenza ebbe il crollo dei tetti delle capanne e lo
sviluppo di incendi. Inoltre, con molta probabilità nell’isola la coltivazione
e l’allevamento fu gravemente colpita dall’evento, al punto da non essere
utilizzabile per diversi anni. L’abbondante presenza dei carboni era la
testimonianza di combustioni lente in ambiente ossido-riduttivo, con tutta
probabilità imputabili alle continue deposizioni piroclastiche che nei giorni
si sovrapposero sui resti del villaggio risparmiati dalle fiamme.
Quel che dedussi dall’osservazione delle sezioni stratigrafiche, fu la
convinzione che dapprima le forte scosse sismiche che precedettero l’esplosione
ed in seguito accompagnarono le fasi eruttive, avessero determinato il crollo
di parte degli impalchi lignei costituenti il tetto delle capanne e
l’appiccarsi del fuoco nei focolari, poi gradualmente soffocato dal lento
depositarsi dei materiali piroclastici. In quei giorni l’aria a Lipari doveva
essere divenuta irrespirabile anche a causa dei gas liberati dalle esplosioni,
eventi che forse per alcuni anni si alternarono a fasi di quiescenza vulcanica
e tellurica. Ho potuto constatare personalmente e fotografare la stratigrafia
contenente i pozzi contenenti i ricchi depositi di derrate alimentari
(granaglie e frutta secca), che in caso di attacco piratesco sarebbero stati
certamente saccheggiati prima di appiccare il fuoco per distruggere il
villaggio.
Il Bernabò apprese la notizia furente, cosa che mi sperse, in quanto negli
anni mi aveva spesso ricordato che la maggiore ricompensa per un mentore è
quella di essere superato dagli allievi, seguendo le leggi del progresso. Mi
chiese di non pubblicare quanto scoperto e di attendere di partecipare alla
monografia che sarebbe stata dedicata a quei nuovi scavi (che, mi resi conto
solo allora, rischiavano di mettere in cattiva luce le capacità interpretative
degli scavatori, in quanto questi non volevano correggere la loro assurda
versione).
Come prevedibile, si guardò bene dal mantenere la promessa. Mi fu chiaro
sin dai primi mesi successivi, in quanto la collaborazione allo studio, tra
l’altro gratuita, del prof. Parere non venne accolta (non ricevette alcun
ringraziamento, né alcuna risposta alla sua lettera dove ufficializzava i
risultati conseguiti). Non soltanto i risultati di quel mio campionamento non
vennero mai pubblicati, e la notizia del mio coinvolgimento negli scavi non
venne mai divulgata, sino a quando la inserii nella monografia dedicata alle
faune della tarda preistoria presenti nella Sicilia orientale, pubblicata molti
anni dopo, ormai nel 1995, grazie alla volontà di Bruno Ragonese direttore
dell’Ente Fauna Siciliana.
A causa di quegli scavi, che dal punto di vista bioarcheologico erano già a
quel tempo definibili indecenti, andarono perduti centinaia di migliaia di
reperti che avrebbero rivelato preziose informazioni sulle specie botaniche,
sia coltivate che selvatiche, presenti a Lipari al momento dell’evento
vulcanico. Perfettamente fossilizzati e preservati furono gettati via a causa
del disinteresse adottato dal professore e dalla sua assistente nel corso degli
scavi. Nonostante le mie rimostranze, furono considerati reperti che “non
meritavano” di essere raccolti, inventariati e preservati per gli studi
delle scienze che loro chiamavano “ancillari” dell’archeologia. Fu una notevole
perdita di conoscenze relative all’ecologia protostorica dell’arcipelago
eoliano, uno scempio che ha caratterizzato tutti gli scavi archeologici
condotti dalle soprintendenze e dalle università isolane sino a pochi anni fa.
Predissi al Bernabò che i suoi scavi dell’acropoli di Lipari, effettuati
nel 1983 in tutta fretta e senza personale specializzato, in quanto bisognava
permettere a una impresa di costruzioni di edificare nuovi locali del Museo
Archeologico Eoliano, sarebbero stati ricordati quali uno scempio. Inoltre,
l’avermi chiamato solo dopo la conclusione degli scavi e a pochi giorni dalla
consegna del sito alle attività edili, al fine di avere “un po’ di semi e
frutti da esporre nel museo”, era da considerare un atto di intollerabile
prevaricazione e di profonda ignoranza scientifica. A questo si aggiungeva il
fatto di non avere reso possibile la raccolta di tutti i carboni presenti
all’interno dei perfettamente conservati depositi di derrate che apparivano
nella sezione stratigrafica messa in luce sul lato occidentale dello
scavo.
Si badi bene che appurai, la presenza di simili situazioni in tutti scavi
archeologici svolti in Sicilia dalla seconda metà degli anni 1970 sino alla
prima decade del corrente secolo. Ma non mi aspettavo di averne una così
diretta e arrogante testimonianza a Lipari. Alla fine scoprii che, per quanto
concerneva i resti faunistici, agli operai edili (!) era stato permesso di
raccoglierne solo alcuni, ovvero quelli di grandi dimensioni: mi rifiutai di
esaminarli. Lo scavo fu eseguito, com’era d’uso a quel tempo in Sicilia
nonostante le mie continue proteste anche su quotidiani locali, senza condurre
la flottazione del terreno escavato o una semplice setacciatura a secco. Avevo
persino consigliato al Bernabò che in mancanza di tempo, quale estremo rimedio
avrebbe potuto mettere il terreno in sacchi di juta e flottarlo con calma nelle
settimane successive, raccogliendo i carboni con la batteria di setacci a
maglie di diversa grandezza e lasciando il vaglio del flottato agli specialisti
comodamente seduti in laboratorio attorno ad un bancone. Si fece una grassa
risata e capii che, come tutta la Sicilia, anche le Isole Eolie avrebbero
sofferto scempi di quel genere ancora per parecchi decenni. Non avevo alcun
potere di fermare il corso degli eventi.
Nel gennaio 1985, la gravità della situazione mi spinse a rivolgermi al
professore Aldo Segre per tentare una via ministeriale per salvare dalla
distruzione quantomeno i depositi ancora in strato nei più importanti siti
archeologici siciliani. Nella seconda metà degli anni 1970 era stato mio
mentore quale direttore dell’Istituto di Geologia e Paleontologia
dell’Università di Messina, e direttore dell’Istituto Italiano di Paleontologia
Umana a Roma (tra l’altro nel 1976 fu mio insegnante di rilevamento stratigrafico
nel corso dei suoi scavi nella Grotta dell’Uzzo, in provincia di Trapani).
Segre, che era uno dei migliori specialisti italiani di tecniche dello
scavo preistorico, mi confidò che non si stupiva affatto delle defaillances del
Bernabò e di molti altri archeologi provenienti dagli studi archeologici
centrati su campi di studio storico-artistici, essendo quelle situazioni da
decenni all’ordine del giorno anche nella penisola italiana, soprattutto nelle
regioni meridionali. Così mi mise al corrente del fatto che nell’ambiente degli
specialisti italiani di preistoria le chiamavano “Le favolette di Pinocchio”
e in quanto tali, mi assicurò, avevano tutte “le gambe corte” e un
giorno la verità sarebbe venuta alla luce (11).
Appresi che gli ultimi grandi specialisti di preistoria del ventesimo
secolo, coloro che avevano vissuto nella splendida tradizione scientifica
italiana nata nel corso del secolo precedente, avevano nel corso dei decenni di
mettere al corrente della situazione vari ministri e direttori di pertinenza,
ma non avevano sortito altro che ridimensionamenti del proprio potere
accademico e delle somme destinate dal ministero per gli scavi e gli studi di
laboratorio. Gli ambienti accademici più ostili alle nostre metodologie e
dottrina, erano quelli degli archeologi appartenenti agli studi umanistici,
gruppi strettamente legati al potere politico, che avevano sede a Roma, Napoli
e Catania: fu una guerra impari in quanto colonizzarono il ministero di
pertinenza, il settore interno al Centro Nazionale per la Ricerca (CNR) e la
Scuola Archeologica Italiana ad Atene.
Tuttavia, avendo da giovane, ai tempi degli scavi svolti nella sua Liguria
nella grotta delle Arene Candide, collaborato con diversi paleontologi e
archeologi preistorici provenienti dagli studi naturalistici, la posizione di
Luigi Bernabò Brea era meno radicale se comparata a quella dei maggiori
archeologi classici del suo tempo, e anche a questo dovevo la sua apertura a
lasciarmi condurre studi sui reperti rinvenuti nel corso dei suoi scavi svolti
negli anni 1950 e 1960, purtroppo raccolti con tecniche già a quel tempo
considerate profondamente inadeguate.
Nonostante la reciproca simpatia, dal punto di vista metodologico e
dottrinale non potevamo che essere in totale disaccordo e così, nel 1988, persa
ogni speranza di fargli cambiare tecniche di scavo decisi di rinunziare alla
collaborazione. Non la prese affatto bene quando quell’anno rifiutai, con
questa argomentazione, lo studio dei resti faunistici da lui rinvenuti negli
scavi a Pantalica nella Sicilia sudorientale, in quello che riteneva fosse una
struttura palaziale della tarda preistoria seguita da un palinsesto
di rimaneggiamenti più recenti (già localizzata il secolo addietro da Paolo
Orsi). Gli operai “qualificati” come si chiamavano a quei tempi, su sua
indicazione avevano raccolto solo alcune decine di resti ossei, quelli di
maggiori dimensioni, contenute in una cassetta da scavo. Si trattava
quindi di un campionamento inaffidabile a uno studio scientifico, anche a causa
della commistione di reperti provenienti da varie aree, strutture, strati,
periodi di occupazione...
Dai primi anni 1990, assieme alla sua compagna il Bernabò si era imposto un
assoluto silenzio sulle prepotenti e gravi devastazioni, ambientali e
paesaggistiche, effettuate dal sistema dominante siciliano in tutte le isole
dell’arcipelago. E quel silenzio era inevitabilmente divenuto un’eclatante
connivenza che non poteva più essere considerata una condizione passiva,
essendo evidente cosa ormai permetteva la sua tollerata permanenza nell’Isola
di Lipari. Invitai un’ultima volta, per via telefonica, sia lui che la sua
compagna a difendere strenuamente le Isole Eolie, a non lasciare distruggere
l’immagine esemplare costruita decenni addietro, necessaria alle giovani
generazioni di archeologi che sarebbero divenuti i nuovi funzionari dello
Stato. Ma ormai vivevano nel compromesso, come d'altronde quasi tutti i suoi
colleghi nell’Amministrazione regionale di quel tempo (e parte di quelli
odierni, aggiungerei con sicurezza) e il nostro rapporto già lesionato nel
1984, si ruppe per sempre quando preferirono non intervenire, con la loro
autorevolezza, per impedire lo scempio del sito archeologico e paleontologico
di Contrada Fusco, a Siracusa (12) e altri negli anni
successivi.
Mantenni rari contatti con Madaleine Cavalier, che nel 1989 con mia
preoccupata sorpresa rinunciò a condurre lo scavo del sito dell’età del Ferro
di Monte Tidora, presso Messina, lasciando a me la direzione (e, contrariamente
agli accordi, la pubblicazione fu anni dopo affidata, con pessimo risultato, a
Maria Clara Martinelli), e al contempo volle che partecipassi alla
pubblicazione del sesto volume della serie monografica “Meligunis Lipara”,
dedicata agli scavi del villaggio di Capo Graziano (Filicudi). In seguito,
seppi che diversi colleghi del CNRS francese avevano in quegli anni esercitato
pressioni per rompere il mio isolamento di studioso e la totale censura delle
mie attività di archeozoologo in Sicilia. Lo stesso avvenne nel 2010 quando il
presidente dell'ICAZ, la maggiore organizzazione mondiale di archeozoologia, si
spinse a formalizzare per iscritto tale richiesta al Presidente della Regione
Siciliana, ricevendo solo una risposta di circostanza dopo ben sei mesi.
Tuttavia, con il Bernabò eravamo ormai su posizioni dottrinali differenti e
le nostre strade si divisero per sempre nel corso nel 1995, quando ritenni che
ero divenuto totalmente incompatibile con quel che era divenuta la classe
dirigenziale dell’archeologia siciliana, con le sue pesanti responsabilità per
le distruzioni che da decenni stava conducendo nell’Isola, soprattutto
nell’ambito degli interessi delle lobbies politico-affaristiche
protette dal sistema dominante. Ormai non soltanto il settore dei Beni
Culturali e Ambientali, ma l’intera amministrazione dello Stato e della Regione
Siciliana era pesantemente sottomessa alle connivenze.
Decisi quindi di trasferire la residenza in Olanda e gettare le basi per il
lavoro di infiltrato nel mercato europeo delle antiquities e
in particolare a quanto veniva trafugato dalla Sicilia (13). Agli
inizi del 1997, dopo aver presentato la situazione ad alcuni magistrati che ne
parlarono con l’allora Comandante dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio
Archeologico (TPA, oggi TPC), Generale di Corpo d’Armata Roberto Conforti, e
avere da questi ricevuto una serie di preziosi consigli e suggerimenti di piste
investigative, decisi che tra le diverse attività in corso avrei anche
visionato un dossier pervenuto alla rivista bimestrale dell’Ente Fauna
Siciliana.
Riuscii a ottenere l’incarico di studiare il dossier attentamente e a
redigere un report che il direttore Bruno Ragonese pubblicò, con grande
coraggio, in due parti nel 1998 e nel 2000. In base allo studio di parecchie
decine di documenti, svelavo quanto accaduto alla famosa collezione numismatica
siciliana appartenuta ai Baroni Pennisi di Floristella. Cito tutto questo in
quanto si trattava di una vicenda di respiro internazionale, dove con grande
dolore constatai anche il coinvolgimento del Bernabò Brea nella qualità di
Soprintendente alle Antichità delle Sicilia Orientale e di un suo
successore (14).
Sciascia, isolato e umiliato in quanto “eretico”
Leonardo Sciascia è una di quelle poche persone verso le quali ho provato
una stima e un affetto istintivi, pervenute in modo semplice e immediato,
eppure fu un rapporto di amicizia che non ho voluto o saputo coltivare. Lo
conobbi a Lipari, in una estate della prima metà degli anni 1980, in un suo
momento di profonda depressione.
Era accaduto che i politici locali e altri regionali, anziché intervenire
come promesso, avevano vigliaccamente disertato in massa una manifestazione
contro la mafia dedicata agli studenti delle scuole di Lipari. Tra i
voltafaccia spiccava quello di colui che avrebbe dovuto presenziare alla
manifestazione, Luciano Ordile, il potente assessore regionale ai beni
culturali, ambientali e per la pubblica istruzione (15). Così lo
lasciarono solo, lui, Leonardo Sciascia, in quel piccolo cinema, con il
pubblico che per paura o per la svanita possibilità di questuare favori, in
parte si dileguò dopo l’annuncio del forfait dato dai relatori
più attesi.
Sciascia effettuò comunque il suo molto ben costruito intervento, centrato
sul ruolo della politica quale impegno di contrasto alla mafia. Con elegante
calma, espose quelle imbarazzanti assenze quali un omertoso inchino, che
soprattutto i vertici della politica siciliana avevano voluto simboleggiare
innanzi a quelle forze che impedivano la realizzazione di una libera società
siciliana.
All’evento non avevano voluto partecipare nemmeno Luigi Bernabò Brea e
Madeleine Cavalier (ero loro ospite in una dependance sita nell’acropoli per
svolgere alcuni studi). Erano stati avvertiti alla mattina della “scarsa
importanza della manifestazione”, una perifrasi amichevolmente consigliera
formulata al fine di evitare una inopportuna partecipazione, un coinvolgimento
dalle spiacevoli conseguenze. Il consiglio aveva tuttavia sfondato una porta
aperta. Difatti, la coppia di studiosi detestava quello che riteneva, con
fredda ma innegabile arguzia, un “inutile agonismo politico in una porcilaia”
o “andare a caccia di tigri con la reticella per i moscerini“.
Per il Bernabò, che conoscendo la mia indole riteneva utile ripetermelo
spesso, l’unica lotta alla criminalità di ogni sorta poteva essere
esercitata soltanto dai militari e dalla magistratura, seguendo precisi ordini
dai vertici politici dello Stato. A suo dire sarebbero bastati due mesi di
operazioni: tutto il resto era tempo perso, un modo idiota di esporsi a
ritorsioni ritenute immancabili. Ovviamente, dal suo punto di vista ideologico
aveva piena e sana ragione, ma in Sicilia dello Stato esisteva solo una grande
ombra e pochissimi suoi fedeli servitori.
Eppure, lasciai che la curiosità mi trasportasse in quel vecchio cinema in
via di fossilizzazione, seguito dall’entusiasmo di una giovane compagna ancora
gradevole in quel periodo, antecedente alla sua scalata di manager
nell’industria di famiglia. Era inevitabile che quel personaggio evidentemente
mosso dalla ragione, Sciascia, m’incuriosisse e chiesi al giornalista tra i
promotori della disgraziata serata di presentarci. A quel tempo ero attorno ai
venticinque anni e, immerso nei miei studi specialistici, non avevo affatto
chiaro chi fosse Leonardo Sciascia e cosa rappresentasse per la
Sicilia.
L’incontro mi fu di lezione. Fu quella sera che imparai a non sottovalutare
una persona per l’apparente semplicità, o attraverso le acerbe valutazioni
ricavate dallo scambio delle prime frasi, in quanto nei convenevoli Sciascia
sembrava un pacato insegnante di un paese siciliano, di quelli all’antica.
Dapprima, ritenni fosse uno di quei cronisti-scrittori siciliani di quel tempo,
ritenuti validi ma che io non leggevo per non togliere tempo allo studio e ai
bagordi, anche se più entravamo in argomento e più rimanevo colpito dalla sua
abilità di collegare i fili sciolti di eventi, contestualizzandoli con modalità
che contagiavano l’interlocutore. Era una “mente fina”, un uomo di rare
qualità mentali e comportamentali, che per buona educazione si adattava ai
semplici, non alzando il livello della conversazione senza prima comprendere il
grado di conoscenza di chi aveva innanzi, compreso il grado di percezione e
consapevolezza dell’esistenza di un potere estraneo agli alti ideali della
Costituzione Italiana.
Parlammo delle problematiche dei beni culturali e alla fine mi raccontò
alcuni aneddoti su mafia, distruzioni e saccheggi di necropoli nell’Agrigentino
nel corso degli anni 1950-1970. Era un piacere ascoltarlo, ma quel che
ricordava era per me, giovane e avventuroso archeologo, in gran parte
profondamente deprimente. Toglieva il respiro, ovvero disarmava ogni speranza
per una Sicilia che riteneva stesse scomparendo anno dopo anno sotto i suoi
occhi. Mi invitò quindi a incontrarci di nuovo a Racalmuto (il paese natale al
quale era molto legato) o ad Agrigento, nel caso fossi interessato ad
approfondire la tematica degli scempi e mi avrebbe messo a disposizione alcuni
carteggi del suo archivio e le sue conoscenze dovute all’amicizia giovanile con
un anziano archeologo agrigentino.
Per lui il futuro avrebbe portato omologazione, forse intendeva una sorta
di standardizzazione e semplificazione di modelli comportamentali della
società. Lo ricordo perché gli chiesi la sua opinione sull’uso del
termine etnolisi per definire le fenomenologie riscontrabili
durante il quale la commistione di due culture, dove quella dominata finisce
per assumere alcuni caratteri di quella dominante, in un tentativo di
omologazione del potere e della ricchezza. Abbandonando le proprie credenze
religiose per acquisire quelle che hanno reso potenti i dominanti.
Era un termine coniato in Italia agli inizi degli anni 1940 per studi
etnologici e che, per ironia della sorte, fu a mio avviso paradossalmente utile
per definire la situazione determinatasi nel Dopoguerra dove parte dei modelli
della società anglosassone e in particolare statunitense, divennero dominanti
nella società italiana agendo quale omologanti delle numerose culture che
differenziavano fortemente molte regioni italiane. Il termine era stato
riesumato da Luigi Bernabò Brea negli anni 1960, e da me in una monografia
edita nel 1981, per cercare di inquadrare alcuni meccanismi culturali
verificatisi nel corso della colonizzazione greca nelle popolazioni della
Sicilia nordorientale.
Nonostante mi avesse dato un numero corrispondente a una telefonia fissa,
per organizzare una mia visita in quel di Racalmuto, non trovavo punti in
comune tra il mio mondo lavorativo e il suo e lasciai perdere. Pensavo ci
fossimo già detti tutto a Lipari e che sarebbe stata una deludente perdita di
tempo per entrambi. I suoi ricordi di archeologi già defunti e antichi scempi
archeologici dell’Agrigentino a quel tempo m’incuriosivano ben poco. Seguivo le
logiche dei miei trent’anni e persi l’occasione di potere lasciare assieme un
ricordo aneddotico della distruzione del patrimonio archeologico di quella
provincia siciliana, in particolare di contestualizzarlo in quel quadro della
situazione siciliana che lui aveva ben chiaro, anche per quanto riguardava il
futuro.
La notizia della sua morte mi colse alla sprovvista innanzi a un
telegiornale, distrattamente seguito nella triste casa di un’amica, che a quel
tempo la vita aveva spinto in una periferia romana, era il 1989. Fu un evento
inaspettato, un inciampare nel sordo dolore. Negli anni precedenti avevo
assistito a quei continui attacchi che, nonostante fosse stato gravemente
colpito da una malattia, Sciascia aveva dovuto fronteggiare in quanto tesi a
screditare il valore delle sue qualità intellettuali. Era finito nel tritacarne
del cerchio magico mediatico, additato al pubblico ludibrio da portaborse e
scribacchini al soldo di quello che a quel tempo veniva limitatamente definito
il “regime” italiano, volutamente tacendo sul fatto che i mandanti erano
stranieri locati al vertice del sistema dominante del Blocco Occidentale.
Un piatto servito freddo
Quattro anni dopo, nell’estate del 1993, l’ancora Assessore agli Enti
Locali della Regione Siciliana , Luciano Ordile, fu protagonista di una di
quelle sue insopportabili manifestazioni di arroganza. Non avendo mai
dimenticato anche l’umiliazione subita da Sciascia a Lipari, colsi l’occasione
di comporre un breve scritto satirico, che venne immediatamente pubblicato da
un mensile di politica e attualità siciliane. Ebbe una notevole eco in Sicilia
e oltre sulle scrivanie giuste di Palermo, finì anche su quelle ancor più
potenti di Roma, divenendo un colpo di piccone a quella che era stata la
carriera blindata di quel politico (16).
Valeva la pena sprecare tempo e sporcarsi non solo d’inchiostro occupandosi
di quel personaggio, accettando tra l’altro l’immediata pesante conseguenza di
essere bandito da tutte le Soprintendenze ai Beni Culturali della Regione
Siciliana? Certamente no, Ordile era anch’egli un “pupazzo”, per dirla con
Luigi Pirandello (17) o, come preferisco, una pedina del
sistema di potere dominante in Sicilia. Ma non avevo alcun altro modo per
alleviare il mio senso di colpa nei confronti di Leonardo Sciascia, intellettuale
che come me si trovava emarginato per idee bollate di “eresia” dalle cerchie
del vero potere di quella società fortemente opprimente che ancora strozza la
libertà.
Rifiutando di prendere in considerazione quel caffè a Racalmuto, non ho
perso solo l’occasione di imparare come Leonardo Sciascia avrebbe costruito
quei racconti che desiderava tramandare, ma qualcosa di più importante: sapere
riconoscere quando fermarsi e prendere tutto il tempo per ascoltare, o per
raccontare. Kŷdos, Leonardo.
Note
1) cito la definizione fornitami agli inizi del marzo 1986 da un anziano
funzionario della Soprintendenza siracusana (Ufficio per il Personale), Augusto
La Rosa, a quel tempo in stretto rapporto professionale con gli ambienti
investigativi delle forze dell’ordine. Il rapporto si deteriorò circa due anni
dopo, avendo declinato la sua offerta di entrare a far parte di una locale
loggia massonica ove militava.
Con il senno di poi, riconosco che il suo invito era un escamotage per
imbrigliarmi in quella piramide del potere e impedirmi ulteriori esternazioni e
comportamenti dannosi anche per la sua associazione, ma anche per cercare di
mettermi al riparo dalle pesanti conseguenze che puntualmente e con crescente
gravità mi colpirono negli anni seguenti.
Detesto profondamente le principali famiglie massoniche italiane e i loro
innegabili legami di “fratellanza” con esponenti della criminalità organizzata,
e tuttavia devo ringraziare qui pubblicamente anche se con notevole ritardo, il
dott. Michelangelo Castello (che a quel tempo non sapevo fosse affiliato alla
massoneria, tra l’altro gran maestro di quella loggia di rito scozzese ancor
oggi sita in Siracusa in una piazzetta dell’Ortigia), per quanto volle mettermi
a conoscenza sulla vicenda dello scempio della necropoli di Contrada Fusco e
dei gravi pericoli che stavo correndo a Siracusa.
A quel tempo ignoravo che l’allora soprintendente Giuseppe Voza avesse
frequentato un’altra loggia siracusana, sita in via Arsenale, considerata di
destra. Le mie fonti riportavano anche questa loggia avesse un indirizzo
“cabalistico-esoterico” e vi fossero affiliati anche appartenenti all’estrema
destra, alcuni dei quali partecipavano a periodiche riunioni segrete tenute
nelle provincie di Enna e Caltanissetta, assieme a confratelli provenienti
dalle logge dello stesso indirizzo presenti in tutte le provincie siciliane.
Nel corso di queste riunioni si svolgevano cerimonie e rituali definiti “molto
particolari”, come nel periodo 1997-1999 mi venne confermato da diversi
notabili residenti a Enna, Piazza Armerina, Sciacca e Palermo. Questa loggia
sarebbe stata strettamente legata a un’altra loggia “coperta”, ovvero segreta,
frequentata da personaggi siracusani (magistrati, avvocati, funzionari dello
Stato e della Regione Siciliana, imprenditori, professori universitari) dei
quali annotai diversi nominativi che mi allarmarono.
Tornando al mio incontro con il dott. Castello, questi tenne a precisare
che in linea generale condivideva i miei timori per la presenza di esponenti
della criminalità, di funzionari corrotti e di faccendieri nella massoneria
siracusana, ma credeva fermamente che entro il decennio entrante i vertici
della massoneria internazionale li avrebbero ridotti in quiescenza. L’incontro
si svolse nell’estate 1988 presso la sua abitazione, alla presenza della sua
compagna tedesca e del La Rosa. Molti anni dopo, appresi la triste e
inquietante notizia della sua morte prematura: da cardiologo stroncato da un
infarto cardiaco.
2) da qui in seguito abbrevierò talora “Luigi Bernabò Brea” con “il Bernabò”,
rinnovando una consolidata prassi usata assieme ai miei mentori di preistoria
italiana, quali Paolo Graziosi, Paolo Enrico Arias, Anton Mario Radmilli e
dagli anni Novanta e seguenti con Santo Tinè, mio ex direttore al tempo della
mia permanenza a Genova nell’Istituto Italiano di Archeologia Sperimentale.
L’uso era ristretto alle discussioni su scoperte e ipotesi dello studioso o nel
ricordare vicende di vita comune nei quali era stato anch’egli coinvolto.
Nell’abbreviazione non vi si legga dunque nulla di irrispettoso.
3) la prima volta che vidi Luigi Bernabò Brea fu all’età di otto anni,
nel 1965, in circostanze casuali. Ero in visita turistica sull’acropoli di
Lipari, trascinato dalla mia famiglia. Il Bernabò si trovava assieme ad una
coppia di stranieri, a discutere innanzi ai suoi scavi in un deposito di offerte
sacre databile a età greco-arcaica, il cosiddetto Bothros di Eolo.
Ero stato affidato dai miei genitori a Pia La Greca, la custode del museo nel
quale scalciando e urlando rifiutavo di entrare. Seduti sugli scalini
antistanti l’entrata, Pia ebbe tutto il tempo e la paziente dolcezza di
spiegarmi chi era quell’uomo a volte gravemente balbo e quindi
quanto fossi fortunato di esserlo anch’io.
Rividi Pia nello stesso luogo, agli inizi dell’estate 1976, il giorno in
cui andai a presentarmi al “professore”, parecchi mesi dopo essermi iscritto
all’Università di Messina. Negli anni seguenti il Bernabò divenne uno dei miei
mentori, poi mio testimone di nozze nel 1980, trasformandosi lentamente in
rapporto professionale che interruppi nel 1988.
4) oggi Monsignore, ormai vicino al mezzo secolo di intenso e autentico
sacerdozio svolto nella Diocesi di Lipari.
5) Iniziai lo studio parecchi mesi dopo al quale ne seguirono molti altri sia
di interesse archeologico che naturalistico. Per la bibliografia e ulteriori
notizie rimando alla nota 8.
6) Fratello del noto Arcivescovo di Messina. Sperimentare le qualità di quella
reliquia fu un indimenticabile privilegio, in quanto a quel tempo esistevano
ancora pochissime bottiglie di quel nettare mieloso, ottenuto dalla
coltivazione di un particolare vitigno eoliano purtroppo scomparso. Difatti,
l’antichissima, millenaria produzione della malvasia eoliana iniziò a
estinguersi nell’ultimo quarto dell’Ottocento a causa della invasione di un
insetto che divorava le foglie di vite, la filossera, un problema aggravato
negli anni 1930 dall’invasione della peronospora, un fungo anch’esso di
provenienza alloctona, causa di una terribile parassitosi che colpisce le
foglie e i frutti della vite. La produzione vinicola riprese nel Dopoguerra
grazie all’introduzione dell’uso di innesti con varietà di vitigni più
resistenti ed è oggi una delle maggiori attività agricole delle Isole Eolie.
Tuttavia, si tratta di produzioni di malvasie che, pur essendovene di
notevolmente pregiate, selezionate nel corso degli ultimi decenni, hanno poco
in comune con quella antica, sia nel sapore che nel profumo.
Alla fine del pranzo il Bernabò ci tenne a intrattenerci a lungo
sull’argomento, con prove d’assaggio, degustazione e comparazioni in quanto era
convinto che sarebbe scomparsa memoria di quel che si era perduto, e che
ignorando volutamente il passato le nuove produzioni di malvasia (che
qualificava spurie), sarebbero state alla fine celebrate quali di
millenaria sopravvivenza locale. Era la descrizione di un caso ante
litteram di “narrazione veritiera”, fenomeno oggi molto discusso.
7) Villari P., 1982, Coazze di Gazzo Veronese (Verona): alcuni problemi
stratigrafici nell’area di un insediamento paleoveneto. Atti della
Società Toscana di Scienze Naturali, Memorie, Serie A, vol. LXXXVIII,
pp. 169-189, ff. 8, tt. 2.
8) Molti degli studi naturalistici eoliani rimasero inediti a seguito
della mia decisione maturata nel 1988, di abbandonare le ricerche nelle Isole
Eolie. I risultati degli studi di archeozoologia eoliana sono stati pubblicati
nelle seguenti sedi:
Villari P., 1986, Nota preliminare allo studio delle faune della tarda
preistoria della Sicilia Orientale, Studi per l’Ecologia del
Quaternario, Firenze. 8: 169-176
Idem., 1991, The Faunal Remains in the Bothros at Eolo (Lipari), Archaeozoologia.
Journal of the International Council for Archaeozoology, La Pensée sauvage
Ed., Grenoble, vol. IV (2): 109-126
Idem, 1993, De la chasse à l’élevage: problémes d’interpretation en Sicile
Orientale, Anthropozoologica, Paris, 17: 47-48
Idem, 1993, Le faune della tarda preistoria nella Sicilia Orientale, Atti
del I Convegno di Archeozoologia, Rovigo 1993, Prétirage, pp. 24-25
Idem, 1993, Le faune del villaggio preistorico di Capo Graziano nel
contesto archeozoologico eoliano e siciliano dell’età del Bronzo, in Bernabò
Brea L., Cavalier M., Meligunìs Lipara, vol. VI, pp. 307-322
Idem, 1995, Le faune della tarda preistoria nella Sicilia Orientale (monografia),
Phoenix, Collana di Ecologia diretta da Marcello La Greca, Ente Fauna Siciliana
ed., pp. 1-493 (Faune preistoriche dall’Acropoli di Lipari, pp. 213-238).
9) al quale tra gli altri apparteneva anche Madeleine Cavalier, con il grado
di Maître de Recherche.
10) Villari P., 1991, The Faunal Remains in the Bothros at Eolo (Lipari), Archaeozoologia,
Journal of the International Council for Archaeozoology… op. cit. in nota 8.
Non accettai l’offerta di trasferirmi in Francia (così come altre ricevute
dall’Estero in quegli anni) in quanto, da idealista, speravo di poter
continuare a dedicare la mia vita agli studi pionieristici in Sicilia, nel
piccolo laboratorio che avevo istituito presso il Museo Archeologico di
Siracusa. Il mio posto di archeozoologo CNRS sotto la direzione del professore
Ducos (a quel tempo ne erano previsti nove) venne quindi assegnato ad un valido
ricercatore scandinavo.
Per le missioni svolte in Sudamerica e Polinesia rimando ai lavori che
pubblicai sulla rivista Ultramarina Newsletter, edita ad Amsterdam, grazie alla
volontà del direttore, prof. Omar R. Ortiz-Troncoso:
Villari P., 1996, Los restos faunisticos del centro ceremonial de Cahuachi
(Nazca, Perú): el monticulo 1, in Ultramarina Newsletter,
Amsterdam, vol. II, ISSN 1381-1355
Idem, 1997, Saggio di scavo nell’area di un Hare Moa sito in località Puna
Marengo (Isla de Pascua, Chile): esame preliminare dei resti faunistici, Ultramarina
Occasional Papers, vol.III, pp. 1-12, Amsterdam, ISSN 1383 -4754
11) Al professore Aldo Segre devo l’illuminante quanto inquietante
spiegazione del concetto di “suprematismo ebraico”, che era stato applicato
all’Istituto Italiano di Antropologia Umana del quale era divenuto direttore.
Difatti, il prestigioso istituto era divenuto totalmente costituito da
dirigenti, ricercatori, tecnici di laboratorio e persino studenti laureandi o
specializzandi, appartenenti alla religione ebraica o di essere discendenti di
famiglie ebree (Segre, Piperno, Bulgarelli, Cassoli, Tagliacozzo…). Vi era un
forte legame con le lobby ebraiche accademiche statunitensi, ed in particolare
con gli antropologi che scavavano nel famoso sito africano dell’Olduwai, al
quale partecipava nella qualità di ricercatore il giovane Marcello Piperno.
Questi fu mio mentore presso l’Istituto di Geologia dell’Università di Messina,
dove sotto la direzione del Segre aveva allestito un laboratorio dedicato allo
studio dell’industria litica preistorica che a decine di sacchi gli venivano
inviati dal sito africano.
Nonostante Segre avesse una pessima opinione della reale valenza
scientifica del Bernabò (ampiamente ricambiata da questi che non sopportava
nemmeno sentirne il nome), mi sconsigliò di “suicidarmi” professionalmente
pubblicando dati che in modo inoppugnabile smentivano le sue tesi scientifiche:
l’ex soprintendente sarebbe stato difeso da centinaia di altri studiosi in vari
campi di studio appartenevano a quella corrente di pensiero molto potente e
rispettata in Italia, con forti e preziosi legami all’Estero che permettevano
di usufruire di fondi per scavi e ricerche di laboratorio, e borse di studio.
Non si trattava di massoneria, ma di qualcosa posto a un gradino superiore
anche se similmente dannoso per una società la cui costituzione si prefiggeva
di garantire i diritti egalitari dell’intera popolazione. Era una sorta di
monolite dove coloro che giungevano ai vertici delle istituzioni statali
tiravano dentro esclusivamente elementi del popolo prediletto dal “loro” Dio,
ritenendosi da questo dotati di una intelligenza e diritti predominanti. Pensai
che, come molti altri correligionari romani dalla fine degli anni 1930 il
giovane Segre avesse subito un terribile trattamento da parte della popolazione
italiana e in seguito da quella svizzera (dove nel 1939 era fuggito, portandosi
dietro il devastante dolore dei lutti e delle deportazioni di familiari e
amici, si era arrangiato a fare il ciabattino per strada), causandogli
irrimediabili e gravi danni psichici aggravati in seguito dalla consapevolezza
di essere un sopravvissuto. Amava molto spesso definirsi un ebreo
nazista, privo di scrupoli verso coloro che l’avevano fatto soffrire.
Devo tuttavia ammettere che quanto, per pura amicizia, Aldo Segre e alcuni
anni dopo anche il carissimo geologo Prof. Alberto Malatesta anch’egli romano,
vollero mettermi al corrente trovò puntuale conferma negli anni seguenti,
quando mi resi conto che il Bernabò Brea aveva accolto nella soprintendenza di
Siracusa e aveva particolare riguardo solo per i dirigenti di origini ebraiche
raccomandategli da colleghi dell’Accademia dei Lincei aventi lo stesso “credo”
prevaricatore.
Per contenermi nell’ambito delle mie esperienze personali di uomo libero,
devo ammettere che una simile imbarazzante situazione lobbistica la notai anche
nell’ambito internazionale degli studi sulle riproduzioni archeologiche e sul
traffico internazionale di beni culturali. Ma quel che più mi stupì avvenne nel
Fiumedinisi Project, quando la convenzione regionale stipulata dall’Istituto
Italiano di Archeologia Sperimentale di Genova di cui ero membro, fu rilevata
per subentro in surroga dal Dipartimento di Antropologia della Università of
South Florida. Difatti, vidi eliminare pressoché l’intero gruppo internazionale
di noti archeologi che avevo creato per la prima campagna di scavi, Giugno
2008, sostituito con elementi appartenenti al contesto ebraico
anglosassone. Mi ritrovai in una situazione sgradevole, pur essendo stato
riconfermato direttore, ma tollerato soltanto quando poco prima di iniziare gli
scavi intervenne uno storico dell’Università di Catania.
Venni a conoscenza della vicenda solo alcuni anni dopo, nel 2010 da un
fratello di mia madre. Senza che ne sapessi nulla (è questa la prassi in quegli
ambienti) lo studioso catanese mise a conoscenza chi di dovere che,
in seguito a ricerche svolte dal fratello di mia madre, noto docente di
architettura dell’Università di Palermo, nel corso degli anni 1960 aveva
appurato la sua discendenza da una famiglia ebraica iberica. Per sfuggire alle
violente persecuzioni cattoliche alla fine del quindicesimo secolo, parte di
loro finì per rifugiarsi nell’Isola di Santamaura (oggi Leuca), una delle Isole
del Dodecanneso a quel tempo appartenente a Venezia, e dopo varie peripezie le
nuove generazioni si stabilirono nella cattolica Sicilia, avendo già da tempo
sostituito, a Cipro, l’antico cognome di stirpe davidica con quello dell’isola
di precedente provenienza.
Nel 2008, essendo all’oscuro di questo e altro, la situazione mi prese alla
sprovvista e mi sovvennero le atroci frasi del Segre, grazie alle quali con
profonda tristezza mesi dopo riuscii a ristabilire la normalità a Fiumedinisi,
sostituendo i partecipanti agli scavi che diressi nel Settembre 2008. Nel marzo
2009, tuttavia, si sommarono altri problemi con il locale potere dominante,
essenzialmente criminale, e venni rimosso da ogni incarico senza peraltro
riceverne alcuna spiegazione.
12) per approfondimenti si rimanda a: Carbone F., 8 Ottobre 1989, In
treno sui fossili, in “Panorama” settimanale di attualità, p. 67,
Milano; Villari P., 1991, Resti faunistici dal Ninfeo del Fusco, Siracusa,
in Animalia, vol.18, pp. 163-174; Bruno Ragonese e Ettore Rizza, 27
agosto 1995, Fusco: una distruzione enorme, incredibile, irreparabile. Non
deve restare impunita in “Grifone”, rivista bimestrale dell’Ente
Fauna Siciliana, pp. 4-6 (l’articolo contiene una mia dettagliata testimonianza
dei fatti); Villari P., 12 agosto 2022, La Tecnocrazia e il Sistema di
Potere in Sicilia. Parte V: il festschrift, il “cerchio magico”, e la
costruzione del mito dell’Intellighenzia tecnocratica, The Reporter’s Corner
consultabile on line all’indirizzo:
https://www.thereporterscorner.com/2022/08/la-tecnocrazia-e-il-sistema-di-potere.html
13) ben presto mi resi conto come la situazione fosse talmente
marcia da non esservi alcuna possibilità di operare interventi nei confronti di
un potere dominante, che ponendosi al di sopra delle leggi dello Stato, aveva
imposto l’impunibilità dei funzionari dello Stato e della Regione Siciliana
coinvolti nelle vicende. Ebbi invece ben maggiore successo nel campo dello
studio delle riproduzioni o imitazioni italiane di ceramiche archeologiche e
delle evidenze di un florido commercio borderline o criminale ad esse legato.
Ma in quell’ambiente non vi erano personaggi “protetti” dal sistema di potere
dominante, trattandosi di gruppi di artigiani spesso pesantemente sfruttati da
mercanti, case d’asta e collezionisti disonesti. Il risultato dello studio e
delle indagini svolte a livello internazionale furono in parte pubblicati in
due monografie edite in Olanda.
14) Villari P., 31 Agosto 1998, La vera storia della
collezione numismatica dei Baroni Pennisi di Floristella, in “Grifone”,
bimestrale dell’Ente Fauna Siciliana, pp.4-7, con la prefazione del
direttore Bruno Ragonese; Villari P., 30 Giugno 2000, La vera
storia della collezione numismatica dei Baroni Pennisi di Floristella. 2)
Quando la Regione Siciliana sborsò oltre quattro miliardi di lire, in “Grifone”,
bimestrale dell’Ente Fauna Siciliana, pp. 6-10.
15) per una descrizione di questo personaggio del sistema partitocratico
siciliano dalla metà degli anni 1970 ai primi anni 1990, si può consultare:
Villari P., 14 agosto 1993, Giuliana d’Olanda e Luciano di Gesso, in Centonove,
p. 19; e in particolare il recente lavoro e le note bibliografiche in esso
contenute: “La Tecnocrazia e il Sistema di Potere in Sicilia. Parte V: il
festschrift… op. cit. in nota 9.
16) Villari P., 14 agosto 1993, Giuliana d’Olanda e Luciano di Gesso…,
op. cit.
17) del rapporto sul “pupazzo” pirandelliano e “pupi” del sistema dominante
siciliano, e bibliografia di riferimento, rinvio al mio saggio “Tecnocrazia e
Sistema di Potere in Sicilia. Parte V: il festschrift…, op.cit. in nota 7.