Autore: Pietro Villari, 14 Febbraio 2023. Tutti i diritti riservati.
Come iniziai a interessarmi della vicenda
Nell’autunno del 1989 il Prof. Ing. Giorgio Umiltà
dell’Università di Palermo richiese la mia collaborazione, in qualità di
archeologo libero professionista, a una perizia in località La Montagnola di S.
Giovanni Gemini, ove da quarant’anni era attiva una cava di pietra
pregiata. Si trattava di una autorizzazione estrattiva precedentemente mai
questionata dalla locale Soprintendenza, pur avendo questa attività per diversi
decenni compromesso paesaggisticamente il versante meridionale di uno dei più
affascinanti luoghi d’altura della Sicilia Centrale, situato nella provincia di
Agrigento lungo la splendida Valle dei Platani.
La Montagnola e le aree adiacenti erano già note agli
studiosi di preistoria sin dai primi anni 1970 grazie alle esplorazioni
archeologiche di superficie e speleologiche condotte da Gerlando Bianchini,
alla cui appassionata dedizione si devono le scoperte di molti altri siti preistorici
dell’Agrigentino (1). A debita distanza, ovvero a circa tre
chilometri a settentrione dal fronte di cava, vi è la Grotta dell’Acqua Fitusa,
una cavità ipogeica interessata da un circuito di risalita di fluidi sulfurei
che nell’antichità furono sfruttati ad uso termale. All’interno vi furono
rinvenuti resti umani e faunistici e reperti attribuiti a un’industria litica
epigravettiana in gran parte ottenuta su quarzite, datate a circa dodicimila
anni a.C. Mentre a meridione dell’area di cava, presso la Rocca del Vruaro
durante una esplorazione di superficie fu trovato uno strumento bifacciale in
quarzite, la cui tecnica di lavorazione e forma amigdala è
stata datata al corso del Paleolitico Medio. In definitiva rivela una notevole
capacità tecnica riscontrabile anche in simili oggetti molto diffusi in siti
coevi nordafricani (2).
Per quanto mi allettava l’idea di visitare quei luoghi
che segnavano gli antichi confini tra le antiche popolazioni Sicule e Sicane,
all’inizio non desideravo occuparmi ancora della Sicilia, in quanto quell’anno
avevo avuto un ennesimo forte scontro con il ferreo sistema di potere che
sfruttava in termini politico-clientelare i beni culturali isolani. Avevo già
compreso che a quel tempo non vi era ancora alcuna possibilità di inserire
innovazioni in quel putrido stagno. Sapevo che decenni dopo la situazione
sarebbe cambiata, ma ignoravo il fatto che il sistema cambia solo per cambiare
pelle, non la propria struttura interna. Solo alle sue giovani leve, ovvero a
coloro opportunamente scelti tra i rampolli della sua koinè e
fatti specializzare all’Estero, sarebbe stato concesso di condurre un
rinnovamento scientifico, ma non dottrinale, del sistema di potere (3).
Vi era un aspetto umano della vicenda che si stava
consumando in quella cava dell’Agrigentino che mi trattenne dal voltare le
spalle e dirigere lo sguardo altrove. Per avere una immagine a tutto tondo
della situazione, ebbi l’accortezza di chiedere informazioni a Palermo presso
la redazione del giornale “L’Ora” (4), covo di segugi dal
fiuto fino e notevole coraggio.
Dopo alcuni giorni mi venne delineato un quadro della
situazione piuttosto grave, decisamente allarmante, di quanto stava avvenendo
in quell’area. Gli informatori indicavano un recente potenziamento delle
attività estrattive di quella cava, con la conseguente produzione di notevoli
quantità di materiali edili di alta qualità. Poteva divenire una delle più
importanti della Sicilia, una concorrenza che avrebbe comportato squilibri di
potere nel controllo di quel ricco “business” legato sia al sistema degli appalti
pubblici isolani che alle grandi costruzioni private. Si considerava la
possibilità dell’insorgenza del rafforzamento del sistema di potere della
Sicilia Centrale, con ripercussioni visibili anche al vertice politico della
Regione Siciliana. Tuttavia, mi sembrò di capire, il vertice del potere
dominante siciliano era intervenuto mantenendo un basso profilo silenzioso e
privo di violenze eclatanti (ovvero di delitti eccellenti), circoscrivendo
burocraticamente il problema in modo da bloccare le mire espansive delle
attività della cava in contrada Puzzillo.
Il piano della Ditta Panepinto, a quel tempo
pionieristicamente innovativo, era quello di sistemare in modo gradevole
l’immensa area escavata, e con il ricavato di renderla un parco
paesaggisticamente attraente, dove condurre attività della filiera turistico-alberghiera
legate alle attrazioni naturalistiche e alla tradizione etno-antropologica
presenti nel territorio. Gli operai della cava sarebbero stati assorbiti nelle
nuove attività con notevoli benefici per tutto il comprensorio.
E invece, in quell’area disastrata della Sicilia
Centrale gli interessi di gruppi di potere esterni della Sicilia avevano
pensato alle proprie tasche e condannato ben ottanta lavoratori siciliani. In
procinto di perdere il lavoro, ottanta famiglie proletarie erano destinate a
lottare disperatamente per la propria sopravvivenza, una parte di loro
emigrando nell’Italia Settentrionale o all’Estero. E difatti, parecchi anni
dopo appresi che alcuni si erano spinti persino in Belgio, dove per sfamare la
famiglia in modo onesto erano finiti nelle tristemente famose miniere di
carbone, luoghi nei quali era altamente probabile ammalarsi gravemente e
scivolare lentamente in una morte lenta e orribile.
Ma questo non importò mai a nessun politico, né
tantomeno ai fighetti accademici o ai giornalisti di Sistema. Perché in Sicilia
della gente povera, di quella classe che non ha nulla da offrire, ci si ricorda
solo in periodo elettorale cercando di abbindolarla sfruttandone la
disperazione per poi abbandonarla al proprio destino, quello che spesso conduce
ad una inevitabile vita di manovalanza “expendable” al servizio della
criminalità. Fonte d’individui da macello che, se risparmiati nel minore dei
mali possibili, ovvero gettandoli a marcire nelle carceri, sopravvivono
divenendo soggetti disumanizzati ma viventi, in quanto funzionali ai colossali
affari legati alla gestione dei detenuti. La dignità spremuta via diviene, nel
loro immaginario, un passaporto riservato solo alle classi medie e alte della
piramide sociale.
A quel punto avrei dovuto comprendere che ogni mio
successivo intervento nella vicenda era destinato al fallimento. Ed invece
divenne inevitabile che finissi per interessarmene immediatamente, in quanto
ero pervenuto alla convinzione che bisognava raccogliere nel più breve tempo
possibile le testimonianze di un pezzo di Storia siciliana, che per la sua
tipicità e gravità, per i personaggi e le pubbliche Istituzioni coinvolte era
destinata a essere silenziata e scomparire senza lasciare tracce testimoniali di
quell’importante periodo nel quale avevo ben disillusa coscienza di vivere.
L’unica persona della quale istintivamente mi fidavo, che conoscevo e sapevo mi
avrebbe accolto con favore in quella provincia, illuminandomi sulle modalità di
conduzione di un’indagine in quel territorio e introducendomi in quel difficile
ambiente, Leonardo Sciascia, era morto quell’anno e adesso ne sentivo
pesantemente la mancanza (5). Ad Agrigento, come vedremo più
avanti, mi trovai innanzi a un muro di gomma, con quei tipici discorsi dove si
lascia intuire senza dire, quelle risposte con pause di silenzi colmi di un
nulla talmente ostile da percepirlo foriero di disgrazie.
In quegli anni in Sicilia accaddero altre numerose
vicende delle quali mi occupai e alla fine, dopo aver raccolto quante più
possibili informazioni soprattutto nel Messinese (ricordo ad esempio quella
legata agli scavi nell’area del Tribunale di Messina, o quell’altra che sfiora
il surreale rappresentata dalle modalità di devastazione della Villa Romana di
Santa Melania) e avere ottenuto altrettanti numerosi dinieghi di pubblicazione
dei miei articoli da parte dei quotidiani di tiratura regionale, dovetti in
breve indirizzare le mie attività professionali all’Estero e nell’Italia
Centro-Settentrionale.
Passarono gli anni, e nel dicembre 1996 accettai
l’invito rivoltomi in quell’anno da uno zoologo, verso il quale nutrivo
profonda stima professionale, il Prof. Emerito Marcello La Greca, di entrare a
far parte dell’Ente Fauna Siciliana del quale era Presidente. Mi trovai molto
bene in quell’ambiente, dove militavano anche altri autorevoli scienziati
siciliani, tra cui il carissimo Prof. Salvatore Cocuzza Silvestri (a quel tempo
docente di Vulcanologia Etnea all’Università di Catania). Pur essendo residente
la maggior parte dell’anno in Olanda e mantenessi attività professionali in
altri Paesi europei, agli inizi del 1999 mi spinsi a fondare e dirigere le
attività della sezione di Messina e provincia dell’E.F.S., attività che
continuai sino alla fine del 2000. Nel 2001 dovetti troncare la collaborazione,
oberato dagli impegni Oltralpe e contrastato dai primi progressi di una grave
malattia che mi aveva colpito anni addietro, fui costretto a circoscrivere gran
parte delle attività al Nord Europa.
Nel corso della mia militanza nell’Ente Fauna
Siciliana, il suo organo stampa bimestrale, “Grifone”, pubblicò diversi miei
lavori su problematiche inerenti ai beni archeologici e ambientali, e tra
questi nell’autunno 1999 vi era l’articolo qui di seguito riportato.
Da “Grifone”, 31 Ottobre 1999 (6)
In questi giorni soffro di mal di denti. “Fatti
suoi” avrebbe seccamente detto Sciascia (7), intendendo
dire che, da un punto di vista giornalistico, è una notizia di nessuna pubblica
utilità. Aggiungo che si tratta di un molare cariato, una sorta di torrione
sventrato per tre quarti. Consultati più dentisti ho avuto due differenti
pareri: l’uno di estrarlo, l’altro di ripararlo. Non fa notizia, ma l’immagine
è allegorica di quel che resta della stupenda Montagnola di S. Giovanni Gemini,
che si erge orrendamente mutilata lungo la Valle del Platani, nell’entroterra
occidentale a metà strada tra Agrigento e Palermo.
Riassumo in poche righe la vicenda che vista da qui,
in terra olandese, sembra impossibile o meglio tutta siciliana, degna di un
nuovo tormentone televisivo. Seconda metà degli anni Ottanta. Un tizio rileva
una cava di pietra pregiata attiva da circa quarant’anni. Sin da ragazzino il
suo sogno è di convertire l’area, tramite un mirabile restauro ambientale, ad
attività agroturistiche. I soldi del restauro proverrebbero dal materiale
prodotto dalla eliminazione dei costoni pericolanti, dalla sistemazione dell’area.
Interviene la Soprintendenza apponendo dapprima il vincolo archeologico al
quale due anni più tardi segue quello paesaggistico. Quest’ultimo è stato
dichiarato nullo nel 1995 dalla giustizia amministrativa.
Il vincolo archeologico invece resta ed è a mio avviso
completamente infondato.
Quanto sto per scrivere è da tempo noto
all’Assessorato regionale dei Beni Culturali e Ambientali, ma nessuno sente il
dovere, il potere o la volontà di intervenire. Ottanta operai sono stati
licenziati, la maggior parte è stata costretta ad emigrare, l’economia di un
intero paese ne ha pesantemente risentito. Il dolore di tante famiglie di
disgraziati costretti a lasciare il paese, la casa, gli affetti per andare a
lavorare in terra straniera non provoca alcuna sensazione a certa gente con due
dita di pelo sullo stomaco ed un bel conto in banca, quello sì all’Estero,
frutto di ciò che dovrebbe essere definita prostituzione burocratica.
Premetto di essere venuto a conoscenza di una
eloquente quanto drammatica registrazione di una conversazione telefonica tra
un noto docente universitario catanese ed una funzionaria della Soprintendenza.
Nell’autunno del 1989 fui contattato telefonicamente
dall’Ing. Giorgio Umiltà di Palermo per effettuare una perizia in località
Montagnola di S. Giovanni Gemini, in provincia di Agrigento. L’ingegnere mi
accennò trattarsi di un vincolo archeologico emanato in un’area sede di
attività estrattiva. Poiché aveva delle perplessità, desiderava conoscere anche
il mio parere in qualità di archeologo. La cosa mi interessava molto in quanto
sino a quell’anno, non avevo mai effettuato esplorazioni nell’Agrigentino e così
fissammo un appuntamento a Termini Imerese per giorno 14 Ottobre e da lì,
accompagnato in auto dall’Ing. Umiltà, mi recai alla Montagnola di S. Giovanni
Gemini ove effettuai il sopralluogo.
Rimasi piuttosto deluso dal fatto che nulla affiorava
di rilevante, eccetto una singolarissima evidenza. Infatti, in una piccola area
sita presso la sommità pianeggiante del monte, circa una trentina di metri
quadrati, sulle rocce e tra l’erba ovvero in superficie erano presenti
frammenti di ceramiche tornite dipinte con decorazioni geometriche. Alcune
erano porzioni di tazze di tipo protocorinzio, ben pulite e stranamente affatto
deteriorate dagli agenti atmosferici (che per quel tipo di ceramica è sicura prova
di una recente esposizione in superficie). La maggior parte apparteneva invece
a una classe di fattura più rozza, di un tipo ben noto nella zona essendo di
produzione indigena. Vi erano anche alcuni frammenti di ossa sub-fossili, che
classificai quali resti di bove e di pecora.
Ricordo che indicai i frammenti anche all’Ing. Umiltà,
il quale mi chiese se dovevamo raccoglierli. Consigliai di lasciarli in sito,
senza spostare nulla anche se era evidente che si trattava di pezzi sporadici.
Osservai attentamente le sezioni stratigrafiche che affioravano ai margini di
quell’area, essendo a strapiombo sul fronte di cava: notai solo pochi reperti,
appoggiati sulla sezione e sulla roccia alla base della sequenza, nessuno
emergeva dal terreno, ovvero non apparivano in relazione con questo. In
generale, la tessitura stratigrafica della sequenza non mostrava segni di
antropizzazione del sito. Fatto ancora più strano, tutto attorno a quest’area,
non affiorava alcunché di eguale interesse archeologico.
Ci recammo negli uffici della cava dove conobbi uno
dei proprietari, il Sig. Salvatore Panepinto che mi chiese un parere. Gli
comunicai quanto avevo osservato aggiungendo che, a mio avviso, l’emissione del
vincolo mi sembrava non motivata. Rimasi ancora più perplesso quando appresi
che il provvedimento era stato emesso in mancanza degli accertamenti previsti
dalla legge, senza che fossero state eseguite campagne di scavi archeologici da
parte della locale Soprintendenza. Chiesi a proposito dell’area ove avevo
localizzato i frammenti ceramici e le ossa, e mi rispose che era stata oggetto
di sopralluogo da parte di tecnici della Soprintendenza.
L’area dei rinvenimenti era molto limitata, la
presenza di alcuni reperti era di rilevante interesse storico, in quanto
sembrava indicare contatti con le popolazioni di quella vallata con il mondo
greco già nell’ottavo secolo avanti Cristo. Una scoperta importante essendo la
prima volta che tali reperti venivano rinvenuti in quella parte dell’Isola.
Dapprima mi chiesi se si trattasse dei resti di una ricca sepoltura da poco
distrutta, ma la presenza delle ossa animali mi fece piuttosto pensare a
un’area votiva, sita sulla sommità del monte. Questo era almeno quello che si
poteva ipotizzare dall’evidenza di superficie, o che tale qualcuno desiderava
apparisse. Difatti, questo insieme era in contrasto con una legge fondamentale
della ricerca archeologica, quella dell’evidenza stratigrafica. La sequenza
stratigrafica sembrava parlare chiaro: non vi erano tracce di livelli di
notevole interesse archeologico.
Chiesi al proprietario della cava ulteriori
approfonditi ragguagli circa il percorso giuridico che aveva condotto alla
emissione del vincolo, ed alla fine mi sembrò che in quanto a stranezza facesse
il paio con quella dei cocci in superficie.
Vi era un altro dato di fatto che suscitava in me una
notevole perplessità. Negli ultimi cinquant’anni la zona era sempre stata
all’attenzione della Soprintendenza, che tuttavia negli anni Sessanta non si
era opposta alla concessione del permesso estrattivo ed al conseguente
sventramento dello splendido torrione calcareo della Montagnola, intervenendo
solo quando tale operazione procedeva da decenni, giunta ormai a un livello di
irreparabile devastazione. Per quale motivo, da un punto di vista della tutela del
bene naturale e paesaggistico (non considero quello archeologico in quanto era
ed è tecnicamente improbabile), il vincolo venne emesso così tardivamente, in
concomitanza con il cambiamento di proprietà della cava?
Seppi che i nuovi proprietari avevano installato
macchinari di tale efficienza che quella cava, una delle migliori della Sicilia
per qualità dell’estratto, sarebbe in breve divenuta anche una delle più
importanti. Se quindi il vincolo giungeva assurdamente tardivo da un punto di
vista della tutela, era invece perfettamente in tempo per stroncare quella
attività.
Avrei voluto approfondire il caso, ma in quel momento
ero impegnato con un’altra vicenda altrettanto poco edificante per la storia
dell’archeologia siciliana, quella della distruzione di parte di un’area
archeologica e paleontologica di eccezionale importanza sita nella Sicilia
Orientale, vicenda anche quella tutta siciliana, avvenuta nel corso di scavi
condotti dalla Soprintendenza ai BB.CC.AA. di Siracusa (il Soprintendente,
plurinquisito e già ospite delle patrie galere, è ancora al suo posto). Da lì a
poco mi sarei scontrato anche con la Soprintendenza ai BB.CC.AA. di Messina a
causa di altrettanto incredibili distruzioni, tra le quali i resti di una villa
d’età romana dimora dell’Imperatrice Melania, che per anni vi trovò rifugio
dalle orde barbariche che devastarono Roma (la facente funzioni di
soprintendente venne in seguito condannata con patteggiamento della pena. E
poco tempo dopo promossa al superiore grado di
Soprintendente!... È curioso l’assoluto silenzio del mondo cattolico
per la distruzione di questo luogo, da considerare degno di pellegrinaggio in
quanto l’imperatrice Melania è annoverata tra i Santi della Chiesa).
Avevo già troppi problemi ed in Sicilia mi trovavo
ormai completamente isolato dal contesto degli archeologi universitari e delle
soprintendenze. Chiesi a molti colleghi, in ambito nazionale prima e
internazionale poi, di scendere in campo per denunciare quanto stava avvenendo
in quegli anni in Sicilia, ma quello dei beni culturali è un mondo così chiuso
in sé stesso che queste iniziative erano, allora come oggi, inimmaginabili da
intraprendere.
Quel giorno mi congedai dal disperato Panepinto nella
impossibilità di aiutarlo, ma consigliandogli di richiedere alla Soprintendenza
ai BB.CC.AA. di Agrigento una campagna di scavi archeologici, ovvero di saggi
di scavo, in tutta l’area sottoposta a vincolo, al fine di constatare o
confutare la presenza di resti di tale rilevanza da giustificarne il
mantenimento.
Molti anni dopo, non ricordo se il 19 o il 20 luglio
del 1997, in occasione della mia partecipazione al Primo Convegno di Preistoria
e Protostoria siciliana (tenuto a Corleone per combattere la mafia con la
cultura, si disse), assistetti alla relazione della dott.ssa Domenica “Nuccia”
Gullì inerente a una campagna di scavi da lei condotta presso S. Giovanni
Gemini (ma non quella della Montagnola). Durante una pausa dei lavori le chiesi
il motivo per il quale aveva eseguito lo scavo in quell’area, essendovene
un’altra a poche centinaia di metri di importanza scientifica certamente
maggiore (tant’è che era stato emesso il vincolo archeologico!...).
Rispose che non ne sapeva nulla e che anzi era molto
interessata. In breve la misi al corrente dei fatti. Mi sembrò sbalordita
quanto entusiasta e mi disse che avrebbe parlato quella sera stessa con la
Soprintendente dott.ssa Gabriella Fiorentini, e sia con il Prof. Ernesto De
Miro (potente ex Soprintendente di Agrigento e contemporaneamente ex
Direttore dell’Istituto di Archeologia dell’Università di Messina). Cosa che
puntualmente avvenne poiché il giorno dopo, ancora in Corleone, mi comunicò
l’offerta della Soprintendente ad eseguire scavi in quell’area, ai quali
avrebbe assistito anche lei. L’Ufficio Tecnico della Soprintendenza avrebbe
operato nel più breve tempo al fine di ottenere l’emissione di un decreto di
occupazione temporanea del sito.
Decidemmo così di vederci la mattina del 28 luglio in
Agrigento. Da qui, ovvero dai locali della Soprintendenza, accompagnati da tre
dipendenti (se ben ricordo un autista e due funzionari dell’ufficio tecnico) ci
recammo in auto a S Giovanni Gemini. Uno dei funzionari, un geometra, aveva con
sé una videocamera di tipo professionale ed una macchina fotografica. Ci
fermammo in uno spiazzo antistante l’area della cava della Montagnola ove i
funzionari mi chiesero di indicare l’area dei rinvenimenti. Dapprima pensai che
questa fosse stata distrutta dall’attività estrattiva, ma in seguito mi resi
conto che era rimasta intatta. Indicai il sito, il geometra fece numerose
riprese e lo localizzò sul foglio di mappa. Tornammo quindi ad Agrigento ove
pranzai a casa della Gullì e quindi rientrai a Messina.
Trascorse ancora una settimana e non ricevendo alcuna
comunicazione circa gli scavi che la Gullì aveva detto imminenti, decisi di
telefonarle per chiederle ragguagli. Questa mi riferì che la Soprintendente non
desiderava rischiare: uno scavo sterile di evidenza archeologica avrebbe dato
la possibilità ai proprietari della cava di richiedere la revoca del vincolo
archeologico. Le dissi che bisognava tentare lo stesso, in quanto i
rinvenimenti di superficie erano di tale singolare importanza che richiedevano un
intervento di scavo, aggiungendo che avrei contattato i proprietari chiedendo
loro il permesso di esplorare l’area per constatare se fosse ancora nelle
medesime condizioni in cui l’avevo esaminata. La risposta fu piuttosto evasiva.
Era ormai chiaro che il mio interesse alla vicenda non era accetto a qualcuno.
Questa volta non mi tirai indietro e decisi di
contattare il Sig. Salvatore Panepinto, che in data 11 agosto mi chiese di
redigere una relazione archeologica sull’area di cava. Aspettai ancora invano
notizie della Soprintendenza, finché il 26 e 27 agosto mi recai in S. Giovanni
Gemini ove condussi una accurata esplorazione di superficie dell’intera area.
Così come parecchi anni prima, non emersero evidenze
archeologiche di tale importanza da giustificare il vincolo. Esplorai palmo a
palmo l’area ove avevo localizzato le ossa animali ed i frammenti ceramici, ma
con mio stupore riuscii a vedere solo alcuni frustuli. La situazione
stratigrafica si era però mantenuta immutata. Lo scavo era ancora ampiamente
realizzabile su una vasta area pressoché intatta della sommità pianeggiante,
misurante centinaia di metri quadrati. Se qualcosa fosse realmente un tempo esistito
gli scavi lo avrebbero senza dubbio rivelato.
Rividi la dott.ssa Gullì al Museo di Agrigento il 5
settembre in occasione di un convegno. Mi ribadì l’impossibilità di effettuare
lo scavo. Dissi che i Panepinto avrebbero dato il loro permesso e che la
situazione si era mantenuta intatta. Rispose che ne avrebbe parlato con la
Soprintendente. Tornai alla carica sinché quest’ultima non mi ricevette, giorno
1 ottobre, nel Museo di Agrigento, ove mi recai accompagnato dalla Gullì. La
Soprintendente fu molto cortese, la discussione durò due ore, esattamente tra
le undici e le tredici. Mi resi subito conto che non aveva alcuna intenzione di
effettuare lo scavo. Si mostrava convinta che si trattasse di una antica città
che i cavatori avevano distrutto. Bisognava quindi mantenere il vincolo
archeologico, anzi restaurare i costoni pericolanti (risultanti dall’attività
di cava) in quanto, a suo avviso, rappresentavano le mura naturali della
città. Inoltre, mi ripeté più volte che la revoca del vincolo avrebbe spinto i
proprietari di altri terreni siti nell’Agrigentino a richiedere lo stesso
trattamento.
La sensazione che ebbi della vicenda fu che la
dott.ssa Fiorentini avesse ereditato la situazione, per lei adesso
difficilmente sostenibile, dal Prof. De Miro, suo predecessore e mentore.
Constatavo ancora una volta quanto in Sicilia la realtà della ricerca, tutela e
valorizzazione dei beni archeologici fosse lontana dagli insegnamenti dei miei
maestri alla Scuola di Specializzazione dell’Università di Pisa. Pensai anche
che come sempre a pagare sono soprattutto le classi fuori dai giochi di potere,
in quel caso quelle famiglie di operai costrette a emigrare in cerca di lavoro
lontano dalla propria terra.
Salvatore Panepinto non si è mai dato per vinto ed ha
tentato ogni via legale per ottenere giustizia, spendendo una fortuna in periti
e avvocati. Così come i suoi operai è stato costretto a cercare lavoro fuori
dalla Sicilia, all’età di cinquant’anni.
La vicenda è da inquadrare nelle modalità di gestione
dei beni culturali in Sicilia dagli anni Sessanta in avanti. Ciò che è accaduto
nell’Isola ha quanto meno avuto il tacito consenso, forse meglio definibile
connivenza, nel contesto universitario, oltreché in vari livelli istituzionali
e mi chiedo se anche in questo risieda la potenza di quel che è da decenni
denominato il Monolite dei Beni Culturali.
Se il baronato universitario, che dovrebbe
rappresentare la massima espressione intellettuale della società siciliana,
avesse agito correttamente certe devastazioni non sarebbero mai state operate
nella totale impunità. Ed invece si è limitato al silenzio, al quieto vivere,
chiedendo all’Assessorato Regionale dei BB.CC.AA. sovvenzioni miliardarie,
presenziando nelle commissioni di tutti i concorsi regionali, sistemando
nell’organico dell’Amministrazione parenti, amanti e portaborse propri e dei
protettori politici. Do ut des.
Mi chiedo anche se la stabilità di tale potere
indigeno, incontrastato da circa un ventennio, sia oggi posta in essere da
nuove lobbies affaristiche, in ascesa grazie alle conseguenze
dei noti cambiamenti politici internazionali. Si badi bene che non si affaccia
un periodo migliore, anzi sarà peggiore, all’insegna della speculazione
pianificata in grande stile, della cementificazione di coste e aree
archeologiche da parte di potentissimi gruppi finanziari che non possono essere
contrastati a livello regionale.
È ormai evidente che all’Assessorato dei
BB.CC.AA. della Regione Siciliana, occorra un intervento esterno non più
politico, essendo questo pienamente fallito, ma della Magistratura. Ammesso che
in questa vi sia ancora chi abbia la forza di agire contro potenti
multinazionali ben collegate a livello politico nazionale e europeo. Si tratta,
per intenderci, di gruppi cha agendo all’unisono potrebbero essere in grado di
cambiare gli equilibri strategici nel Mediterraneo.
In questa situazione gli assessori che si sono
succeduti, ovvero i politici di turno designati da accordi tra partiti in base
a non si sa quali requisiti tecnici, sono stati solo apparentemente al vertice
del sistema, ma in realtà esterni a questo, nei migliori dei casi forse talora
in pericolo di essere travolti da meccanismi che non ammettono radicali
interventi esterni sul controllo di spese pubbliche e private per migliaia di
miliardi (di lire italiane). È questa a mio avviso la chiave di lettura
dei fallimenti dei tentativi di trasferimento (e si tratta solo di
trasferimento e non di rimozione!) dei dirigenti delle Soprintendenze regionali
operati nel corso degli ultimi anni: quei dirigenti, quasi tutti da molti anni
o decenni al loro posto, sono tra i più importanti tutori del sistema degli
appalti pubblici e privati a livello locale e, tutti insieme, di quello
regionale.
I maggiori rappresentanti del monolite indigeno sono
oggi destinati a divenire solo piccole pedine nel gioco affaristico del
villaggio globale. I più sono personaggi non adeguati ai tempi, scomodi, e solo
per questo forse saranno sostituiti in base a volontà e necessità non
siciliane. Consapevoli della situazione, già provano a trovare vie di fuga:
progetti di leggi regionali per favorire il prepensionamento, una cattedra in
una qualsiasi università centro-meridionale. Ma se negli anni Ottanta quest’ultima
poteva essere una operazione facile, oggi lo è molto meno. Cosa possono offrire
in cambio in questo momento? Oggi come allora vale sempre la stessa
legge: do ut des.
Il problema non risiede nella riuscita della
cosiddetta rotazione del personale, che pure necessita così come la
sostituzione di molti dirigenti, ma di un maggior controllo delle attività di
gestione. Occorre ristrutturare l’apparato, immettere tecnici specializzati
nella valorizzazione a livello imprenditoriale dell’immenso patrimonio. Bisogna
rendere attivo il bilancio dell’Assessorato, attualmente fortemente passivo.
Una serie di riforme alle quali si oppone il ben radicato apparato burocratico
affiancato dalle connessioni universitarie, imprenditoriali e di gran parte del
contesto politico regionale. Un insieme monolitico indigeno che dal sistema
delle opere pubbliche, delle grandi elargizioni di denaro dello Stato, ha
sempre ricavato il potere di controllo delle attività dell’Isola.
Nell’assoluta mancanza di una classe dirigente
altamente professionale, nella impossibilità di continuare a elargire denaro
per attività non redditizie, la Regione Siciliana deve oggi aprire
all’iniziativa privata anche ne settore dei beni culturali. Un piatto
ricchissimo, operazioni già pianificate da anni.
Forse si realizzeranno decine di migliaia di posti di
lavoro, ma il prezzo da pagare ai nuovi colonizzatori ed ai loro proconsoli
indigeni sarà altissimo.
Ma davvero credeva, caro Panepinto, che dopo
quarant’anni di cava, di incontrastato sventramento della stupenda Montagnola
di San Giovanni Gemini, la Soprintendenza le avrebbe permesso di rilevare
l’attività per realizzare un restauro ambientale ed impiantare impunemente una
cooperativa agro-turistica? Ma dove si credeva di vivere, in Europa?
RELAZIONE ARCHEOLOGICA (8)
Area delle cave Puzzillo Costruzioni S.p.A. e F.lli
DI Dolce S.r.l.
Contrada Puzzillo, zona Montagnola
Comune di San Giovanni Gemini
(Agrigento)
PREMESSA
In data 11 Agosto 1997 abbiamo ricevuto
l’invito rivoltoci dalla Ditta Puzzillo Costruzioni S.p.A. di esprimere parere
tecnico in merito all’apposizione del vincolo archeologico in contrada
Montagnola di San Giovanni Gemini, da oltre trent’anni interessata da attività
estrattiva quale cava di calcare.
Dopo aver preso visione del
voluminoso fascicolo inerente alla vicenda ed avere effettuato una campagna di
accurate esplorazioni archeologiche di superficie, abbiamo deciso di
intervenire con la presente relazione tecnica.
In seguito alla lettura delle
motivazioni espresse nel decreto di vincolo imposto dall’Assessorato ai
BB.CC.AA. della Regione Siciliana (Decreto n.2313 del 22-05-1989), formulate in
base alla relazione tecnica redatta dalla Soprintendenza ai BB.CC.AA. di
Agrigento trasmessa in data 6-3-1989 (prot. n. 506), nonché alla lettura delle
comunicazioni della stessa inviate in data 13-8-1987 (prot. n. 11254), 4-7-1997
(prot. n. 9248), 16-8-1995 (prot. n. 4471), riteniamo necessario fare chiarezza
su alcune nozioni proprie della ricerca e della tutela archeologica, le quali
sembrano essere state inspiegabilmente po o affatto considerate.
La loro comprensione è
fondamentale per risolvere la controversia.
1) Solo lo scavo archeologico può
restituire elementi atti alla ricostruzione eventografica delle fasi di
occupazione o di frequentazione antropica in un data area;
2) Solo lo scavo archeologico può
restituire evidenze atte alla seriazione cronologica di insiemi di manufatti
(ceramiche, edifici, tombe, ecc.) ovvero alla datazione dell’utilizzo di una
data area;
3) Eventuali manufatti mobili
d’interesse archeologico rinvenuti in superficie, non possono essere assunti
quali prove dell’esistenza di un contesto archeologico pertinente a quella data
area. Difatti, negli studi di archeologia è prassi comune che i reperti mobili
di superficie quali oggetti metallici, ossa, vetri e ceramiche siano
rigorosamente separati dagli oggetti rinvenuti in fase di scavo, in quanto è
noto che talora provengono da altre aree;
4) Se è vero che chiunque può
introdurre in un fondo reperti archeologici (ad esempio mediante la
sistemazione di terreni di riporto), è altresì vero che nessuno può
efficacemente falsare una stratigrafia di interesse archeologico. La qual cosa
è impossibile se si tratta di livelli di occupazione antropica in giacitura
primaria ed in una vasta area;
5) Quando un abitato d’età
storica di certa consistenza viene sconvolto dall’azione di rimaneggio operata
con mezzi meccanici quali aratri o, ancor più, da ruspe, in superficie e nel
terreno rimaneggiato rimangono presenti migliaia di manufatti mobili ovvero
frammenti di ceramiche, resti ossei faunistici, oggetti metallici e litici,
vetri. L’azione delle ruspe in una data zona carsica, quale la sommità della
Montagnola di San Giovanni Gemini, non può giungere a intaccare le piccole
cavità naturali (in questo caso i cosiddetti “campi solcati” o “karren”) ed
artificiali (strutture quali fosse, pozzetti, buche di palo) nelle quali si
conservano depositi di riempimento ancora in giacitura primaria;
6) In un banco calcareo, una
piccola forma di forma irregolarmente trapezoidale, misurante m. 0,40 x 1,00 x
0.30, di origine naturale o artificiale che sia, non può essere denominata
“tomba” se non risultante da uno scavo archeologico in cui siano state dimostrate
l’esistenza di resti del defunto e dell’eventuale corredo. Qualsiasi struttura
di tale tipo, comune a varie culture ed a differenti latitudini, potrebbe
essere stata utilizzata tanto per accogliere una sepoltura quanto quale
mangiatoia o abbeveratoio per le mandrie.
In definitiva, l’assenza di
reperti non permette di conoscere né la tipologia dell’utilizzo della struttura
naturale o artificiale che sia, né la datazione del presunto uso;
7) Le foto aeree, scattate in
condizioni di non disturbo di un’area dalle caratteristiche geologiche,
pedologiche e stratigrafiche quali quelle espresse dalla sommità della
Montagnola di S. Giovanni Gemini, potrebbero permettere di ammettere o di
confutare l’ipotesi della presenza di strutture murarie pertinenti ad un
abitato d’età protostorica e/o storica;
8) In presenza di resti
archeologici di scarso rilievo scientifico ed artistico (quali ad esempio
frammenti di ceramiche acrome di uso comune) nessuna Soprintendenza o Ente
europeo preposto alla tutela ed alla valorizzazione del patrimonio archeologico
ha mai emesso un vincolo di rispetto. Per quanto concerne la Sicilia valgano ad
esempio le ben note vicende di decine di tomba a fossa e di alcuni importanti
strutture murarie d’età greca scavate e distrutte con mezzi meccanici dalla
Soprintendenza ai BB.CC.AA. di Siracusa nel 1989 nell’area della necropoli di
Contrada Fusco di Siracusa nel 1989 per la costruzione di una tratta
ferroviaria, e le tombe a fossa scavate nella roccia distrutte durante
i lavori per la costruzione del viadotto di collegamento Villaseta-Agrigento.
Per quest’ultima, l’allora Soprintendente di Agrigento, Prof. Ernesto De Miro
(nonché direttore dell’Istituto di Archeologia dell’Università di Messina),
scriveva al competente Procuratore della Repubblica che chiedeva informazioni
al proposito dello scempio (prot. n. 305/71C) “… solitamente le aree
interessate da necropoli, a meno che non si tratti di tombe monumentali o di
peculiari strutture, non hanno di per sé mai costituito condizioni di vincolo
assoluto né remora per costruzioni di qualsiasi genere…”.
9) Una relazione tecnica redatta
da un funzionario redatta da un funzionario della Soprintendenza, specialmente
se nel caso di presunta distruzione di patrimonio archeologico, deve essere
necessariamente quanto più particolareggiata possibile ed accompagnata da una
esuriente serie di immagini fotografiche (ancor meglio se videoregistrate) e
rilievi che possano provare quanto accuratamente osservato e riportato nel
cosiddetto “taccuino di campagna”.
10) Nella istituzione di una zona
archeologica gli organi statali o regionali preposti a tale scelta devono agire
seguendo una serie di operazioni che nel loro insieme concorrono alla
giustificazione dell’emissione del vincolo, anche perché questo sovente
comporta una notevole restrizione del diritto di proprietà privata e può
incidere pesantemente sull’economia di un’intera comunità. Gli elementi e la
prassi seguita sono i seguenti:
a) presenza di resti archeologici
di rilevante interesse scientifico ed artistico;
b) localizzazione dell’areale ove
è possibile rinvenire altri resti archeologici di altrettanto interesse
scientifico ed artistico;
c) perimetrazione delle aree da
sottoporre a vincolo diretto in base al punto b (artt. 1-2-3 della legge 1089
dell’1-6-1939);
d) perimetrazione delle aree
sottoposte a vincolo indiretto sulla base delle misure di salvaguardia fissate
dall’art. 21 della legge n. 1089 dell’1-6-1939.
RISULTATI DELLO STUDIO
Nei giorni 26, 27, 28 agosto 1997
abbiamo effettuato un accurato esame della zona soggetta ai vincoli diretto ed
indiretto di proprietà delle Ditte Puzzillo Costruzioni S.p.A. e F.lli Di Dolce
S.r.l., ovvero i terreni costituenti parte della contrada Montagnola (Carta
d’Italia I.G.M. F.267, IV S.E., comune di S. Giovanni Gemini, mappa catastale
F.6 particelle 29, 31, 32, 33, 34, 35, 42, 45, 46, 47, 48, 68 e F. 4 particelle
85 e 86).
L’esplorazione è stata eseguita
mediante la tecnica “a tappeto”, ovvero seguendo la prassi della survey archeologica
e tenendo conto dei generici riferimenti della presenza di resti archeologici
segnalati da un funzionario della pertinente Soprintendenza in seguito ad un
sopralluogo effettuato circa dieci anni orsono.
Non abbiamo rilevato alcuna
traccia di resti di mura di cinta di abitati, né di strutture pertinenti ad
eventuali abitazioni, assolutamente nulla che possa essere attribuito ad un
villaggio d’epoca protostorica.
Gli unici resti d’interesse
archeologico sono solo minuti frammenti ceramici acromi d’età ellenistica,
attribuibili a forme d’uso comune (pentole, anforacei) di produzione
probabilmente locale e di nessun pregio artistico. Questi reperti hanno nessuna
validità probatoria né interesse scientifico, in quanto:
a) si tratta di reperti di
superficie;
b) sono posti a diretto contatto
con la roccia affiorante;
c) mostrano più o meno evidenti
segni di fluitazione così come altri reperti ai quali sono associati, ovvero
frammenti di mattoni forati, di piastrelle e di ceramiche smaltate databili
alla seconda metà del corrente secolo, certamente provenienti da aree estranee
al contesto in oggetto. Ciò sembra testimoniato anche dalla presenza di
elementi rocciosi non pertinenti alla natura litologica del sito.
Poiché è evidente trattarsi di un
insieme di elementi in seconda giacitura, ovvero provenienti da un altro sito,
abbiamo richiesto informazioni ai proprietari delle cave. Questi ci hanno
riferito che cospicue gettate di terreno di riporto furono operate circa un
decennio addietro al fine di rendere carreggiabile l’aspra sommità rocciosa
della Montagnola.
Dato di fondamentale rilevanza è
l’assoluta assenza, nonostante il contesto sia pedologicamente molto favorevole
alla loro conservazione, di resti ossei faunistici, di vetri, di oggetti
metallici e litici o altro materiale d’interesse archeologico di comune
riscontro in areali un tempo sede di abitati o di necropoli. Viceversa, tali
reperti sono generalmente assenti o rari nei terreni di riporto da aree non
antropizzate.
Abbiamo inoltre esaminato la zona
nella quale la pertinente Soprintendenza segnala la presenza (comunicazione del
9-3-1992, prot. n. 680) di una sola tomba a fossa ricavata nel banco roccioso
insistente nella particella 42 del mappale n. 6. In realtà si tratta di un
insieme di cavità carsiche dalle forme tipicamente irregolari, ovvero
originatesi per effetto dell’azione dissolvente degli agenti atmosferici sul
sostrato calcareo in punti in cui questo ha minore durezza. Solo una di queste
ha una forma che potrebbe vagamente somigliare ad una sorta di piccola e
atipica tomba a fossa.
Non si tratta di un manufatto, in
quanto non sono presenti tracce di lavorazione. D'altronde, le tombe a fossa
non sono mai isolate ma disposte a gruppi, il cui numero varia da alcune decine
sino a parecchie centinaia.
Infine, è ovvio e notorio che è
tecnicamente errato denominare tomba una cavità naturale o
artificiale in assenza di resti ossei dell’inumato e del relativo corredo.
RISERVE SULLA VALIDITÀ DELLA RELAZIONE TECNICA REDATTA A CURA DELLA
SOPRINTENDENZA AI BB.CC.AA. DI AGRIGENTO
Inviata in data 6-3-1989 (n.
prot. 506) all’Assessorato Regionale dei BB.CC.AA. e della P.I. sulla quale è
basato il decreto di vincolo n. 2313 del 22-5-1989.
La relazione è assai succinta,
non circostanziata, non è accompagnata da documentazione grafica e fotografica.
Battuta in una pagina e mezza, solo mezza pagina è dedicata ad una generica
descrizione delle evidenze archeologiche che si asserisce di aver constatato
presenti nell’area in oggetto. Le dichiarazioni in base alle quali si presume
sia stato emesso il vincolo sono le seguenti:
1) “Il pianoro dell’altura fu
sede di un capannicolo dell’età del Ferro, come testimoniano i frammenti di
ceramica a superficie arancione della facies di sant’Angelo di Muxaro e le
buche per i pali delle capanne”.
A questa dichiarazione opponiamo
che:
a) nei luoghi non esistono tracce
di “buchi per pali delle capanne”. Se basata unicamente sul colore
arancione di manufatti ceramici l’attribuzione non è scientificamente
ammissibile. L’elemento caratterizzante, distintivo delle ceramiche della
facies di Sant’Angelo di Muxaro è la tipica sintassi decorativa, rappresentata
da motivi geometrici generalmente incisi, della quale però nella relazione
della Soprintendenza non si fa cenno.
b) pur non avendo noi osservato
alcuna presenza di tracce di buche di palo, bisogna qui in subordine rilevare
che l’associazione di frammenti ceramici con buche di palo non è dichiarata
nella relazione inviata alla base dell’emissione del vincolo, e che comunque è
arbitraria e scientificamente inammissibile in quanto non evidenziata e
documentata in fase di scavo stratigrafico.
c) i villaggi della facies di
Sant’Angelo di Muxaro erano costituiti da capanne con mura perimetrali
circolari o rettangolari, o scavate nel sostrato roccioso. In entrambi i casi
all’interno di tali strutture erano posti i montanti lignei per sorreggere il
tetto, dei quali si conserva evidenza tramite le buche dei pali.
È noto che una buca di palo
non può essere datata in base al suo contenuto di riempimento, ma solo se
considerata nell’ambito di un insieme di manufatti coevi, mobili e immobili,
messi in luce tramite scavo stratigrafico nella capanna e nelle buche in fase
di scavo, e soprattutto se associati a materiali di origine organica, databili
con tecniche assolute, quali ad esempio resti carbonizzati e conchiglie.
Nessun archeologo può datare tali
strutture nel corso di una esplorazione di superficie. L’identificazione in
tali casi è assai problematica ed incerta e quindi non probatoria.
D'altronde, nella citata
relazione non si fa cenno né alla presenza di eventuali mura perimetrali o
incassi artificiali nel sostrato roccioso, ma nemmeno ai resti ossei faunistici
che pur avrebbero dovuto essere abbondanti nel caso si trattasse dei resti di
un abitato.
2) “Successivamente, in
seguito all’ellenizzazione del sito, sul pianoro fu impiantato un abitato, cui
sono pertinenti le strutture murarie di pietrame e terra, assegnabile, sulla
base dei reperti ceramici acromi ed a vernice nera raccolti in superficie, al
VI-IV sec. a.C.”
A questa dichiarazione opponiamo
che:
a) non esistono strutture
murarie. Nonostante la dimensione dell’affermazione della Soprintendenza
agrigentina, si eludono gli elementari principi sia della ricerca archeologica
di superficie e sia della metodologia della cosiddetta datazione
relativa dei manufatti. Si cita una generica esistenza di strutture
murarie di pietrame e terra – inesistenti – senza peraltro descriverne il
numero, le forme, le misure, né la disposizione nell’areale. Queste strutture
(due, venti, duecento?) rilevate in superficie sarebbero databili in base ai
reperti ceramici rinvenuti, a detta dei tecnici della Soprintendenza (in
possesso di quale qualifica?), anch’essi in superficie.
Tale assioma è estraneo ai
criteri della ricerca archeologica, per i motivi più sopra espressi (vedi
Premessa, punti 1-5).
b) L’intera dichiarazione appare
inammissibile già all’inizio, poiché in base a reperti di superficie è
impossibile affermare la presenza di un sito ellenizzato, ovvero
riconoscere l’evidenza di un lento processo culturale che per le sue
problematiche è difficile identificare persino in fase di scavo.
In definitiva, da un punto di
vista tecnico-scientifico la relazione è ampiamente inconsistente, in quanto postula dati di fatto
oggettivamente inesistenti e quindi – ovviamente – non riscontrabili.
Non possiamo esimerci
dall’esprimere stupore nel constatare che personale dirigente della locale
Soprintendenza, all’uopo preposto, abbia potuto redigere ed inviare al
competente Assessorato una simile relazione.
È altresì inquietante il
fatto che in quest’ultima sede nessun funzionario, in fase di esame, abbia
avanzato le dovute critiche o quantomeno richiedere una circostanziata
documentazione sulla quale esaminare la proposta di vincolo.
In caso di contestazione sui dati
di fatto, si chiede espressamente un sopralluogo con adeguati interventi
tecnici, evidenziando come il rilevante valore economico del caso in esame
giustifichi ampiamente tale tipo di intervento e di diretta indagine.
In subordine si chiede venga
ammessa e visionata la videocassetta allegata al fascicolo di parte.
CONCLUSIONI E CONSIDERAZIONI
Il Decreto di vincolo emesso
dall’Assessorato ai BB.CC.AA. della Regione Siciliana in data 22-5-1989 si basa
sulla “notevole importanza archeologica della zona denominata La Montagnola
nel territorio di San Giovanni Gemini, interessata da stanziamenti umani di
epoca protostorica e storica testimoniati da resti di strutture murarie
pertinenti ad abitazioni”.
Il nostro studio ha rivelato la
palese infondatezza di tali affermazioni (si veda la cassetta videoregistrata
in allegato)l
Come più sopra dimostrato, nelle
zone di cui al presente oggetto (quantomeno in quest’area meridionale da noi
esplorata della contrada La Montagnola, dove risiedono o si vorrebbero
proseguire le attività di cava), un archeologo non può su basi tecnico-scientifiche
asserire quanto appreso nel decreto di vincolo.
D’altronde, la presenza di
abitati d’età protostorica o ellenistica non è nemmeno segnalata dalle fonti
classiche: non vi è traccia nella storiografia antica.
Anche lo studio fotogrammetrico
eseguito su foto scattate in epoca antecedente al 1985 conferma tale assenza.
Se corrisponde a verità che non
esiste alcuna documentazione scientifica dei presunti abitati, il comportamento
del funzionario che nel 1987 effettuò il sopralluogo è severamente deprecabile,
in quanto avrebbe dovuto registrare appunti nel taccuino di campagna,
mappando e fotografando la presunta gravità del danno che riteneva di
constatare: su queste basi avrebbe infine dovuto redigere una circostanziata
relazione tecnica. Invece, inspiegabilmente, questi si limitò solo a scrivere
una succinta relazione non supportata da documentazione fotografica, ovvero
riportando ipotesi non suffragate da dati di fatto e dati generici che,
inspiegabilmente, hanno avuto gravi ripercussioni. Altrettanto grave è il
comportamento del Soprintendente che, in mancanza di una esauriente relazione
tecnica, avrebbe dovuto intervenire con precauzione richiedendo ai propri
funzionari la necessaria documentazione.
In base a tale curiosa
superficialità ed al nostro circostanziato esame, ci chiediamo se piuttosto il
funzionario non sia stato ingannato dalla presenza di frammenti ceramici
presenti nel terreno di riporto che proprio a quell’epoca era stato collocato sulla
sommità rocciosa della Montagnola per renderla carreggiabile. Tale errore può
avere condizionato tutti i successivi interventi operati dalla Soprintendenza
ai BB.CC.AA. di Agrigento, in quanto da allora non furono effettuati studi
condotti da esperti qualificati i quali avrebbero certamente ricondotto il
problema alle sue reali dimensioni.
D’altra parte, non si comprende
per quale motivo la Soprintendenza abbia operato solo due interventi di scavo
archeologico, ormai nel lontano 1989, per di più al di fuori dell’area in
questione e che a tutt’oggi non abbia in programma di effettuarli nell’area a
nostro giudizio erroneamente sottoposta a vincolo. Allo stato attuale, solo una
campagna di scavi archeologici può confutare o confermare la convinzione che
l’area in oggetto non presenti resti di abitati e di fortificazioni, tenendo
anche presente che gran parte di questa è costituita da roccia affiorante.
Tuttavia, anche nell’eventualità di una improbabile scoperta di resti
archeologici tra le piccole depressioni carsiche dell’area, ai fini del
mantenimento del vincolo la realizzazione di tali scavi sembra irrilevante.
Difatti, come chiaramente
espresso al Procuratore della Repubblica di Agrigento dal già citato
Soprintendente prof. E. De Miro quando invitato a rendicontare degli
sbancamenti tramite ruspe dell’importante necropoli presente nell’area del
viadotto di collegamento Villaseta-Agrigento, se pur fossero presenti strutture
d’interesse scientifico e artistico, una volta scavate, ovvero operati i
necessari rilevamenti e svuotate le tombe del loro contenuto, non vi sarebbe
alcun motivo di interrompere l’attività di cava, che ovviamente non
danneggerebbe in alcun modo le eventuali emergenze. Inoltre, innanzi al
Procuratore della Repubblica il Prof. De Miro aveva dichiarato che in un caso
di maggiore importanza rispetto a quello qui esaminato, la presenza archeologica
deve essere considerata d’importanza secondaria rispetto all’interesse delle
priorità di utilizzo economico dell’area.
Ciò è stato degnamente più volte
espresso da Soprintendenti ai BB.CC.AA. della Regione Siciliana, tra i quali
spicca la recente posizione del dott. Giuseppe Voza a proposito della
distruzione operata da mezzi meccanici sotto la direzione di funzionari della
Soprintendenza nell’area della famosa necropoli e area monumentale di contrada
Fusco di Siracusa, di ben nota importanza e ricchezza di materiali, parte della
quale venne sacrificata per far posto a un tunnel ferroviario pur in presenza,
si badi bene, di un vincolo diretto che preservava l’area da
simili distruzioni.
Alleghiamo copia di una cassetta
videoregistrata quale prova della situazione da noi rilevata nel corso del
nostro studio nell’area esaminata e di quanto asserito in questa sede, nonché
di foto inerenti alla distruzione di parte del noto sito siracusano.
Febbraio 2023: alcune considerazioni a margine della
vicenda
Ho qui tramandato volentieri testimonianza di questa
vicenda nella quale, nell’autunno del 1989 e nell’estate e autunno del 1997,
accettai di venire professionalmente e umanamente coinvolto. Era un tentativo
arduo, mosso dalle tristi conseguenze in cui si trovavano ben ottanta famiglie
di lavoratori siciliani.
Vi si possono cogliere alcuni di quegli aspetti, non
di rado bizzarri o trascendenti la ragione, emblematici della situazione di
pessima rappresentanza dello Stato manifestata dalle pubbliche Istituzioni di
quella regione. Una delle tante vicende da me vissute in Sicilia che mi hanno
pienamente convinto di quanto le Istituzioni fossero a quel tempo (e quantomeno
in alcuni casi lo sono ancor oggi), profondamente compromesse, mostrandomi
puntualmente le conseguenze, anche socio-economiche e politiche, per la locale
collettività abbandonata all’Autonomia Regionale dallo Stato italiano.
Una regione, quella siciliana, che alla fine del
secondo conflitto mondiale, fu in procinto di essere trasformata in una seconda
Malta, aspirazione degli Inglesi stroncata dal prevalere degli interessi della
potenza statunitense, che volle affidarla amministrativamente all’Italia, alla
quale così accollò tutti gli oneri per mantenerla in vita. Ma fu imposto uno
Statuto speciale per motivi (ammettiamolo tutti con chiarezza!) essenzialmente
strategici, funzionali alle esigenze delle forze militari di occupazione
vincitrici del conflitto, che ne fecero uno dei baluardi posti a difesa del
nuovo sistema di potere occidentale. Il risultato è che negli ultimi
sessant’anni la Sicilia è progressivamente divenuta un’entità geo-politica
molto simile a quegli Stati bananieri che, in diverse aree strategiche del
pianeta, sono utili alla difesa degli interessi di un sistema “imperialistico”,
per usare un termine usato dall'attuale Pontefice romano.
In una sorta di Stato bananiero, quale appunto sembra
atteggiarsi la Sicilia, una parte dell’alta burocrazia viene imbrigliata
saldamente nel sistema massonico-lobbistico, lasciandola libera di gestire
impunemente il territorio, eccetto nei casi più gravi puniti con trasferimenti
transitori ad altre mansioni, spesso persino a incarichi direttivi meglio
retribuiti e di maggiore prestigio ai fini della carriera nell’amministrazione.
La vicenda qui esposta appartiene quindi a pieno
titolo alla serie “La Tecnocrazia e il Sistema di Potere in Sicilia”,
inaugurata nei miei blog ormai cinque anni orsono, titolo che credo calzante
per definire quella lunga e ampia scia bianca tutta siciliana, costituita da
narrazioni dove imperano aspetti propri della Banalità del Male annidati
nella burocrazia isolana (9). Nella fattispecie attività,
comportamenti e atteggiamenti di discutibile valore professionale, perpetuate
da funzionari scelti per le loro doti di fedele e servizievole obbedienza alle
necessità del Sistema che li ha allevati e protetti, rendendoli assuefatti al
punto da averne compromesso ogni empatia “dannosa” alle sue controverse
finalità.
Sono talmente numerose e gravi queste vicende (alle
quali non a caso ho intitolato un’altra serie di articoli presenti su questo
blog, “Fantasmi di processi mai nati”), da risultare un insopportabile
passato zeppo di miserabile tracotanza di un potere maldestramente acculturato
e autoreferente. Una realtà sconveniente che un giorno, purtroppo da ritenere
molto lontano, la società siciliana dovrà riesumare e confrontarsi per divenire
una collettività dai caratteri quantomeno accettabili.
Da un punto di vista socio-politico, bisogna
aspettarsi che la somma dei comportamenti asociali impuniti (concessi alle
piramidi dei centri di potere quali componenti del monolite del Potere
dominante in Sicilia), condizionerà il futuro della società siciliana. Una
delle prime conseguenze, già attive e degne di approfondite analisi, è la
fenomenologia della grande fuga dell’elettorato in quell’astensionismo che, con
grave preoccupazione, dovrebbe essere pubblicamente riconosciuto quale un altrove
apatico. Una marea crescente di individui che stanno maturando, nell’unica
azione di protesta pacifica che rimane loro, una crescente ostilità nei
confronti di ciò che, a torto o a ragione, identifica quale conseguenza delle
logiche del Sistema dominante, nelle classi corrotte e impunibili di una Entità
malefica generalizzata quale “Regime”.
È ormai verosimile ritenere che oltre la metà
della popolazione (quella che non si è venduta per ottenere un posto di
lavoro), ritiene l’Informazione dei grandi media pubblici e privati quale solo
parzialmente veritiera, o talora propriamente inaffidabile, e
comunque incessantemente manipolata per le inconfessabili necessità del Sistema
Dominante di Potere di orientare l’opinione pubblica. Tuttavia,
è altresì legittimo chiedersi se questa situazione sia stata confezionata
per rendere la comune popolazione inconsciamente apatica, facilmente
manovrabile, mantenendola incline ad un fluido qualunquismo, in un
circolo vizioso che dopo drammi quasi interamente a danno delle classi medie e
basse, possano determinarsi quei cambiamenti necessari affinché il “Sistema”
possa rinnovarsi in modalità salvifica mantenendo la propria struttura
monolitica piramidale.
L’onnipresente prassi dell’oblio alla siciliana che
avvolge i crimini dei tecnocrati mediante le meschine modalità dell’insabbiamento,
costituisce l’apposizione di una imponente pietra tombale anonima a suggello di
quello che possiamo ormai definire il Dimenticatoio siciliano. Lo
Stato Italiano e l’Unione Europea, dovrebbero porre maggiore attenzione a
questo problema, in quanto si tratta di una di quelle consuetudini radicate
nel modus vivendi dell’Isola, che pregiudica non soltanto
l’emancipazione dell’identità culturale della società siciliana, ma
inevitabilmente anche la coesione strutturale delle componenti sociali,
politiche e economiche.
Nella posizione altamente strategica che in futuro
porrà la Sicilia in un ruolo primario di terra di frontiera, quanto sopra
espresso determina una situazione che potrebbe avere ripercussioni e
compromettere gravemente sia sulla tenuta strutturale dell’intera Unione
Europea e sia sulla sopravvivenza di quelle che possiamo già considerare quale
vere e proprie cittadelle militari, costruite negli ultimi anni o attualmente
in costruzione in Sicilia (e in altre aree europee). Difatti, prima o poi
queste potrebbero trovarsi nelle condizioni di dipendere periodicamente dagli
approvvigionamenti di derrate alimentari e materiali d’importanza logistica
prodotte in un territorio compromesso socio-economicamente e ostile.
Parecchi anni dopo l’ultimo incontro con la dott.ssa
Gullì, seppi che questa era divenuta Soprintendente ai Beni Culturali e
Ambientali di Agrigento, occupando così la carica che era stata dei suoi
maestri Ernesto De Miro e Gabriella Fiorentini. Appare quindi ovvio prevedere
che non vi sarà alcun revisionismo dell’opera dei suoi predecessori. I
lavoratori ai quali toccò l’espatrio o peggio, finirono nel grande calderone
delle vittime siciliane dimenticate, trattate quale spazzatura di Sistema,
un’immensa massa di reietti da nascondere alla vista della collettività
accettata.
“Le cose vanno come devono andare”
si concesse di precisarmi personalmente un noto anziano massone siciliano che
aveva letto il mio articolo, ridacchiando di gusto, per poi scandire la frase
con costruito fare sibillino. Mancavano pochi giorni all’inizio del nuovo
millennio, calma piatta all’orizzonte, tutto procedeva come stabilito
Oltremare.
Note
1) Colgo
l’occasione per ricordare qui questo raro esempio studioso siciliano,
coraggioso pioniere delle ricerche sulle fasi più antiche del Paleolitico
siciliano (alla cui esistenza nell’Isola molti studiosi non credevano e anzi
rigettavano in toto la possibilità di accettarne la veridicità
dei rinvenimenti, quali fantasie di un presuntuoso dilettante), che nella
seconda metà dello scorso secolo condusse dapprima seguito con interesse dalla comunità
accademica nazionale e infine coperto dal discredito. Gerlando Bianchini era il
tipico pioniere che aveva avuto comportamenti invisi alla comunità accademica:
1) una notevole abilità e frequenza a localizzare importanti siti archeologici
preistorici, che metteva in luce l’immobilità cronica di gran parte del
baronato universitario dell’archeologia, appartenente alla facoltà di Lettere e
Filosofia, che gli studenti di preistoria appartenenti alle tre facoltà di
scienze (naturali, geologiche e biologiche) a cavallo degli agli anni 1970 e
1980 definivamo “poltronismo”; 2) non aveva avuto le risorse economiche
necessarie a intraprendere studi universitari considerati propedeutici allo
svolgimento professionale, specialistico, delle ricerche in ambito della
paletnologia e della paleontologia umana che assieme alle scienze geologiche
erano al centro dei suoi interessi sin da ragazzo. Per sopravvivere aveva
dovuto costringersi a lavorare in una banca, divenendo oggetto di scherno di
molti accademici italiani che in privato lo apostrofavano “il Bancario”; 3) per
sottrarsi alle pesanti critiche operate dagli “addetti ai lavori indigeni”,
Bianchini si era rivolto alle massime autorità delle scienze preistoriche
internazionali, riscuotendo lusinghieri appoggi e pubblici riconoscimenti da
parte di illustri studiosi.
Questo insieme fu alla base delle motivazione
dell’isolamento del Bianchini, al quale riuscirono a condannarlo i suoi potenti
detrattori e i loro seguaci. Si tratta di una lapide muta sul suo importante
contributo alla ricerca preistorica siciliana, rimasto radicato nelle
soprintendenze e nell’ambiente accademico isolano e della penisola italiana.
Dagli anni 1970 vi fu quindi un crescendo denigratorio che negli anni 1980
iniziò a creargli isolamento e logorarlo, in particolare per la sopravvenuta
mancanza di appoggi da parte della locale Soprintendenza, nonostante vi aveva
da giovane svolto la mansione di assistente di scavo in diversi siti
preistorici da egli stesso scoperti.
Assistetti personalmente a queste malvagità del tutto
gratuite nel corso del primo convegno di preistoria siciliana, tenuto a
Corleone nel 1997, dove mi fu palese che scaturivano da gelosie per
l’eccezionale importanza e mole delle sue scoperte. Era ormai considerato un
dilettante borioso da non frequentare, da citare il meno possibile in
bibliografia se non per confutare il valore delle sue ricerche. Veniva
puntualmente screditato persino da quei giovani studiosi che aveva aiutato, con
presentazioni presso ambienti accademici, e ai quali aveva fornito le
coordinate geografiche di importanti siti da sottoporre ad approfondite
indagini archeologiche, i suoi preziosi appunti, ricordi e consigli. Il
Bianchini ne soffrì molto, al punto da aggravare pesantemente i suoi problemi
di salute. Giunse alla morte fortemente depresso dalle ingiustizie patite per
decenni.
Dotato di grande intuizione e passione, alle quali
aveva nel tempo aggiunto una solida preparazione tecnica, tra l’altro anche
attraverso l’allestimento di una notevole biblioteca specialistica personale,
Gerlando Bianchini aveva frequentato e intrattenuto scambi di informazioni
scientifiche con i maggiori specialisti italiani e francesi di quel periodo,
alcuni dei quali ne furono talmente colpiti che vollero pubblicare assieme
importanti lavori dedicati alle sue scoperte o citarlo nei propri lavori d’ambito
internazionale. Nella seconda metà degli anni 1970 e negli anni 1980, grazie
alle sue frequentazioni con gli ambienti francesi e dell’Italia
Centro-Settentrionale, la sua preparazione tecnica in ambito di scavo
preistorico era divenuta senza alcun dubbio superiore a quella degli archeologi
presenti negli istituti universitari e nelle soprintendenze della Sicilia. Il
suo nome merita pienamente di essere associato e celebrato con gli stessi
riguardi avuti dai fratelli Corrado e Ippolito Cafici nella Sicilia Orientale.
2) malgrado
l’interesse suscitato da quest’oggetto, bisogna tenere ben presente che si
tratta di un reperto archeologico privo di provenienza contestualizzabile
culturalmente, “sporadico”, come si definiva a quel tempo. Ciò significa che
potrebbe essere giunto in quel sito in un qualsiasi periodo preistorico o
storico successivo alla sua creazione e per motivi i più diversi. Questa era,
ad esempio, l’ipotesi del direttore della Scuola Speciale per Archeologi
Preistorici dell’Università di Pisa, Prof. A. M. Radmilli, nel corso di una
lunga discussione che avemmo nel 1980, avviata dal Prof. Francesco Mallegni
durante una delle sue appassionanti lezioni tenute nel Laboratorio di
Antropologia. La perfezione tecnica del reperto e l’interesse suscitato per la
possibilità di un primo popolamento della Sicilia proveniente dall’Africa,
spinsero i responsabili del Musée de l’Homme di Parigi a esibirne al pubblico
una fedele copia eseguita a calco, una scelta che per i miei mentori non era
scientificamente condivisibile, se non da un punto di vista artistico che ai
fini della mostra poteva benissimo essere sostituita da reperti simili (in ogni
caso la sua provenienza e la datazione relativa non avrebbero dovuto essere
citate nella sala espositiva, in quanto da confermare o confutare da
appropriate indagini scientifiche condotte in sito).
Per le referenze bibliografiche rimando ai seguenti
lavori:
Bianchini G., Gambassini P., 1973. La grotta
dell’Acqua Fitusa (Agrigento): gli scavi e l’industria litica. Riv. Sc.
Preist., 28: 3-55.
Mannino M.A., Catalano G., Talamo S., Mannino G., Di
Salvo R., Schimenti V., Laluezafox C., Messina A., Petruso D., Caramelli D.,
Richards M.P., Sineo L. 2012. Origin and
diet of the prehistoric hunter-gatherers on the Mediterranean Island of
Favignana (Egadi Islands, Sicily). Plos ONE, 7
(11): e49802.
Panvini R., 1993-94. Ricerche nel territorio di Monte
S. Giuliano (CL), Monte Desusino, S. Giovanni Gemini, Caltabellotta, S. Anna.
Kokalos, 39-40: 755-763.
Basilone L., Arnone G., Avellone G, Di Maggio C.,
Madonia G., Sineo L., Vattano M., 2014, Aspetti geologici,
geomorologici e antropologici de La Montagnola (San Giovanni Gemini,
Agrigento): proposta di un geosito, Naturalista Siciliano, s. IV, XXXVIII (2),
pp. 147-177.
3) Un
aneddoto dedicato a quei giovani colleghi che, privi di appoggi lobbistici e/o
per scelta ideologica, eventualmente oggi si trovano in simili circostanze.
Nel maggio 1989, ovvero alcuni mesi prima che
iniziassi a occuparmi di questa vicenda nell’Agrigentino, nauseato da quanto
ero costretto a osservare dell’opera criminale del sistema politico-clientelare
siciliano, decisi dall’oggi al domani di salire sul primo di una serie di aerei
a staffetta che mi portarono in Perù.
Sapevo che a quel tempo in quel remoto Paese,
territorialmente tre volte più vasto dell’Italia, vi erano solo alcuni giovani
archeozoologi a fronte di immense quantità di materiali che giacevano nei
magazzini di musei, provenienti da centinaia di scavi. Si trattava di milioni
di resti di animali che attendevano uno studio. Avevo deciso di ricominciare
una nuova vita in quell’Eden archeologico, ma ben presto dovetti rinunziare per
motivi familiari.
Tramite la presentazione del dott. Renato Lipari,
direttore dell’Istituto di Cultura Italo-Peruviano (Lima, 1987-1990), strinsi
amicizia con un’archeologa a quel tempo in auge nel nuovo entourage
presidenziale. Molti anni prima anche lei aveva patito le conseguenze di gravi
vicende, avvenute con modalità molto simili alle mie in Sicilia (desidero
ricordare che quel governo socialista liberamente eletto dal popolo peruviano,
era stato costretto dalle nazioni filo-occidentali dell’area americana a
sopravvivere in una terribile autarchia e a fronteggiare la gravissima
esplosione di sanguinosi attacchi terroristi destabilizzanti condotti da “Sendero
Luminoso”, un gruppo extraparlamentare di sinistra di stampo maoista
fortemente strutturato nell’intero Paese).
Con grande dinamismo la mia gentile collega aveva
sùbito discusso telefonicamente con i maggiori colleghi peruviani e in serata
mi telefonò in albergo, comunicandomi una lusinghiera offerta di lavoro da
svolgere nell’Università Cattolica di San Marcos, a Lima (orgogliosamente “la
decana del Suramerica”) e di occuparmi dell’allestimento e della direzione
di un laboratorio di archeozoologia al quale potessero essere assegnate,
tramite la banca nazionale, una decina di borse di studio per studenti
peruviani che avrei dovuto formare professionalmente.
Ero felice, anche se a quel tempo in Perù un
professore universitario nonché direttore di istituto riceveva un salario pari
a 150 dollari statunitensi… (un impiegato di livello basso e medio ne
ricevevano rispettivamente circa 30-50 e 60-100). Ma per me si sarebbero
aggiunti i congrui proventi di incarichi di ricerca pluriennali sovvenzionati
da istituzioni private operanti nel Paese.
Nonostante in piena guerra civile dominata dal
terrorismo maoista e dal problema di cospicui gruppi di banditi, ero
determinato a stabilirmi in quella terra stupenda. Tornato in Sicilia per
organizzare il mio trasloco mi resi conto che non avrei mai convinto la mia
coniuge di quegli anni a espatriare in quella pericolosa terra di avventurieri,
come coppia eravamo ormai al capolinea, e che trasferendomi all’altro capo del
mondo avrei perso le mie due amatissime figlie in tenera età in quanto
sarebbero state assegnate alla madre. Errore madornale, in quanto i miei timori
si materializzarono puntualmente tre anni dopo, quando ormai anche il
presidente socialista peruviano Alan Garcia era già stato destituito assieme al
suo entourage...
Il Prof. Lipari morì di cancro ai polmoni in
Costarica, dove si era ritirato a finire i suoi giorni, ma prima di partire mi
aveva segnalato al direttore di una missione archeologica italo-peruviana con
la quale lavorai negli scavi della Gran Piramide di Nazca nei due anni
seguenti, 1990 e 1991. Ebbi altre offerte di lavoro tramite la frequentazione
di una facoltosa amica anglo-peruviana, sorella di una nota archeologa, ma
scelsi di rimanere in Italia per tentare (inutilmente) di mantenere un contatto
con le mie figlie, accettando un lavoro in qualità di archeozoologo in Liguria
e Piemonte e per la realizzazione scientifiche museografiche a Sanremo e Reggio
Calabria, offertomi a Genova dal Prof. S. Tinè presso l’Istituto Italiano di
Archeologia Sperimentale del quale era direttore.
4) Era un
ambiente giornalistico con elementi di stampo fino, saldamente motivati, dove
da qualche mese avevo iniziato a stabilire rapporti di fiducia e scambi
d’informazioni. Per solidarietà accettai di collaborare quando mi furono
commissionati e pubblicati anche alcuni articoli, o chiesti pareri e consigli,
tutti in “camera caritatis”, come scherzando definivamo le prestazioni
professionali non pagate, essendo quella testata in perenni cattive acque.
Assistetti senza alcun potere al crollo finanziario della fragile struttura e
alla sua scomparsa, avvenuta se non ricordo male l’anno seguente.
5) dei
particolari aneddotici di alcuni degli incontri avuti con Leonardo Sciascia ne
ho scritto recentemente in questo blog: Villari P., 26 ottobre
2022, Lipari, anni 1980. Luigi Bernabò Brea e le offerte sacre del dio Eolo; la
solitudine di Leonardo Sciascia nel Cinema Eolo. E altri aneddoti, The
Reporter’s Corner:
https://www.thereporterscorner.com/2022/10/lipari-anni-1980-luigi-bernabo-brea-e.html
6) Villari P., 31
ottobre 1999, Per una storia delle soprintendenze siciliane. 3) San
Giovanni Gemini (AG): come sventrare una montagna per quarant’anni e impedirne
il restauro ambientale inventando un vincolo archeologico, Grifone.
Bimestrale dell’Ente Fauna Siciliana, anno VIII, n. 5 (41), pp. 8-10.
7) Villari P., 26
ottobre 2022, Lipari, anni 1980… op. cit. in nota 3.
8) da me
compilata e trasmessa in data 30 ottobre 1997 alla Ditta Puzzillo Costruzioni
S.p.A., S. Giovanni Gemini (Agrigento).
9) È qui
d’obbligo citare il saggio di Hanna Arendt, ”La banalità del male”
pubblicato nel 1964, dove la filosofa ebrea tedesca svela il vero volto di
quella tecnocrazia formata da persone normali, più o meno consapevoli della
banalità delle loro azioni malefiche condotte in una grigia routine,
come se la pratica di fare del male a altri esseri umani per conto di
organizzazioni criminali (alle quali devono il posto di lavoro, e a quelle
associazioni politiche - comprese quelle di stampo esoterico - alle quali
giurano fedeltà, ricevendone in cambio protezione anche per la loro carriera e
per quella dei propri cari), comportino l’assoluzione della propria attività
criminale condotta in connivenza. Uomini e donne normali, spesso mediocri, che
nell’appartenenza al sistema di potere, obbedendogli senza mettere in
discussione i suoi valori e ideologie, hanno smarrito la possibilità di
distinguere ciò che è giusto o sbagliato, incuranti o talora compiacenti di
causare sofferenze che segnano gravemente la vita di altri, divenendo banali
passacarte burocratici della macelleria del sistema dominante che li ha creati
e li protegge. Adattando le teorie della Arendt alla situazione dei vertici
della Pubblica Amministrazione in Sicilia, bisognerebbe chiedersi quanti, degli
aderenti alle massonerie e a altri poteri forti presenti nell’Isola, possano
essere riconosciuti in quelle condizioni di malefica connivenza.
Tra le edizioni in lingua italiana di quest’opera
fondamentale per la comprensione dei meccanismi alla base del pensiero
tecnocratico, desidero segnalare quella tradotta e curata da Piero Bernardini:
Arendt H., 1999, La Banalità del Male, Feltrinelli
Editore, Collana Campi del Sapere, 320 pp.