di Pietro Villari, 7 aprile 2023. Tutti diritti riservati.
Nel dicembre 2000, il giornalista Bruno Ragonese, direttore responsabile
della rivista “Grifone”, organo bimestrale dell’Ente Fauna Siciliana,
dopo alcuni mesi di riflessione, decideva di pubblicare un mio articolo
intitolato: “Eindpunt, Tokerau e la vecchietta” (1).
La reazione dei soci non fu unanime, dallo scandalizzato all’entusiasta, e
suscitò un intenso dibattito tra favorevoli e contrari ad accogliere, tra i
contributi scientifici che giungevano alla rivista, anche quelli contenenti
descrizioni di fenomeni a quel tempo definiti - tout court - paranormali. Una parte dei soci
sosteneva l’estraneità di questi racconti agli interessi della nostra “associazione
naturalistica di ricerca e conservazione”. La critica mi colpiva non
soltanto quale studioso, ma anche nella qualità di responsabile della sede di
Messina dell’Ente Fauna Siciliana.
A quel tempo, in Sicilia, per un archeologo specializzato in preistoria,
proveniente da studi naturalistici anziché umanistici, la vita professionale
era già resa difficile in quanto veniva isolato con argomentazioni capziose,
quale un invasore di campo. Pubblicare la propria testimonianza di
coinvolgimento in un’esperienza non convenzionale nel corso di una ricerca
scientifica - peraltro svolta nella “misteriosa” Isola di Pasqua - equivaleva a
un suicidio professionale. In pratica, si offriva ai detrattori la possibilità
di screditare e quindi delegittimare l’autore in modo grave e permanente, e con
esso tutte le sue attività di ricerca svolte, in corso e future.
Anche Bruno Ragonese aveva ricevuto la sua parte di critiche, dirette a
minare la serietà delle tematiche presentate ai lettori della rivista e le
attività dell’associazione. Eppure, aveva accettato di pubblicare l’articolo in
quanto anche lui nel corso della vita si era imbattuto in esperienze che, con
tipico accento siciliano e fare sornione, definiva “stravaganze”, in una delle
quali riconobbe le medesime inquietanti dinamiche presenti nel mio racconto.
Per me e per quella piccola, ma coraggiosa, redazione giornalistica
ancorata a tematiche scientifiche, condividere con i lettori quei dati
significava avventurarsi in terra incognita, andare oltre i dogmi
del presente, noncuranti delle accuse di eresia. Uno studioso non può e non
deve esimersi di difendere la propria coerenza e quindi anche l’esercizio del
diritto di libertà di espressione, a maggior ragione se finisce per trovarsi tra
i pionieri di un intero campo di studi. O, per meglio dire, in una zona d’ombra
dove le conoscenze fondamentali e la stessa efficacia delle metodologie e
tecnologie scientifiche utilizzate, sono quantomeno questionate quali
“borderline”.
Questo articolo si propone quindi di essere eventualmente utilizzabile nei
futuri studi di esperienze anormali (not ordinary experiences, N.O.E.), tenendo
in mente che le descrizioni quanto più accurate degli eventi e la loro
catalogazione tipologica, costituiscono un’importante base per il futuro,
quando la ricerca avrà i mezzi per giungere alla piena comprensione.
Ragonese aveva compreso l’importanza del giornalismo indipendente nel
raccogliere e cercare di descrivere obiettivamente queste vicende, per quella
sua innata capacità di scoprire e sostenere la diffusione di verità, anche
quando si trovava su posizioni divergenti da quelle del potere dominante
isolano.
Avvenuta nel 1991, oggi – a distanza di quasi un quarto di secolo dalla
prima pubblicazione della vicenda - la ricerca nel campo delle N.O.E. conta
ormai una vasta schiera di eminenti membri della comunità scientifica
internazionale.
Come consueto in questo blog, alla ripubblicazione dell’articolo seguono
due capitoli rispettivamente dedicati a approfondimenti e
aggiornamenti.
Da “Grifone”, 20 dicembre 2000: “Eindpunt, Tokerau e la vecchietta”.
Ottobre 1999. In treno da Amsterdam in direzione dell’Europa Orientale. Il
controllore annuncia la stazione nella quale dovrò scendere: eindpunt
van mijn reis. In lingua olandese l’arrivo alla meta è il punto
finale. Il viaggio è concluso, v’è stata una partenza, ho potuto alloggiare in
un discreto posto ed intrattenuto rapporti con altri passeggeri. Alcuni di essi
sono già scesi da tempo, altri andranno avanti senza di me. Il viaggio come
allegoria della vita e della morte.
La mia formazione scientifica non permette illusioni: dopo la morte v’è il
nulla. Eindpunt, espressione che dovrebbe eliminare gran parte
della mia tensione esistenziale, se non vi fosse una piccola zona d’ombra.
Premetto che per lavoro o per diletto ho vissuto, in cinque continenti, in
molti luoghi intensamente suggestivi. Talvolta è accaduto qualcosa di
inconsueto, ma ho sempre cercato e trovato una risposta razionale.
Tutto quadrerebbe, forse, se non avessi soggiornato anche a Rapa
Nui, che i nativi preferiscono denominare Te-Pito-o-Te-Henua,
letteralmente l’Ombelico del Mondo, meglio nota agli Occidentali come Isla
de Pascua. Una sorta di zattera di basalto ancorata in mezzo all’Oceano
Pacifico, a migliaia di chilometri dalle altre isole polinesiane e dalle coste
sudamericane.
Non ho convincenti possibilità di spiegare razionalmente quanto accaduto
ormai tanti anni orsono.
Nel pieno vigore degli anni, dopo un periodo di scavi in Sudamerica, avevo
raggiunto l’Isola di Pasqua con la pianista olandese Djellah van Walt van
Praag, compagna di molti viaggi e avventure. Qui una missione archeologica
internazionale finanziata dalla Fondazione Ligabue (Venezia) stava per iniziare
una campagna di ricerche, alla quale ero stato invitato a partecipare in
qualità di archeozoologo e direttore di un settore di scavo (2).
L’area di ricerca era sita in Puna Marengo, nella parte
disabitata dell’Isola, a venti chilometri dall’unico piccolo villaggio. La si
poteva raggiungere solo a piedi o meglio a cavallo, il mezzo di trasporto più
efficace. La prima settimana risiedemmo nell’abitato, tra il malumore dei
nativi. Il Consiglio degli Anziani era furiosamente contrario allo scavo di
quell’area, essendo tapu, proibito. Le leggende narrano che i primi
abitanti dell’isola approdarono in tempi remoti lungo la costa settentrionale.
Vi erano giunti a bordo di piccole imbarcazioni provenienti da nord, dalle
lontanissime isole polinesiane (3). Sempre in base alle leggende,
in quei luoghi giacciono nascoste decine di kohau rongo rongo,
tavolette lignee incise con le sacre preghiere che rivelano l’origine del
mondo.
Di recente, consultando le carte gravimetriche ho appreso che vi è una
forte anomalia magnetica, causa di un dislivello marino negativo di ben
ventuno metri. Ignoro quanto questa presenza possa influire sullo sviluppo e
sul comportamento degli esseri viventi.
Grazie all’intervento delle autorità cilene ed al verde colore di certi
miserabili pezzi di carta, la situazione venne infine normalizzata e iniziammo
gli scavi dopo avere garantito ai nativi che nessun reperto archeologico
sarebbe stato asportato dall’isola e che, se eventualmente messe in luce, le
ossa di loro antenati non sarebbero state collezionate, ma reinserite nei loro
sepolcri dopo essere state sottoposte ad un rapido esame scientifico non
invasivo.
Necessitava qualcuno che si stabilisse nell’area di scavo, perché temevamo
azioni di disturbo da parte di un piccolo gruppo di irriducibili, contrari alle
nostre operazioni.
Assieme al collega Antonio Paolillo - oggi noto autore di un ventennio di
ricerche preistoriche nella selva boliviana - manifestammo apertamente un
profondo rispetto per la reazione di quegli uomini, poiché al loro posto
avremmo agito allo stesso modo trovandoci in quella situazione. Ciò causò
attrito con altri componenti della spedizione. Assieme ad Antonio spiegammo in
cosa consistesse il nostro lavoro, quanto emergeva dalle analisi.
Superata la diffidenza, fummo resi partecipi di usi e costumi che servirono
per cercare di comprendere non solo quel che veniva alla luce e darvi
l’originale nome polinesiano, ma soprattutto di comparare la quotidianità pascuense attuale
con quella del periodo anteriore ai contatti con il mondo occidentale.
Si pensi che sino agli anni Cinquanta, l’Isola era raggiunta da una nave
solo una volta all’anno. Al tempo delle mie ricerche, la vita sociale non era
stata ancora contaminata dalla troupe cinematografica di Kevin Kostner, che a
lungo soggiornò per le riprese del film Rapa Nui, e dai turisti che
a frotte in seguito vi giunsero.
Apprendemmo tra l’altro che in quei luoghi ancora si consumavano, anche se
ormai raramente, antichi riti cannibalici che consistevano nel mangiare parte
della carne di defunti saggi o valorosi, al fine di assumerne la forza e
stabilire un tramite con il loro nuovo mondo. Fummo anche invitati ad una
cerimonia stagionale svolta in una caverna poco distante, consistente nel
fumare delle erbe ed ingerire certi frutti i quali, grazie anche al ritmo
scandito da pesanti ciottoli battuti gli uni contro gli altri, avrebbero
permesso il nostro ingresso in una terra senza tempo.
Rifiutammo cortesemente l’invito, ma ci ripromettemmo di segnalarlo al
collega antropologo Mario Polia, il quale in quegli anni iniziava quei
particolari studi sullo sciamanesimo che, con immutato impegno a tutt’oggi
continua (4).
Essendo a quel tempo, più di oggi, sconsideratamente votato all’avventura
ed alla vita randagia, assieme alla mia compagna decidemmo di “vivere” quella
landa isolata e misteriosa accampandoci per circa un mese in una piccola tenda
rossa, al margine dominante l’area di scavo, a pochi metri da una incisione
rupestre preistorica raffigurante un “hombre-pájaro” (simbolo
antropomorfo con testa d’uccello) (5). Gli altri componenti della
missione preferirono risiedere nel villaggio, ovvero percorrere giornalmente a
cavallo circa quaranta chilometri.
Il direttore del Museo Antropologico dell’Isola, il cileno Claudio
Cristino, venne a visitarci il primo giorno. Temeva potesse accaderci qualcosa
di grave e tentò inutilmente di convincermi a seguire l’esempio dei miei
compagni. Alla fine andò via lasciandoci il suo lungo machete da
ricognizione (alcuni giorni dopo, durante una festa, alcuni giovani nativi gli
spezzarono un braccio). Alla notte ci raggiunsero due donne del villaggio,
delle quali una meticcia di mezza età dai caratteri negroidi, notoriamente
fattucchiera da generazioni in linea materna, molto temuta dagli abitanti
dell’isola. Riferirono che erano state inviate dal Cristino per proteggerci.
Dopo una settimana, tuttavia, le due donne andarono via lasciandoci Tokerau
(termine pascuense di derivazione polinesiana, in
Italiano Il Vento), un singolarissimo cane da guardia al quale la
megera aveva in modo efficacemente plateale ordinato di eseguire i nostri
comandi.
Mi sembrava godere il paradiso terrestre. Dal tardo pomeriggio alla mattina
e nei fine settimana, mi trovavo da solo con la mia bellissima compagna in
quell’isolato luogo ameno, struggente. Andavamo a pescare ed a raccogliere
esemplari malacologici, lungo la scogliera. Facevamo lunghe cavalcate e
passeggiate, ci godevamo il bel manto della prateria, le candide spiagge e gli
indimenticabili infocati tramonti australi.
Tokerau si mostrava un cane di notevoli qualità, sembrava intuire i nostri
ordini già prima che potessimo pronunciarli per intero. Oltre al pascuense,
uno dei dialetti polinesiani, comprendeva anche lo spagnolo, lingua ufficiale
dell’Isola. A volte trascorreva ore fissando le operazioni di scavo con uno
sguardo impenetrabile, immerso in chissà quali meditazioni. Tuttavia, più lo
scavo procedeva e più egli diveniva inquieto.
Iniziarono ad un tratto quelle notti maledette che mai dimenticherò. Luna
nera, la solita pioggia notturna ed il vento che spazzava la prateria.
Dormivamo profondamente. Tokerau era come sempre di guardia innanzi alla tenda.
Mi svegliai di soprassalto, contemporaneamente alla mia compagna, entrambi
madidi di sudore. Avevamo avuto lo stesso sogno: ci trovavamo in cima al
Terevaka, la più alta vetta dell’Isola ed una forza invisibile ci tirava verso
il basso, verso la nostra tenda. Concordammo che doveva essere l’esito
collaterale della frugale cena, pesce crudo ed un paniere di dolcissimi fichi
bianchi (6), avendo questi ultimi notoriamente un effetto
allucinogeno (divinatorio, secondo gli antichi greci) se consumati alla sera,
in abbondanza ed a stomaco vuoto.
Senza alcun dubbio cattiva digestione. Bevemmo un po’ d’acqua e ci
riaddormentammo. Sognammo entrambi di una vecchietta che teneva per mano un
bambino, nel mezzo di un settore dell’area di scavo, nei pressi di un umu
pae (focolare all’aperto). Procedevano verso di noi lentamente, con
aria triste. Senza parlare l’anziana ci comunicò che il bimbo era figlio di una
giovane assassinata in quei luoghi a colpi di pietra, il cadavere era stato
deposto all’interno dello hare moa (grande pollaio in pietra
lavica) innanzi ai cui resti avevo aperto il mio settore di scavo.
Ci svegliammo di nuovo contemporaneamente, ormai fradici di sudore e con il
battito cardiaco alterato. Tokerau ululava e ringhiava orrendamente. Batteva il
muso contro lo zip della tenda ed era ovvio che mi chiamava. Presi il lungo
coltello di Cristino e con il cuore in gola uscii in mezzo alla pioggia
battente ed al forte vento, nella più completa oscurità. La luce della mia
lampada era assorbita dalle tenebre, inefficace. Dovetti tornare sui miei
passi, inginocchiandomi al riparo del telone innanzi alla tenda. Ad occhi
chiusi cercavo di cogliere rumori sospetti.
Tokerau era al mio fianco, con i muscoli tesi ed a testa bassa guardava in
direzione dello scavo. Sembrava dovesse scattare da un momento all’altro.
Trascorse circa un’ora senza che nulla avvenisse, alla fine Tokerau si calmò,
mi leccò affettuosamente il viso e si acquattò nuovamente innanzi all’entrata
della tenda.
Tornai al mio giaciglio e mi addormentai subito. Sognai ancora. E fu uno di
quei sogni che altri denominerebbero premonitori, che restano ben chiari nella
memoria in quanto hanno qualcosa di inspiegabilmente diverso dagli altri.
Chissà dove vaga l’anima, ovvero psiche, quando si dorme.
All’indomani pomeriggio la squadra incaricata dello scavo del settore ove
si era svolto il sogno, trovò la prima sepoltura, ovvero mise in luce lo
scheletro di una donna molto anziana, di piccola statura. Per curiosa
combinazione dopo quel ritrovamento, tutti i componenti di quella squadra
dovettero ricorrere alle cure del piccolo ospedale del villaggio, con serie
lussazioni o fratture in quanto sbalzati dai cavalli, all’improvviso, uno al
giorno.
La peggiore frattura fu quella subita dall’archeologo cileno Josè Miguel
Ramirez, inviato dalla Fondazione Fonk (anni dopo subentrò a Claudio Cristino
nella direzione del Museo antropologico pasquense). Josè era un tipo che a
cavallo aveva già trascorso gran parte della sua carriera scientifica,
esplorando gli sconfinati territori meridionali cileni.
Una brutta lussazione fu anche quella del direttore del Centro Studi e
Ricerche Precolombiane, che negli ultimi venti anni aveva esplorato, a dorso di
mulo, molte remote aree centro e sudamericane (negli anni Settanta sulle Ande
Centrali la sua lunga barba, lo strano abbigliamento e la bizzarra vita
solitaria divennero così popolari che gli indigeni ne confusero il personaggio
con il leggendario Pistacho, un essere dotato di poteri
soprannaturali che si nutriva di carne umana!).
La notizia si sparse per il villaggio, ove la gente si convinse che l’akualu,
ovvero lo spirito tutelare di Puna Marengo, stava ammonendo gli stranieri.
Viceversa, la mia compagna ed io fummo considerati ospiti graditi, in quanto
pur risiedendovi da tempo nulla ancora ci era accaduto.
Decidemmo allora di raccontare il nostro sogno nel corso di un banchetto serale,
offerto da un anziano pescatore, ritenuto uno dei discendenti dell’ultimo
sovrano dell’Isola, l’ariki-mau. Alla indimenticabile cena a base di
aragoste partecipò l’intero suo clan. Ascoltarono in silenzio il nostro
racconto, annuendo spesso, poi gli anziani si appartarono per parlare tra loro
in dialetto polinesiano. Alla fine rientrarono nel cerchio conviviale e ci
confidarono che chiunque nel villaggio aveva tali esperienze.
Apprendemmo inoltre che in quella zona, lo scorso secolo (7),
si nascondevano gli anziani di un tale clan, allorquando sentivano la morte
ormai prossima e volevano sfuggire alla sepoltura nel cimitero cattolico. Si
facevano condurre dai parenti entro le numerose piccole caverne del luogo,
l’entrata veniva chiusa con pietrame e quindi mimetizzata. Bastava dormire in
quei luoghi o svolgervi particolari rituali per entrare in contatto con i loro
spiriti.
Chiesi al direttore l’incarico di esplorare lo stretto cunicolo interno
dell’hare moa, nel quale mi introdussi e effettuai lo scavo assieme
all’antropologa Valentina Visconti di Modrone (8). Vennero alla
luce i soli altri resti ossei umani dell’intera campagna di scavi, pertinenti
ad un bimbo e ad un individuo adulto, molto probabilmente una donna a giudicare
dalle caratteristiche dei pochi frammenti degli arti, dell’età di circa
vent’anni.
Mi fermo a questo punto dei ricordi, perché il resto potrebbe avere una
spiegazione razionale più convincente. Ritengo che l’ambiente suggestivo abbia
agito quale catalizzatore di una straordinaria serie di coincidenze fra
fantasia dei sogni e realtà dei fatti. Tuttavia, non riesco a comprendere come io
abbia potuto, contemporaneamente a Djellah van Walt van Praag (9),
sognare per diverse notti eventi che in seguito, anche a distanza di parecchi
anni, si sono verificati indipendentemente dalle nostre volontà. Quali
meccanismi mentali si instaurarono in noi quei giorni e quali nella mente di
Tokerau?
2014. La vecchia valigia rinvenuta in un’intercapedine di un cottage inglese.
La Djellah che conoscevo era scomparsa tra le mie braccia nel maggio 1992,
ad Amsterdam. Nella tarda estate del 1993 mi vidi recapitare una lettera presso
l’Istituto Italiano di Archeologia Sperimentale di Genova. Mi chiedeva di
raggiungerla in un’antica deliziosa casetta in pietra e legno, nascosta tra le
montagne dell’Isola di Gran Canaria. Intuii che un’altra delle sue personalità,
di quelle che albergano in ognuno di noi represse dalla dominante, aveva in lei
preso il sopravvento dopo un’orrenda operazione eseguita in extremis,
che l’aveva in parte sventrata non solo fisicamente.
Non era stata soltanto una formidabile compagna di avventure. Condividevamo
una di quelle amicizie istintive che continuano motu proprio, anche
senza frequentarsi. Fu così che, temendo si trovasse in gravi problemi, presi
un aereo e, giunto nell’Isola, un taxi, con il quale le diedi un passaggio
avendola incontrata casualmente durante il percorso, alla fermata dell’autobus
nei pressi di Playa de las Burras. Il suo aspetto mi rattristò profondamente:
era un mucchietto d’ossa, le spalle curve, le movenze e lo sguardo velato di
una donna anziana. Premetti un pulsante per abbassare il vetro del finestrino:
“Vuoi un passaggio? Sto andando a El Caidero…”. Abbozzò un debole
sorriso.
Detta così, la vicenda sembrerà razionalmente inaccettabile alla
maggioranza dei lettori, ma per noi non lo era affatto. Accettavamo quelle
stranezze senza rovinarci il presente. Dopo l’esperienza vissuta a Rapa Nui,
evitavamo di cercare spiegazioni.
Nell’arco di circa un mese, lentamente, le tornò la voglia di vivere e di
riprendere a lavorare da musicista e cantante. A quel punto decisi che era
giunto il tempo di andare via, essendo nuovamente in grado di cavarsela da
sola. Rientrai dapprima in Sicilia e, dopo alcune settimane, partii per la
Liguria per concludere e consegnare uno studio svolto in quella regione, al
fine di riscuotere una discreta somma di denaro. Da qui mi recai in
Olanda (10).
Passarono circa vent’anni. Un giorno, credo accadde nel tardo 2012,
ricevetti una email da un conoscente della provincia di Viterbo, un avvocato
che conduceva un fortunato blog. Una giovane lettrice dal cognome irlandese gli
aveva scritto al proposito di un mio commento, pubblicato a margine di un
articolo su presunti omicidi in contesti dove erano state evidenziate, o erano
evidenziabili, simbologie d’interesse esoterico. In breve, gli chiedeva di
passarmi il suo indirizzo di posta elettronica, affinché potessimo comunicare
direttamente, al proposito di notizie su una sua parente giramondo e delle
nostre avventure accadute molti anni addietro.
Effettuai una veloce verifica online e scoprii che si trattava di una
valida e intraprendente giornalista professionista (da qui innanzi citata con
il nome di Effe). Decidemmo di incontrarci a Londra, dove a quel
tempo mi recavo spesso, sotto al colonnato antistante all’entrata principale
del British Museum, custode d’eccellenza di ciò che resta del passato.
Fui lieto di conoscere la nipote di Djellah. Era una giovane donna di
singolare bellezza, i cui occhi dicevano tutto delle sue notevoli doti umane e
professionali. Aveva portato con sé anche la figlia in tenera età, che mi
sembrò possedere la stessa perspicacia della madre. Effe m’informò
che aveva in mente di scrivere un libro sulla vita randagia della zia, e delle
tristi circostanze del suo decesso, che mi disse avvenuto anni addietro
giù nel Kent, a causa dell’aggressiva ricomparsa di un tumore.
Nel corso delle ricerche, si era imbattuta nel blog contenente una mia
citazione ed era così risalita all’articolo pubblicato dal bimestrale
“Grifone”, rimanendo piuttosto colpita dalla descrizione dell’esperienza avuta
dalla zia all’Isola di Pasqua. Le fornii alcuni dettagli sulle circostanze del
nostro primo incontro in Perù, a Lima, il periodo vissuto assieme a Santiago de
Chile, e su altri nostri viaggi e residenze, e infine l’ultimo periodo alle
Isole Canarie.
Le augurai successo con la biografia e tutto finì lì, o meglio lo speravo,
in quanto ritenevo triste che una bella donna illuminata da notevoli qualità,
sprecasse tempo della sua promettente vita a indagare, immersa nella muffa dei
ricordi di altri, sulla complessa esistenza vissuta da una sua parente.
Detto questo, bisogna ammettere l’utilità sociale di quella mitizzazione.
Per le lettrici in cerca di biografie romanzate zeppe di avventure al
femminile, la biografia di Djellah avrebbe costituito un’irresistibile
attrazione, una facile e piacevole opportunità per evadere nell’immaginario di
un loro vissuto “altro”. Avrebbero provato l’esperienza taumaturgica di essere
prese per mano, dall’ologramma di quella straordinaria donna eccentrica e
“single”, e, ça va sans
dire?, condotte alla fascinazione, al
fantasticarsi avventurose, sessualmente emancipate e giramondo in quegli
eccitanti tempi ormai lontani del maschilismo rampante.
Tuttavia, ero certo che l’onestà intellettuale di Effe avrebbe
trovato il modo di fare riflettere le lettrici. Vi era, come sempre, anche
l’altro lato della medaglia, qui costituito dall’evidenza che le realtà
quotidiane di Djellah, quelle estenuanti lotte per difendere le sue libertà,
erano state costellate anche di esperienze maledettamente negative. Un insieme
di realtà quindi ben più complesso da quello immaginato comodamente in
poltrona, fatto proprio con l’aiuto di un libro in mano, da aprire e chiudere,
o sfogliare saltando pagine sgradite quando si vuole.
Nell’aprile 2014, dopo due anni di silenzio, mi raggiunse una nuova email
di Effe nella quale mi metteva al corrente di un bizzarro
ritrovamento, avvenuto alcune settimane addietro in un cottage del
Surrey.
La narrazione della vicenda ben aderiva alla lista delle imprese
eccentriche di Djellah, trattandosi del luogo nel quale aveva soggiornato prima
di trasferirsi nel Kent dove, asseriva la nipote, era deceduta.
Non verificai la notizia del decesso, in quanto preferii lasciare aperta la
possibilità che a quel tempo fosse invece ancora in vita, nascosta sotto nuovo
nome in qualche remota parte del mondo. D'altronde, l’idea che l’intera
narrazione della sua morte potesse perfino essere stata costruita per fare
perdere le sue tracce non era affatto peregrina, a causa dell’esistenza di
pericoli provenienti dal suo passato. Aveva lavorato al servizio di istituzioni
governative occidentali, e come spesso avviene nell’ambiente, aveva avuto
rapporti anche con la concorrenza. Era uno dei suoi lati oscuri, ma dubito che
celasse un abisso.
Non sapevo cosa pensare al riguardo delle sue paure, ma quelle mezze
informazioni si aggiungevano a quanto brutalmente rivelatomi da un funzionario nella primavera del 1992,
all’inizio di un lavoro che svolsi a Roma in alcune strutture del Sovrano
Militare Ordine di Malta.
Tornando agli ultimi mesi antecedenti alla sua scomparsa, riporto qui di
seguito le informazioni ricevute da Effe per iscritto.
Nel cottage vi era stata una perdita da una delle tubature del
bagno. Durante i lavori di ripristino, nell’intercapedine di un muro fu
inaspettatamente rinvenuta una vecchia valigia appartenuta al padre di Djellah,
alla quale era stata donata alla fine degli anni 1980, al tempo della partenza
per il lungo periodo vissuto in Sudamerica (11).
Nella valigia erano custoditi alcuni romanzi, vecchi indumenti femminili, e
altri oggetti trattenuti a ricordo del tempo vissuto in Perù e in Chile, tra i
quali un ampio poncho andino che nel corso di diversi viaggi
usammo spesso per ripararci dal freddo. Vi erano anche lettere ricevute da
amici e familiari in quel periodo, un biglietto da visita del mio ufficio in
Sicilia, e un piccolo gruppo di nostre foto scattate all’Isola di Pasqua. Effe mi
chiese se desiderassi averle inviate.
Forse per rimanere in tema di eccentricità, le ricevetti solo due anni dopo
in un plico ormai inatteso, contenente le foto e il mio vecchio biglietto da
visita, accompagnato da una lettera manoscritta di Effe che si
scusava per il ritardo. Non ritenni il caso di saperne di più, e tutto finì lì.
Ripensando a quanto accaduto all’Isola di Pasqua, trovo utile chiarire che
oggi la fenomenologia medianica è stata scientificamente accertata con prove di
laboratorio (12). Pur non essendo state ancora scoperte le cause e
la tipologia delle “energie” coinvolte. Bisognerà quindi attendere i futuri
studi che probabilmente coinvolgeranno in questo campo di studi sia le teorie
quantistiche che, inevitabilmente, l’applicazione dell’intelligenza
artificiale.
Note
1) Villari P., 20 dicembre 2000, Eindpunt, Tokerau e la vecchietta,
in “Grifone”, organo bimestrale dell’Ente Fauna Siciliana, anno IX, n. 6 (fasc.
48), pp.6-7.
Per ulteriori notizie
sull’importante attività giornalistica svolta in Sicilia da Bruno Ragonese,
rimando all’articolo: Villari P., 27 settembre 2020, Fantasmi di processi mai
nati. 1) “Saldi archeologici: il guerriero di bronzo”, pubblicato da The
Reporter’s Corner:
https://www.thereporterscorner.com/2020/09/fantasmi-di-processi-mai-nati-1-saldi.html
2) Tuttavia, giunto nella capitale cilena, accettai di eseguire le attività
archeologiche non come dipendente dalla partecipare agli scavi non come
dipendente dalla Fondazione Ligabue, ma quale diretto incaricato dalla
direzione del Museo Nacional de Historia Natural (Santiago, Chile) di svolgere
ricerche zoologiche (e quindi anche archeozoologiche) patrocinate dal Museo e a
carico del Direttore, Luis F. Capurro, come chiarito nel certificato
rilasciatomi: “desarrollará en Isla de Pascua investigaciones
zoológicas las patrocinadas por el Museo a mi cargo, con el compromiso de que
el material estudiado pasará a integrar las colecciones de la Sección
Zoología de esta istitución”. Il certificato mi venne consegnato in data 11
ottobre 1991, con tutti gli onori e auguri di circostanza, il giorno seguente
partii in aereo per l’Isola, assieme ai componenti della Missione Italo-Cilena
Hanga-o-Teo (vedasi anche la nota 11).
In pratica avevo ricevuto carta
bianca su qualsiasi ricerca zoologica volessi svolgere nell’Isola - compresi
scavi e studi archeozoologici - e avrei potuto eventualmente utilizzarla anche
negli anni successivi, non essendo nel documento specificato alcun limite di
tempo.
Per meglio comprendere parte
della tragica vicenda personale di Djellah, devo qui chiarire come la mia
presenza nell’Isola era passata alle dirette dipendenze del Governo cileno
post-dittatoriale, dopo avere partecipato a una cena in casa di Don Luis Capurro
- che tenne subito a citare le sue origini genovesi. Alla piacevole serata
parteciparono altri personaggi, tra cui un giovane ufficiale e due anziani
gentiluomini già appartenenti ai vertici dell’aviazione e della marina cilena.
Anche se non fu invitata alla cena, l’evento (venni a sapere dal padre di
Djellah parecchi mesi dopo, in un villaggio nei pressi di Antwerpen, in Belgio dove
viveva con la nuova moglie) era stato organizzato da amici che avevano forti
legami anche in quel nuovo governo cileno. La cosa non mi piacque affatto, ma
ormai era troppo tardi.
Due giorni dopo la cena, venni
convocato al Museo Nazionale di Storia Naturale dove, circondato dai suoi
attivissimi collaboratori e collaboratrici, ricevetti dalle mani dello stesso
Don Luis quel certificato che, ancor oggi, costituirebbe il sogno di ogni
archeologo o zoologo del pianeta e che invece decisi di non utilizzare negli
anni seguenti. Forse questo fu un errore per il danno economico e
professionale, ma giunto nell’Isola fu sgradevole accorgersi gradatamente di essere
finito nel mezzo di un progetto politico anche se a fin di bene. Mi astenni dal
parlarne persino con Thor Heyerdahl (che certamente avrebbe potuto
contestualizzare i fatti e chiarirmi certe dinamiche) quando, circa due anni
dopo, ci incrociammo alle Isole Canarie e mi chiese della “cornice” nella quale
si erano svolti gli scavi svolti all’Isola di Pasqua.
Come prevedibile questo
sopravvenuto potere di sconfinata libertà di azione a livello scientifico in
quell’Isola, allarmò l’architetto a capo della spedizione patrocinata dalla
Fondazione Ligabue, in quanto mi poneva in condizione di totale indipendenza. I
problemi furono appianati momentaneamente, convenendo entrambi sull’importanza
di separare le nostre aree di intervento a Puna Marengo e il mio diritto-dovere
di dirigere, campionare e pubblicare - per conto del Museo Cileno di
Storia Naturale - lo scavo di una struttura d’interesse archeozoologico situata
a pochi metri dai resti della capanna preistorica scavata dal suo gruppo.
Anni dopo, il team che aveva
operato sotto l’egida della Fondazione Ligabue pubblicò un volume dedicato alle
proprie ricerche all’Isola di Pasqua, dove l’architetto si vendicò
dell’affronto subito astenendosi dal citare il mio nome, gli scavi e i risultati
delle ricerche contemporaneamente effettuate a pochi metri dalle sue. Non fu
tuttavia in grado d’impedire la testimonianza del documentario realizzato
all’Isola di Pasqua da una troupe di RAI1 nel corso degli
scavi, che venne trasmesso in prima serata sulla rete televisiva nazionale
italiana. In alcune riprese compaiono anche i miei scavi presso lo hare
moa mentre impegnato al lavoro. Djellah concesse di essere ripresa
solo di spalle, nelle operazioni di recupero di reperti d’interesse
archeologico provenienti dalla setacciatura del terreno escavato.
Nel 1996 ebbi l’occasione di
incontrare il prof. Omar Ricardo Ortiz-Troncoso, compianto collega cileno a
quel tempo docente di Archeologia del Sudamerica, presso l’Albert
Egges van Giffen Instituut voor Prae en Protohistorie dell’Università
di Amsterdam. Decidemmo di rivederci in Istituto, e in seguito nella sua casa
sita in Kerkstraat, dove esibii il certificato rilasciatomi da Luis Capurro.
Dopo averlo letto con commozione per il ricordo del caro collega, mi chiese di
redigere un articolo sui dati stratigrafici e archeozoologici provenienti
dall’area di scavo da me esplorata all’Isola di Pascua nel 1991. L’articolo fu
pubblicato integralmente, in lingua italiana dalla rivista Ultramarina
Foundation della quale Omar era editore:
Villari P., 1997, Saggio di scavo
nell’area di un “hare moa” sito in località Puna Marengo (Isla de Pascua,
Chile), Ultramarine Occasional Papers, Number 3 (November 1997),
pp. 1-12.
L’anno dopo mi fu richiesta la
stesura di un secondo articolo, questa volta sui miei scavi d’interesse
archeozoologico che avevo condotto nella tarda estate del 1991 nella Gran
Piramide di Cauhachi (Nazca, Peru) che venne pubblicato da Ultramarina
Newsletter. Fu tradotto in lingua spagnola dallo stesso prof. Troncoso,
entusiasta, in quanto si trattava di uno dei primi scavi eseguiti in
Sudamerica, con tecniche e metodologie propriamente archeozoologiche.
Desidero qui brevemente ricordare
la figura di Omar R. Ortiz-Troncoso (1939-2021), uno straordinario gentiluomo
dalla vasta cultura e passione per la ricerca archeologica sul campo. Fu uno
dei pionieri degli studi sugli insediamenti preistorici, che lui stesso scoprì
avventurosamente tra l’inizio degli anni 1960 e la prima metà degli anni 1970,
nell’area costiera della Patagonia lungo lo Stretto di Magellano. Tra i venti e
i trentacinque anni si mantenne lavorando come insegnante in un liceo
(Pedagogia e Geografia) a Punta Arenas. Dopo avere conseguito il dottorato di
ricerca in Francia, all’Università Sorbone1-Paris, avente come tema i suoi
ritrovamenti, venne chiamato alla docenza all’Università di Amsterdam, agli
inizi degli anni 1980. Qui organizzò da subito un brillante periodo di scavi,
studi e ricerche preistoriche lungo la fascia costiera della Colombia, e in
seguito su siti d’età coloniale in Venezuela.
In concomitanza con la stesura di
questo articolo ho riletto alcune lettere della nostra corrispondenza,
intercorsa negli ultimi anni dello scorso secolo, dove emergono le sue qualità
di scienziato di livello internazionale dalla personalità cristallina,
associata all’umiltà, all’accoglienza e all’istintiva inclinazione al bene.
3) Attualmente, si ritiene verosimile che i primi abitanti giunsero dalle
Isole Marchesi.
4) al momento della stesura dell’articolo, ottobre 2000.
5) Sin dalla metà dello scorso secolo, la presenza di questo simbolo
nell’Isola di Pasqua pone quesiti fondamentali sulla provenienza e mantenimento
di contatti saltuari con altre popolazioni dell’Oceano Pacifico. Le recenti
(2020) analisi morfologiche dei caratteri craniali e del DNA effettuati su
alcuni reperti umani di età precedente all’arrivo dei primi viaggiatori
europei, ha dimostrato plausibile un primo popolamento dell’Isola da parte di
popolazioni provenienti dalle coste del Sudamerica.
Nel 1993, durante le surveys che
svolsi nell’area di El Caidero di Gran Canaria (Isole Canarie), ebbi
l’occasione di discuterne con l’antropologo ed etnografo norvegese Thor
Heyerdahl che a quel tempo risiedeva saltuariamente nella vicina isola di
Tenerife con la nuova moglie. Fu un incontro positivo, consolidato dalla
scoperta che entrambi provenivamo da una solida base di studi universitari
naturalistici, in particolare zoologici e geografici, e dall’esperienza
all’Isola di Pasqua.
Heyerdahl era fermamente convinto della presenza di verità nell’antica leggenda che agli inizi del quindicesimo secolo era stata tramandata dagli Incas ai cronisti europei. Secondo questa, un gruppo di uomini di statura alta e dalla pelle bianca sopravvissuti a una violenta invasione, guidati dal loro capo Viracocha, erano stati costretti a fuggire dal loro pacifico insediamento in Perù, dirigendo le imbarcazioni verso Occidente (il luogo ove il Dio Sole s’immerge nell’Oceano per il iniziare il quotidiano viaggio notturno nell’oscuro regno dei morti, per poi risorgere a Oriente tra le altissime vette delle Ande).
Le recenti scoperte archeologiche nelle Isole Gambler, in particolare nel sito di Mangareva e nelle Isole Pitcairn (siti localizzati nelle Isole Pitcairn e di Henderson), mostrano forti possibilità di comparazione con l'industria litica e le opere megalitiche prodotte a Rapa Nui. Esse sembrano testimoniare la facilità dispostamento delle popolazioni polinesiane su grandi distanze, al punto di fare ipotizzare una vera e propria esplorazione alla ricerca di nuove isole abitabili del Pacifico meridionale attorno all'anno 1000 d.C. A questo proposito è da citare il viaggio sperimentale effettuato nel 1999 con le tradizionali imbarcazioni polinesiane, che ha permesso di constatare che sono necessari solo diciassette giorni e mezzo per spostarsi dall'Isola di Mangareva a quella di Rapa Nui.
6) l’albero cresceva al margine destro della tenda, nato entro una frattura
beante della roccia.
7) la vicenda si svolse nell’Ottobre 1991, quindi con “lo scorso secolo”
intendo qui il diciannovesimo.
8) Per evitare sgradite reazioni, decidemmo di non informare della nostra
esperienza gli altri componenti della spedizione, con l’ovvia eccezione del
Direttore Responsabile e di Antonio “Toñito” Paolillo, che fu mio iniziale
tramite presso il Consiglio degli Anziani dell’Isola.
9) Quanto accadutoci a Puna Marengo influì molto sulle credenze religiose di
Djellah. Quando nel 2006 finì in un ospedale dove le venne diagnosticato il
ritorno aggressivo e veloce del tumore, affrontando il viaggio dal villaggio
turistico della Florida, dove risiedeva, riuscì a recarsi in Brasile per
consultare un guaritore di
fama internazionale. Questi non fu in grado di far altro che confermarle
il rapido e implacabile approssimarsi della morte, consigliandole di accettarla
quale fine di un’esperienza nel mondo materiale. Secondo Effe, mesi dopo, quando accettò di
trascorrere gli ultimi mesi della sua vita in Inghilterra ospite di parenti,
all’arrivo a Londra fu fermata dalla polizia aeroportuale per avere manomesso
il passaporto. In modo evidente e con inchiostro blu anziché nero, aveva
trasformato l’ultimo numero della sua data di nascita, ovvero uno zero in un sei.
Disse che erano gli anni che realmente aveva, o meglio che sentiva di avere…
10) che divenne il mio porto, ovvero la sede
del focolare al quale negli ultimi trent’anni ho sempre fatto ritorno dai miei
viaggi.
Quando nell’aprile 2002 il prof.
Santo Tinè mi telefonò da Genova per comunicarmi la morte di Thor Heyerdahl, mi
riferì anche la terribile causa - un tumore al cervello - e che alle cure aveva
preferito lasciarsi morire d’inedia. Provai profonda tristezza per la sua
scomparsa, con il Tinè condividevamo orrore per quel che aveva dovuto
affrontare a causa dell’avversione perpetuata da una moltitudine di potenti
accademici, talora con feroce malignità. E tutto questo per le sue teorie
innovative e le avventurose spedizioni scientifiche che tanto interesse
suscitavano nell’opinione pubblica internazionale. Il Prof. Santo Tinè morì
otto anni dopo, a seguito delle lunghe conseguenze di un ictus gravemente
invalidante.
11) Da quanto avevo appreso a Roma nel 1992, negli anni
1980 Djellah aveva convissuto, in diversi Paesi europei, al seguito
di un rifugiato politico cileno, esponente del movimento di opposizione al
governo della Giunta Militare presieduto dal Generale Augusto Pinochet. Fui
anche messo a debita conoscenza del fatto che il figlio del Generale possedeva
proprietà nell’Isola di Pasqua, ricche di depositi di cobalto e, dato ancora
più interessante per comprendere l’ambito di lavoro svolto con abilità da
Djellah, che nel 1991 nell’Isola vi fosse qualcosa che rappresentava un
pericolo per il nuovo governo.
Aveva partecipato a tutte le
principali riunioni degli aderenti al gruppo dei fuoriusciti cileni, viaggiando
assieme al suo compagno tra Inghilterra, Francia e Germania Occidentale
riuscendo a instaurare rapporti personali di profonda amicizia con gli adepti,
venendo così a conoscenza di molti segreti. Quel che più la preoccupava era la
vicenda di una coppia di artisti della Germania Orientale, ex informatori della
Stasi, con i quali il suo compagno cileno aveva avuto rapporti. L’abitazione della
coppia era stata oggetto di un brutale raid della polizia della nuova
federazione tedesca. Era stata forse questa la causa del suo trasferimento in
Cile dopo la caduta del Muro di Berlino, dopo avere lasciato in modo plateale il
compagno in concomitanza di sospetti avanzati da alcuni elementi del gruppo di
rifugiati cileni, che questi facesse il doppio gioco a favore di servizi
d’intelligence ostili.
Al proposito desidero ricordare
che durante la nostra permanenza a Santiago agli inizi di Ottobre 1991, una
sera andammo a trovare due sorelle cilene di mezza età, residenti in un piccolo
appartamento sito nel quartiere degli artisti, il Baquedano. Djellah aveva
vissuto con loro appena giunta in Cile dall’Europa. La loro famiglia era stata
colpita gravemente dal fenomeno della scomparsa di molti congiunti (desaparecidos)
in quanto legati a un partito di Sinistra che era stato al potere sino al golpe militare.
Assieme alle due cilene ci
recammo in una grande piazza nelle vicinanze, dove tra migliaia di persone
assistemmo alla esibizione degli Illapu, un gruppo di musicisti
legati alla Resistenza. Fu emozionante assistere al silenzio del pubblico in
lacrime quando fu intonata la Historia de Manuel, seguita al
termine da un boato di applausi, urla liberatorie, e cori di slogan risalenti
ai tempi della rivoluzione cubana. Nel corso della manifestazione, a Djellah si
avvicinò un’anziana donna che l’abbracciò in lacrime, mi fu presentata
quale la Pasionaria della resistenza cilena (non ne ricordo il
nome). Poi fu portata via da una sorta di servizio di protezione che la
circondava.
La mattina dopo, risiedevo in una
camera che condividevo con Djellah all’Hotel Londres, fui svegliato da
violento bussare alla porta. Aprii madido di sudore e sfatto dall’alcool
trangugiato nel corso della serata in diversi locali live music del
Baquedano. Era il direttore della missione archeologica italo-cilena, e dietro
di lui vi era Johnny de Isla Quadrado, un giovane collega peruviano che stimavo
professionalmente. Assieme all’atto di offrimi una sigaretta,
l’architetto mi chiese cosa ci facessi la sera addietro in quella piazza,
attorniato da un mucchio di “pericolosi fanatici politici”.
Gli risposi che ero andato ad ascoltare un po’ di musica gratuitamente e mi
rispose regalandomi un ghigno. Dopo di ché mi invitò a vestirmi: ero stato
convocato, da solo, all’Istituto per l’Isola di Pasqua (o simile
denominazione), con la motivazione di avere consegnate alcune carte geografiche
militari utili alle mie ricerche. Fermo qui i miei ricordi.
12) In Italia, ad esempio, sono da segnalare gli
esperimenti condotti da ricercatori del Dipartimento di Psicologia Generale
dell’Università di Padova, seguendo protocolli scientifici di accreditato uso
internazionale. In questa sede, dopo aver superato gli esami condotti dagli
specialisti, si può richiedere il rilascio di un riconoscimento di “medium
certificato” valido a tutti gli effetti di legge.