Rapa Nui (Isola di Pasqua, Cile). L’incerto futuro di una remota comunità dell’Oceania agli inizi della crisi egemonica nel mercato globale.

di Pietro Villari, 19 Giugno 2023. Tutti i diritti riservati.

 

Claude Levi Strauss, “Tristi Tropici” e l’epilogo dell’antropocentrismo globalista

La mia generazione di paletnologi provenienti dagli studi naturalistici, formata tra la metà degli anni 1970 e i primi anni 1980, ha avuto la buona stella di nutrirsi non soltanto di forti ideali, dell’insegnamento e delle frequentazioni con eccellenti studiosi, di condurre esplorazioni archeologiche nei più affascinanti e remoti siti a quel tempo conosciuti, ma anche di partecipare in modo costruttivo ai dibattiti che generarono i nuovi approcci metodologici e dottrinali della nostra professione. Per me e alcuni altri colleghi della scuola di specializzazione dell’Università di Pisa e in seguito presso il Laboratorio di Ecologia del Quaternario dell’Università di Firenze, tra i testi fondamentali svettavano quelli di Claude Levi-Strauss (1908-2009), padre dell’antropologia strutturale. Ogni volta che li rileggevo saltavano fuori nuovi spunti utili alle indagini.

Tra i suoi scritti tutti noi preferivamo “Tristi Tropici” (1), un’opera geniale: diario di appassionata ricerca scientifica nella selva amazzonica, romanzo autobiografico, struggente resoconto etnografico, testimonianza dell’irreversibilità della perdita delle culture arcaiche e tradizionali del pianeta, e non ultimo opera a tratti filosofica, in alcuni punti con latenze profetiche. Mi colpiva l’asettica mancanza di riferimenti realmente spirituali, come se il vissuto avesse precluso ogni speranza all’autore. Eppure, per chi voglia sentirlo, il sacro aleggia in ogni pagina dei suoi libri, pur essendo d’indirizzo razionalista.

Come già tra i beduini del deserto giordano, nei remoti villaggi delle Ande peruviane, e persino a Rapa Nui, la più isolata delle isole polinesiane, avevo in quegli anni compreso tutta l’amarezza di Lévi-Strauss negli ultimi due decenni della sua vita centenaria: ogni possibilità sognata da giovane di potere vivere e studiare le affascinanti, esotiche e remote comunità “primitive” era ormai preclusa in quanto estinte. Ne potevo solo constatare le tristi conseguenze, essendo state profondamente corrotte e fagocitate nel confronto con l’imponente opera distruttiva condotta dal potere della modernità, dal neocolonialismo e dal globalismo con la finalità di indurre una totalizzante monocultura planetaria.  

Alla fine degli anni 1970 la maggioranza degli studiosi italiani non riusciva ancora a cogliere il senso profondo di quella sorta di afflizione luttuosa, fortemente percepibile soprattutto tra gli antropologi francesi, per la scomparsa delle ultime popolazioni “primitive” e del loro ricchissimo patrimonio culturale. Un’Umanità che per centinaia di migliaia di anni aveva vissuto in armonia con l’ecosistema nel quale si sentiva parte e non padrona, dissolta innanzi a realtà foriere di nuove peggiorative sciagure, epilogo della deriva comportamentale antropocentrica.

 

Rapadisneyland

Annichilamento dei valori fondamentali della cultura indigena, sovrappopolamento, insufficienza delle attività di sussistenza, depauperamento delle risorse alimentari disponibili, smaltimento dei rifiuti solidi, inquinamento costiero e delle falde acquifere, effetti della diminuzione della quantità annua di pioggia, erosione dell’intero perimetro costiero, dilavamento del suolo, costante presenza annuale di incendi dolosi, contrapposizioni etniche, rappresentano per Rapa Nui le problematiche attualmente individuabili per affrontare il suo futuro. Esse richiederebbero scelte politiche ed economiche immediate, alcune certamente impopolari, al punto che difficilmente si opererà con efficacia per risolverle entro il corrente decennio.

Quanto oggi sta avvenendo, è invece definibile quale un’impegnativa operazione d’interesse politico, il cui fine è di istituire nell’Isola un’imponente apparato amministrativo burocratico a guida tecnocratica, in grado di garantire un sistema di controllo totale del governo cileno delle attività in essa svolte. Esso costituisce una pericolosa arma a doppio taglio per tutti i giocatori seduti al tavolo di questa partita, in quanto la posta è la formazione del potere dominante locale, quale parte di quello nazionale cileno a sua volta componente del gruppo sudamericano filo-occidentale.

È una occasione rara quella che oggi si presenta agli studiosi, di osservare le dinamiche di istituzione e sviluppo sia della piramide della pubblica amministrazione di un sistema politico-economico geograficamente circoscritto come quello di Rapa Nui e sia, come sempre avviene in queste circostanze, del gruppo locale Deep State quale riferimento di quello nazionale e quindi dei poteri transnazionali ai quali questo è connesso (2). Infine, le scelte di oggi saranno alla base delle risposte agli eventi internazionali che accadranno in gran parte del corrente secolo.

Quel che oggi possiamo constatare è che da una parte vi è il veloce avanzare del programma governativo finalizzato a potenziare il controllo dell’isola tramite una piramide tecnico-amministrativa locale, che va ad affiancarsi alla presenza delle forze cilene dell’esercito e di polizia.   Essa sarà nei prossimi anni costituita da un folto gruppo di giovani nativi indottrinati in Continente e ben pagati, con il ruolo di classe dirigenziale degli organismi di governo dell’isola, e ai gradini inferiori gli impiegati con ruoli minori. Il corpo locale di “rangers”, in dotazione del dipartimento del Natura & Monumenti, verrà a breve notevolmente rinforzato con nuovo personale per le funzioni di controllo a salvaguardia del parco e in generale del patrimonio diffuso in tutta l’isola, costituendo una forza di polizia ben dotata di automezzi, tecnologie d’uso internazionale nei parchi naturali e adeguatamente armata.

Dall’altra parte, è ovvio prevedere che questa piramide filo-governativa comporterà costi di gestione molto alti per la comunità, a iniziare dagli stipendi e dai mezzi e tecnologie impiegate che necessariamente assorbiranno parecchia energia elettrica, un bene prezioso per una piccola isola in mezzo a un oceano. Tutto questo potrebbe divenire incompatibile con il sistema, nel caso si verificasse una lunga crisi dell’economia isolana, essendo attualmente fondata sulla precaria sostenibilità delle attività turistiche, dipendendo questa innanzitutto dalle capacità del trasporto aereo e dalle libertà di viaggio concesse dai Paesi di provenienza, che in tal modo mantengono costanti i flussi di enormi masse di turisti registrate nell’ultimo decennio. Tuttavia, l’intenso sfruttamento per finalità turistiche rappresenta la principale causa del logoramento fisico dell’isola e culturale della sua popolazione, un problema di crescente gravità che presto o tardi presenterà il conto.

È inoltre intuibile quanto questa costruzione piramidale burocratica, definibile una sorta di robusta guaina a maglia debolmente elastica che in teoria dovrebbe garantire il buon governo, il costante monitoraggio e la tenuta della comunità, possa al contempo minare le basi della coesistenza e le aspirazioni indipendentiste indigene. Non è affatto raro che in una regione occidentalizzata, la presenza di un coacervo di entità amministrative in un territorio a statuto speciale, come ad esempio Rapa Nui, possa condurre all’insorgenza di una particolare casta sociale i cui ruoli travalicano le finalità d’interesse filogovernativo.

Difatti, anche se poco nota alle cronache giornalistiche, fatto di per sé altamente inquietante, la sua principale attività “parallela” è destinata a divenire ben presto quella di struttura a polifunzionalità logistica, più o meno segretamente collegata a strutture del potere dominante transnazionale, alle sue filiazioni imprenditoriali lobbistiche multinazionali, ai club service filo-occidentali quali il Rotary e le Massonerie (3). Un apparato logistico la cui ramificata fitta presenza nel territorio, generalmente caratterizzata da autorità autoreferenziali, connivenze corporative e comportamenti omertosi, è in grado di corrompere i propositi governativi, creare profonda ostilità nella popolazione, giungendo a favorire l’atavica aspirazione indipendentista fondata sul ritorno all’antico stile di vita polinesiano.

Notiamo una simile situazione in molti altri luoghi (in particolare le isole) del pianeta, che sottoposti al sistema egemonico “occidentale” hanno assunto i caratteri tristemente noti con il termine di repubbliche delle banane, dove impera la vasta gamma delle possibilità corruttive della pubblica amministrazione e l’assenza di giustizia sociale. Per diretta esperienza posso riferirmi a quello che rappresenta un classico esempio dei risultati dell’operazione di manipolazione occidentalizzante: la Sicilia.

Anche qui vi è una popolazione storicamente di forte vocazione indipendentista, che a sua insaputa è stata manipolata in modo da soddisfare politicamente e economicamente le classi sociali media e alta con la concessione dello Statuto Autonomo. Al contempo, l’operazione è stata accompagnata dall’istituzione di un mastodontico apparato burocratico di controllo (la “guaina” sopra citata), e sede di importanti basi militari statunitensi, in quanto luogo altamente strategico del sistema egemonico del cosiddetto Blocco Occidentale.

Oltre la metà della  popolazione siciliana ha oggi perso gran parte del suo patrimonio linguistico, il principale elemento dell’identità culturale che la caratterizzava sino agli anni 1960, sostituito da quello italiano. In tal modo, private dei profondi significati esistenziali della sicilianità, le attività di ricerca scientifica e valorizzazione del suo patrimonio archeologico, monumentale e naturalistico, e delle tradizioni popolari, sono divenute solo un contenitore di elementi utili allo sfruttamento turistico. Del popolo siciliano, esempio di alienazione in quanto estraniato da se stesso, oggi sono rimaste solo le caratteristiche peggiori, essendo ormai una società che ha fatto a suo modo propria e scimmiotta la standardizzazione piatta dello stile di vita americano, peraltro finanziata con fondi che lo Stato italiano ha ottenuti in prestito dall’Unione Europea. Nell’impossibilità di restituirli alla data pattuita, renderanno lo Stato insolvente e quindi totalmente alla mercé dei poteri transnazionali che rappresentano il vero potere dominante all’interno dell’Unione Europea (4).

L’istituzione a Rapa Nui di una piramide di potere governativo cilena, è un modo di garantire al sistema filo-occidentale che, nel caso tra alcuni decenni (ovvero almeno una nuova generazione rapanui) si giunga alla decisione di rendere indipendente l’isola, questa sia stata modificata con manipolazioni finalizzate a determinare il fenomeno dell’etnolisi. A questo sono difatti riconducibili il recente enorme numero di incroci di indigeni con elementi alloctoni e la creazione di una quantità di posti di lavoro governativi, fondamentali per “naturalizzare” e rendere quindi stabile la futura appartenenza della popolazione dell’isola alla sfera culturale occidentale.

La comparazione con la dissoluzione dell’antico indipendentismo siciliano (5), pur comparendo differenti attori, ci riporta a quanto sta avvenendo all’indipendentismo rapanui, alle cause dell’impossibilità di una piena restaurazione dei valori della sovranità indigena.

Il problema che oggi si pone ai Rapanui è come confrontarsi con le promesse di benessere immediato, sostenute dalla creazione di un’imponente dislocazione di posti stabili e ben pagati di lavoro e poter accedere all’acquisto di moderne tecnologie, accettandone l’offerta in cambio della conversione al modello di vita occidentale. E tutto questo pur sapendo che di conseguenza dovranno accettare di divenire oggetto di quelle fameliche operazioni di sfruttamento territoriale, condotte dai diversi gruppi di potere che compongono il sistema dominante in quell’area filo-occidentale dello scacchiere geopolitico internazionale.  

I caratteri dell’indipendentismo presente a Rapa Nui ha fondamenti legittimi, essendo internazionalmente riconosciuto il diritto all’autodeterminazione di un gruppo etnico culturalmente e territorialmente identificabile. Di conseguenza, lo è anche l’aspirazione a ristabilire l’antica suddivisione dell’isola in aree occupate da clan; il diritto del Consiglio dei Capiclan a eleggere un sovrano dell’Isola; e non ultimo il diritto al rifiuto a condurre uno stile di vita quotidiana dominata dagli stressanti ritmi della cultura Occidentale.

In breve, quello indigeno rapanui è un modello culturale totalmente incompatibile con il progetto di esportazione nell’isola della “democrazia made in America”, quell’inaccettabile travestimento del vertice capitalistico, fondamentalmente anarchico ma devoto al sistema intriso di patriottismo da esso creato per controllare le classi ad esso subordinate, gravemente drogate dal benessere consumistico. Un folle piano espansionista liberista, per metà narcisistico e l’altra metà affaristico, dove tutto deve cambiare affinché nulla cambi al vertice, professato quale Nuovo Ordine Mondiale e brillante futuro del pianeta. Un piano cinico, in bilico tra la scelta di una catastrofe fallimentare del sistema occidentale fatta avvenire al rallentatore, e quella che inizia a ritenere la sua unica alternativa di salvezza, rappresentata dall’attivazione di una guerra mondiale di saccheggio totale delle risorse in aree oggi al di fuori dalla sua egemonia.

La risposta del vertice filo-occidentale alle legittime richieste rapanui è stata apparentemente di apertura, concedendo l’autonomia amministrativa regionale, ma in realtà è di segno totalmente opposto. La popolazione è già da oltre un decennio una sorta di laboratorio di trasformazione culturale delle giovani generazioni. Una parte di queste sono pienamente coscienti di quanto sta avvenendo per rendere vano un ritorno alle antiche tradizioni, ma non hanno ormai strumenti politici e economici per opporsi. Lenta e inesorabile, l’etnolisi è in corso.

La presenza di operazioni finalizzate all’adeguamento culturale delle comunità indigene alle necessità del vertice egemonico occidentale, è ormai riscontrabile in una qualsiasi area dell’Impero Occidentale. Vi riscontriamo, standardizzati, gli effetti del processo in parte alienante di tradizioni non consone ai bisogni del liberismo duro, fatta salva quella parte di esse modificata  da assurdi revisionismi occidentalizzanti di carattere etico. Come se la cultura possa essere avulsa da influssi formativi i più disparati, tutti irriproducibili in laboratorio, tra i quali certamente non ultimi sono quelli ambientali. Imporre cambiamenti forzati e repentini a una tradizione culturale equivale a menomarla gravemente, rendendola instabile a lungo termine.

Anche a Rapa Nui si assiste a un fenomeno che colpisce le piccole aree destinate al turismo di massa, dove per sopravvivere la popolazione si trova ingaggiata in quotidiane folcloristiche comparsate. In questo caso, siamo a metà fra una sorta di Disneyland polinesiana e un’operazione concettualmente simile alle aspirazioni commerciali in stile Jurassic Park.

Anche in questo caso, come in altri luoghi simili sotto l’egemonia della rete tridimensionale del capitalismo multinazionale, bisogna chiedersi se una buona fetta dei guadagni resta nell’isola o finisce altrove. Se si tratta di turismo sostenibile o piuttosto dello sfruttamento reso ancora più grasso dalla presenza dell’indicazione “sito UNESCO” che marca persino la comunità indigena, un unicum culturale che avrebbe dovuto essere in ben altro modo tutelato. Sarà mai possibile intervenire efficacemente sulle conseguenze dell’attuale livello raggiunto dall’overtourism e in particolare sulla tenuta non soltanto del patrimonio naturale e monumentale di Rapa Nui, ma dei fondamenti culturali della sua comunità (6).

Malgrado i media riportano dichiarazioni di segno opposto, il Nuovo Ordine Mondiale non può permettersi di tutelare tutti i diritti all’esistenza delle tipicità etniche, nemmeno se lo volesse realmente, e di fatto opera per eliminarle attraverso il processo di standardizzazione culturale. Nei casi di resistenza, l’irresistibilità al suo potere appare nell’annientamento di quanto intralci le sue finalità geopolitiche e commerciali. Lo si è visto ad esempio in Italia anche nello scontro con partiti politici nazionali, o di organizzazioni criminali di stampo mafioso o camorristico, determinando profondi cambi sia nei loro vertici dirigenziali che nelle loro dottrine, in modo da renderli funzionali alle necessità egemoniche del Nuovo Ordine Mondiale occidentale, prevaricando quelle locali.

Cos’altro ci si poteva aspettare ben sapendo che la stessa nascita della potenza trainante dell’attuale sistema occidentale, gli Stati Uniti, è legata all’annichilamento delle popolazioni indigene, a iniziare da quelle che erano presenti su quelli che diventarono il suo territorio nazionale. Una Unione di Stati basata sulla progressiva conquista e un immane massacro di genti e scomparsa di intere culture, concluso con il confinamento dei superstiti in riserve dove era impossibile continuare a svolgere le attività di sussistenza tradizionali indigene. Erano anche in quel caso, come i rapanui, incompatibili al sistema di vita statunitense.  

 

La scoperta europea dell’esistenza di Rapa Nui e la fine di una civiltà arcaica polinesiana

1722. L’ammiraglio Jacob Roggeveen, sessantaquattro anni, è al comando di una piccola flotta navale inviata in missione esplorativa nelle acque dell’Oceano Pacifico Meridionale (7). Sta tentando di compiere il sogno che lo anima sin da bambino: scoprire la leggendaria Terra Australis Incognita. Dopo anni di studi e attività professionali preparative, è riuscito a convincere i vertici della potente West-Indische Compagnie (W.I.C., Compagnia delle Indie Occidentali) a finanziare l’impresa, nella speranza di scoprire nuove ricche terre da sfruttare commercialmente (8).

Dopo avere lasciato la costa cilena e superate le Isole Fernandez naviga in direzione nord-ovest per migliaia di chilometri, attorniata dall’immensa distesa incognita delle acque oceaniche. Così, sembra quasi un miracolo quando, alla sera del 5 aprile 1722, nel giorno della domenica di Pasqua (Paaszondag in olandese), le navi  giungono in vista di un’isola sconosciuta. L’ammiraglio la denominerà quindi Paaseiland, ovvero Isola di Pasqua.

Gli Olandesi scoprono con profonda sorpresa che nonostante si tratta di un piccolo affioramento di origine vulcanica isolato nel mezzo dell’oceano, esso è abitato da alcune migliaia di indigeni e che le sue coste sono disseminate di gruppi di enormi statue litiche. La presenza e la quantità di queste statue (ad oggi ne sono state censite oltre 1100), la loro realizzazione e difficoltà di trasporto fecero presumere conoscenze tecnologiche non attribuibili a quei “selvaggi”. Il mistero venne svelato solo pochi anni fa, ma inizialmente le opere megalitiche generarono centinaia di ipotesi le più disparate, quali ad esempio l’attribuzione a una civiltà di giganti estinta da tempi remoti.

Lo sbarco nell’Isola avviene solo il 10 aprile. L’esplorazione viene condotta dall’Ammiraglio accompagnato da 134 uomini, marinai e soldati ben equipaggiati con armi da fuoco, sconosciute agli isolani sino a quel momento, così come lo erano anche la metallurgia, la tessitura, la manifattura uniformi, la ceramica, il linguaggio e i caratteri razziali di quella che, con preoccupazione, constatavano essere una cultura aliena, di origini misteriose e potenzialmente pericolosa.

Visitata brevemente l’isola e raccolte localmente informazioni con l’aiuto di un interprete polinesiano facente parte del suo equipaggio, probabilmente viene a conoscenza di altre isole presenti ad alcune settimane di navigazione in direzione nord-ovest, Roggeveen proseguì il suo viaggio esplorativo raggiungendo il lembo a nordovest dell’Arcipelago delle Tuamotu, ovvero dapprima l’atollo di Takaroa (18 maggio), e in seguito l’isola di Makatea (2 giugno) (9). Qui forse raccoglie ulteriori informazioni dai nativi che lo convincono definitivamente dell’inesistenza di un continente in quei mari e dell’inutilità di proseguire la missione esplorativa alla ricerca della “Terra Australis Incognita”, della quale con insistenza si rincorrono voci sin dagli inizi del sedicesimo secolo (10).

L’ammiraglio si dirige verso l’Indonesia incontrando sulla rotta l’arcipelago delle Samoa, la Nuova Guinea e le Molucche. Così, dopo aver perso il contatto con le altre navi della sua flotta, giunge nella città fondata dagli Olandesi, Batavia (oggi la capitale Jakarta, che dal 1619 al 1799 fu sede degli uffici della West-Indische Compagnie) dove troverà dei funzionari a beffeggiarlo del fallimento della missione e del danno economico procurato alla WIC, coinvolta nella “folle” ricerca del Continente leggendario.

L’importanza storica dell’evento, compresa da Jacob Roggeveen innanzi alla scoperta della civiltà presente in Paaseiland e il mistero della presenza delle gigantesche statue, non importavano nulla a quei burocrati, che avevano contato sulla scoperta di un nuovo Continente per fare risorgere la potenza olandese. L’esploratore morirà pochi anni dopo, ma non prima di avere lasciato un libro nel quale racconta la sua vita avventurosa, i viaggi in terre esotiche, la sua velata profonda delusione innanzi alla mancata manifestazione di riconoscenza per le sue scoperte geografiche da parte dell’Amministrazione statale olandese.

Il resoconto che Roggeveen scrisse della sua breve esplorazione dell’Isola di Pasqua, con notevole chiarezza ai fini di conoscenza pur trattandosi di un documento stilato per quanto di competenza burocratico-amministrativa, militare e economico-commerciale dello Stato olandese, attirò l’attenzione degli Europei per quasi quattro secoli. Ancora oggi esso costituisce la più antica e preziosa fonte testimoniale disponibile per gli studi paletnologici, paleoecologici e storici.

È così che apprendiamo, in contrasto con quanto descritto da successivi viaggiatori a partire da circa mezzo secolo dopo, l’Isola era fertile e vi prosperavano le attività agricole (dando risalto alla presenza di coltivazioni di diverse specie di banani, tuberi e ortaggi) e all’allevamento di una sottospecie polinesiana di gallo domestico.  

Calcolando e mappando con esattezza la posizione di Paaseiland (Jacob era figlio di Aarend Roggeveen, uno dei migliori cartografi e astronomi olandesi del diciassettesimo), fornì le coordinate utili ad altri naviganti che nello stesso secolo e in quelli successivi, la utilizzarono per le necessità di approvvigionamento di acqua e alimenti freschi. Fu così che, negli anni seguenti, l’Isola venne raggiunta da baleniere o dalle navi dei cacciatori di schiavi provenienti dalle coste americane causando, entro poco più di un secolo, la riduzione della popolazione da circa 3.000 a soli 110 abitanti e la distruzione del precario equilibrio dell’ecosistema isolano.

Dagli inizi del ventesimo secolo i discendenti dei superstiti nativi, anche in quanto stimolati dagli studi scientifici condotti da personalità erudite straniere che hanno vissuto parte della loro vita nell’isola, hanno sviluppato una forte coscienza di quanto accaduto alla loro cultura e della necessità di proteggere quel che rimaneva del passato. Appare indubbio che il mantenimento di nozioni della fede animista, in particolare il culto degli antenati, fu in parte tollerato e protetto all’interno del culto cattolico sino ad evolvere in un sincretismo sopravvissuto sino a oggi (11).

 

Rapa Nui e la crisi terminale del globalismo all’americana 

Sono trascorsi ben trentadue anni dal periodo che vissi all’Isola di Pasqua (12). A quel tempo, sia gli abitanti che i pochi turisti, che vi giungevano per spirito di avventura, non avrebbero potuto immaginare che da lì a pochi anni l’Isola sarebbe entrata nel vortice del mercato globale, sperimentandone gli immediati vantaggi e le tristi conseguenze.

Per focalizzare le problematiche che, entro questo decennio, potrebbero iniziare a costituire le cause dell’avverarsi di profondi cambiamenti culturali, geopolitici, e economici a Rapa Nui, bisogna comprendere quanto sta avvenendo nei Paesi ai quali l’Isola deve il prosperare della sua attuale economia.

Fenomeno esploso agli inizi degli anni 1990, il globalismo si basava su un progetto d’integrazione della popolazione mondiale, otto miliardi di esseri umani, al modello di vita nordamericano, prettamente consumista. Ispirato a dottrine economiche neoliberiste che professavano l’instaurazione di un libero mercato universalista privo di barriere doganali, veniva propagandato quale in grado di generare la veloce diffusione di maggiore benessere e giustizia sociale a livello planetario. Un modello ideologico fallimentare, che sin dall’inizio rivelò che la sua incapacità di estendersi liberamente in diverse aree del mondo attraverso flussi di capitali, merci e lavoro.

Si constatò empiricamente come esso richiedesse sincronismi spesso impossibili da ottenere, in quanto trovavano difficoltà di applicazione per incompatibilità esistenti nei luoghi ove esse intendevano svolgersi (quali ad esempio i divieti governativi protezionisti nei confronti dell’importazione o di esportazione di particolari merci, difficoltà di ottenere permessi per condurre attività commerciali internazionali, tempi burocratici di controllo doganale). Cosicché, pur partecipando per convenienza al mercato globale – e averne abbondantemente usufruito accrescendo in modo esponenziale la loro crescita economica –  le leadership di potenze tendenzialmente egemonico-competitive quali la Cina e la Russia, operarono in modo da impedire la diffusione del modello culturale americano.

Questa scelta permise di evitare una contaminazione culturale profonda e irreversibile, che avrebbe condotto le proprie popolazioni a divenire parte attiva nel progetto del mercato globale quale fenomeno espansionista dell’egemonia americana.

Nel caso della Federazione Russa, è difficile stabilire se l’intervento di contrasto avrà un efficace successo nella porzione occidentale, come dimostra quanto da alcuni decenni avviene in Ucraina. Appare invece attualmente piuttosto improbabile che le popolazioni dell’Asia settentrionale orientale possano fare proprie, in termini di libera sottomissione, le tipicità dello stile di vita perseguito dal potere dominante del “blocco occidentale”. La situazione sembra congegnata per logorare sino allo sfaldamento la Federazione Russa e determinare le condizioni per la sua sostituzione con un gruppo di Stati orientali filo-cinese, e uno occidentale di Stati filo-europeisti.

Fallendo di raggiungere questa meta fondamentale del disegno egemonista occidentale a guida statunitense, iniziarono a manifestarsi gli effetti negativi causati dall’operazione globalista sull’economia americana, già zavorrata da un debito pubblico di dimensioni catastrofiche. I primi a essere duramente colpiti furono i lavoratori dipendenti e le piccole imprese, appartenenti alle classi media e bassa. Avendo il libero mercato causato lo scardinamento dell’assetto interno del mercato del lavoro del blocco occidentale, furono favorite le classi agiate legate alle grandi compagnie multinazionali.    

L’aspetto senz’altro tra i più inquietanti dell’intera vicenda – per quanto i vertici dei poteri statali fossero ben coscienti delle tragiche conseguenze che, nel medio termine, in base a quel piano liberista sarebbero puntualmente derivate all’economia del blocco occidentale – ben pochi personaggi pubblici ebbero la volontà o la forza di cercare di contrastare le manipolazioni affidate alla macchina dei media del potere dominante. Quel vertice di potere, costituito da un coacervo di rappresentanti di poteri pubblici e di enti privati transnazionali, che ha condizionato tutte le scelte politiche e economiche dei poteri nazionali dei Paesi appartenenti al “blocco occidentale”.

Trent’anni dopo, gli effetti disastrosi del tentativo globalista pesano ormai sul futuro dell’Europa. L’America Settentrionale è riuscita a blindarsi in termini protezionistici nella propria economia, forte delle proprie risorse naturali, continuando strette relazioni con i paesi di cultura anglosassone di quel che resta del Commonwealth britannico. Si nota tuttavia una pericolosa crisi identitaria, in particolare statunitense, che potrebbe creare una implosione del sistema federale, caratterizzato dall’accentramento di ricchezze e poteri detenuti dagli Stati delle due coste, orientale e occidentale a discapito di quella parte del territorio americano che sta di mezzo. Quel Midwest tradizionalista che i progressisti consideravano sede di masse di comunità caratterizzate da bassa e rozza cultura, dalle quali ottenere carne da macello, soldati semplici e consumatori di bocca buona. Si tratta di una situazione che, se non risolta nei prossimi anni, potrebbe degenerare in guerra civile.

Se nell’Africa subsahariana e nel sudest asiatico vi sono ampi territori d’influenza probabilmente ormai considerate sufficientemente sfruttate dal famelico colonialismo europeo – in talune aree sino al depauperamento delle ricchezze spinto ad arrecare la distruzione dei locali ecosistemi, mettendo in crisi le possibilità di sopravvivenza delle popolazioni – vi è anche l’attuale situazione determinatasi nel Nord Africa.

Qui le risorse energetiche dei pozzi petroliferi sono destinate a passare al controllo di governi locali, fortemente militarizzati, che progressivamente si stanno allontanando dal modello egemonico americano e in generale occidentale. Lo stesso fenomeno, anche se in termini diversi, si sta registrando nell’Asia occidentale, e entrambi i continenti di questo passo potrebbero uscire dall’egemonia americana entro la fine della metà del corrente secolo.

Nel peggiore dei casi, parti di esse diverranno, assieme ad aree dell’Europa centro-occidentale, luoghi dove combattere una guerra per il controllo egemonico al quale si candidano diversi Paesi asiatici. In primo luogo l’India e la Cina e l’inizio della loro competitiva espansione navale nell’Oceano Pacifico. Per la propria sopravvivenza la Cina dovrà mettere in sicurezza le proprie coste e aprire le rotte commerciali centro occidentali – sino all’Oceano Indiano, all’Arabia Saudita e ai Paesi del Golfo, e non ultimi i Paesi della costa africana centro meridionale – e per tale operazione è fondamentale l’occupazione, l’annessione e il potenziamento di Taiwan quale base militare e commerciale (13).

Ferma restando l’incognita costituita dall’India, se la Cina riuscirà a prevalere sarà un ulteriore colpo verso il declino dell’egemonia navale americana, progressivamente sostituita nelle rotte marittime sulle quali viaggia oltre il 90% delle materie prime del pianeta.

Se riuscirà ad annettere Taiwan quale parte integrante del suo territorio, la Cina potrà espandere la sua area d’influenza politica e economica anche sui Paesi dell’Oceano Pacifico (ad eccezione dell’Australia e della Nuova Zelanda), controllando militarmente i punti nevralgici di quelle ricche rotte commerciali che, tramite l’Oceania renderanno possibile la seconda fase della proiezione egemonica, preceduta da partenariati in aree dell’America Centrale e Meridionale.

Questo periodo di scontri sempre più violenti in molteplici aree del pianeta è già nella fase iniziale, e teoricamente potrebbe prolungarsi per decenni, comportando dapprima l’avvento di gravi instabilità governative determinate da crolli di filiere economiche di portata internazionale dovuta all’interdipendenza dei sistemi finanziari. Un periodo di disordine mondiale dominato da costanti incertezze, determinato dall’insorgenza di una frammentazione del potere in molteplici potenze egemoniche coesistenti. Al livello successivo della catena conseguenziale, il peggiore degli scenari è la degenerazione in un caos devastante ampie aree del pianeta, caratterizzata dalla scomparsa di ogni forma di controllo del territorio, e dall’avvento di guerre tra milizie locali, come già da tempo accade in diversi Paesi africani.

L’attuale inizio dell’arroccamento entro i propri confini dell’economia dell’area nordamericana, sembra avallare l’ipotesi che la possibilità che questi scenari possano concretizzarsi sia considerata un pericolo effettivo in un futuro non lontano, da porre attorno alla metà del secolo. 

È molto probabile che a quel tempo nuove armi di distruzione di massa, calibrate su tipicità genetiche razziali, e in grado di condurre alla disintegrazione immediata e non inquinante dei corpi, lasciando integro l’ambiente. Il loro effetto benefico collaterale sarà quello di causare una drastica soluzione del sovrappopolamento e il ritorno a una sostenibilità della presenza umana.              

L’avvio di questa fase venne preannunciato nell’ormai lontano 2001, con la brutale violenza del caso, da un’azione carica di simbolicità quale contrasto all’egemonia americana: colpendo gli Stati Uniti nel cuore finanziario di New York, si è voluto mettere fine al sistema binario sul quale sino a quel momento si era fondata la ripartizione del potere mondiale, Ovest-Est, simbolicamente rappresentato dalle Torri Gemelle.

Un attentato che difficilmente può essere ancora considerato quale opera progettata ed eseguita con la sola partecipazione di uno o più gruppi terroristici, essendo destinato a rappresentare l’inizio di un nuovo livello di scontro tra potenze militari nell’ambito della instaurazione di un diverso ordine egemonico per il controllo delle risorse energetiche mondiali.

Questa lunga introduzione, per contestualizzare le inquietanti incertezze del futuro della popolazione di Rapa Nui, concludendosi il lungo periodo della Pax Americana, già entro la seconda metà del corrente decennio nessuna popolazione, anche la più remota del pianeta, risulterà immune dalle conseguenze dei giochi di potere che si avvereranno sullo scacchiere geopolitico internazionale, in un progressivo aggravamento che potrebbe essere accompagnato dalla comparsa di eventi bellici catastrofici (14).

Appare evidente che nel lungo termine, il destino di Rapa Nui è legato alla sua capacità di resilienza al caos e da improvvisi vuoti di potere egemonico nel sudest dell’Oceania, dalle decisioni di nuove potenze che occuperanno aree frammentarie del crollato ordine mondiale e decideranno come, quando e a quali fini utilizzare l’isola: grande cava a cielo aperto di estrazione mineraria, emigrazione forzata di gran parte della popolazione, importante potenziamento logistico della base militare aeronautica in quanto posta a media distanza tra Sudamerica e Nuova Zelanda. Prolungati periodi di mancanza d’acqua potabile, alimenti e medicine potrebbero condurre a gravi disordini sociali. Al crollo dei rapporti economici e culturali con il continente americano potrebbe seguire periodo di cooperazione con altre potenze.

Se la competizione tra le grandi potenze mondiali dovesse a breve degenerare in una guerra totale, la sopravvivenza dell’attuale piramide burocratica e la sovrappopolazione di Rapa Nui potrebbero in breve tempo risultare gravemente compromesse dal crollo dell’economia di sussistenza, essendo stata basata sul turismo e attività ad esso collegate, ignorando il fondamentale bisogno di potenziare le attività produttive della filiera alimentare e di porre rimedio all’attuale sovrappopolamento.

 

Globalismo e turismo di massa a Rapa Nui

Da qualche anno i misteri concernenti la realizzazione e il trasporto delle grandi statue sono stati in gran parte svelati, ma l’Isola rimane un centro di attrazione mondiale non soltanto per le particolarità culturali della sua popolazione nativa, gli abbondanti resti archeologici megalitici e l’ampio Parque Nacional Rapa Nui che costituisce circa un terzo del suo territorio.

Oggi vi sono anche decine di ristoranti specializzati in ricette a base di pesci e crostacei (15), una decina di ottimi alberghi e una quantità di bed & breakfast e abitazioni residenziali offerte in affitto, che rendono piacevole la permanenza a coloro che nell’ultimo decennio la frequentano, anche quale uno dei luoghi più esclusivi del surf e del diving internazionale. 

Le sue coste sono disseminate di centri specializzati che offrono guide e istruttori di valido livello, quali Papa Tangaroa, Mata Veri, Viri Iuga O Tuki, Tahai, Huareva, Vaihu, Koe Koe, Akahanga, Motu Hava, tutte citate da surf-forecast.com, il maggiore sito specialistico online del pianeta (16). Consultato dal gotha internazionale del surf, il sito offre gratuitamente e in tempo reale il proprio supporto quale “global big wave finder, with powerfull swell with light or offshore wind”.

Un dato che fornisce una chiara idea il livello oggi raggiunto dal controllo satellitare in tempo reale della superficie del pianeta, persino di quella oceanica, è che questo sito on-line fornisce previsioni dell’altezza delle onde, potenza e direzione dei venti, e temperatura dell’acqua. Esse hanno valore settimanale altamente attendibile anche per questo luogo così remoto.

Nel 1991, ai tempi della mia permanenza nell’isola, il totale dei residenti, compresi i pochi turisti, ammontava a un massimo di circa 3000 individui. Oggi l’Isola conta una presenza umana stabile di oltre 8.000 abitanti ai quali si aggiungono annualmente oltre 90.000 turisti. Vi è una strada asfaltata che conduce dall’aeroporto Mataveri ad Hanga Roa, il piccolo villaggio polinesiano nel corso di alcuni decenni è divenuto una cittadina moderna, con i cittadini che subiscono anch’essi periodici ingorghi di turisti e automezzi, ben attrezzata turisticamente anche con strutture recettive di standard internazionale elevato.

 

Diritti e aspirazioni della popolazione nativa in una comunità divenuta multietnica

Nella remota Rapa Nui, circa la metà dei residenti ha ascendenza polinesiana. Si tratta di una parte della popolazione molto attiva, che rivendica i diritti sulle terre espropriate o estorte (nella totale assenza di diritti giuridici), ai loro antenati nel corso degli ultimi due secoli. Con tenace orgoglio difendono e tramandano alle nuove generazioni ciò che nello scorso secolo è stato preservato della tradizione orale dell’antica cultura Rapanui. Una comunità che, tra l’altro, pone quale necessità primaria un’applicazione realmente funzionale del recente piano di turismo sostenibile, essendo divenute pressanti le insidie provenienti dal globalismo, in particolare le gravose conseguenze negative del turismo invasivo.

Non è facile conciliare le aspettative politiche e socio-economiche sovraniste del governo cileno –che, ricordiamolo, assieme a altri Paesi sudamericani cerca di fronteggiare la rapacità di taluni poteri multinazionali – con il diritto-necessità di salvaguardare il tradizionale stile di vita non soltanto dei nativi, tipicamente polinesiano, essendo ormai esteso a gran parte dell’intera comunità isolana. Esso è ben diverso dall’American Way of Life ormai ideologicamente identificabile quale “Occidentale”, caratterizzato da valori sui quali anche una buona metà degli stessi statunitensi si trovano oggi a riflettere in modo profondamente critico. Inoltre, non si può tacere che nell’isola esiste una minoranza convinta che sia possibile ripristinare le condizioni precedenti all’arrivo degli Europei, le attività economiche tradizionali costituite da pesca, agricoltura e piccoli allevamenti di bovini, ovini e di pollame, per vivere armoniosamente le giornate, scandite nel rispetto dei ritmi della Natura e nella fede animista.

Per rendere fattivo questo stile di vita, la comunità indigena chiede da tempo il reinserimento dell’originario sistema di divisione delle terre, restituendole alla cura dei clan familiari, la nomina di un regnante affiancato dal consiglio dei capiclan, e di reintrodurre l’antica pratica collettiva di dedicarsi alle opere pubbliche. La base di questa società sarebbe quindi costituita dalle relazioni di forte legame affettivo e di mutua assistenza proprie dei clan familiari e dell’unità rappresentata dalla religione sincretica cristiano-animistica, nella quale il rispetto del legame con gli antenati esercita un forte aggregante sociale.

Malgrado questi eccellenti propositi è innegabile che l’imponente presenza di turisti durante l’anno, in massima parte appartenenti a culture europee o americane standardizzate nell’attuale forma dettata dal gruppo dei poteri al vertice del “blocco occidentale”, costituenti il suo “sistema dominante” è divenuta una potente fonte di un paradigma destabilizzante a causa dell’attrazione che quegli stili di vita consumistici esercitano sui giovani nativi. Si tratta di influenze dalle conseguenze corruttive sulla tenuta dei clan familiari e delle quotidiane pratiche espressione di profonda spiritualità, sulle quali fondano la propria sopravvivenza le culture polinesiane.

Si vedano ad esempio gli effetti della diffusione della dipendenza da droghe e alcolici sull’integrità psicofisica individuale e le attività comunitarie, mentre le ricchezze derivate dalle attività commerciali turistiche, hanno determinato l’insorgenza di classi sociali di potere non più necessariamente legate alle qualità maggiormente apprezzate dalla cultura tradizionale polinesiana, o persino in contrasto con i suoi valori.

È una delle modalità messe a punto per tentare di giungere al Nuovo Ordine Mondiale egemonizzato dal modello culturale anglosassone in salsa americana. Sembra quindi trattarsi di una manipolazione costituente la finalità primaria dell’intento globalista, operata affinché il turismo di massa potesse divenire il principale mezzo occidentale per esportare la sua ideologia liberista, quello stile di vita consumistico fonte di devastazione in aree dove ancora regnava la cultura tradizionale, sabotandone l’armonia con l’ecosistema che le ospitava.

 

Overtourism: come creare l’ecosistema insostenibile  

L’attuale sovrappopolamento umano dell’Isola costituisce un ben definibile pericolo con effetti devastanti, insostenibili, in caso di totale isolamento a iniziare dalle necessità alimentari. Seguono la grave realtà degli effetti del depauperamento delle risorse marine; le problematiche legate allo smaltimento dei rifiuti prodotti quotidianamente; l’inquinamento oceanico da materie plastiche con grandi quantità di particelle microplastiche in continua deposizione non soltanto nella fascia costiera isolana, ma anche sui rilievi per effetto dei venti e delle piogge; l’innalzamento del livello marino nel corso dei prossimi decenni e l’erosione delle coste a esso collegato; l’aggravarsi di fenomenologie atmosferiche estreme; la pericolosità e la durata delle future pandemie e l’evoluzione di quelle attuali, quali il dengue emorragico nella sua variante polinesiana.

Ognuna di queste problematiche rappresenta un pericolo costantemente pendente sulla tenuta del progetto di economia sostenibile, recentemente avviato dal governo cileno e fortemente voluto dalla comunità locale e da quella scientifica internazionale, per frenare i danni arrecati dallo sfruttamento di massa delle attrazioni naturali e culturali dell’Isola. Tuttavia, come si può dedurre da quanto sopra esposto, la maggior parte dei problemi hanno cause non imputabili a fattori locali e quindi incontrollabili se non si effettueranno drastici cambiamenti, possibili solo se operati da decisioni attuate a livello politico internazionale. Una mera speranza, lontana e poco credibile, oggi ritenuta di difficile attuazione per motivi politici e economici.

A tutti questi problemi in un lontano futuro potrebbero affiancarsi ulteriori emergenze quali un’incontrollata crescita demografica, gravi crisi energetiche, destabilizzazione e sostituzione del sistema governativo dell’Isola, disordini razziali, trasferimento costrittivo di parte della popolazione, trasformazione dell’isola in un’area estrattiva mineraria a cielo aperto, desertificazione.

Oggi il turismo costituisce il perno delle attività trainanti dell’economia locale, al punto da creare gravi problemi ambientali per sostenerlo, quali l’incremento delle attività di pesca d’alto mare e costiera, e l’impossibilità di smaltire localmente l’enorme massa di rifiuti, generata annualmente dall’uso di materiali importati nell’Isola per le necessità dei turisti e consumati per le loro necessità.

Circa venti anni orsono, lo sfruttamento della fauna ittica operato dalla pesca d’alto mare da flotte di grandi navi specializzate, appartenenti a grandi compagnie multinazionali, causò un drammatico decremento della pesca al tonno, che tradizionalmente costituiva una delle principali risorse alimentari della popolazione isolana. I pescatori locali furono costretti a ricorrere all’intensificazione della pesca lungo la fascia costiera, con la conseguente depauperazione della sua fauna marina.

A questa distruzione dell’ecosistema si è cercato di porre un argine con l’emissione di nuove leggi protettive e l’istituzione di parchi marini. Gli interventi sono tardivi considerate le condizioni di depauperamento dell’Oceano Pacifico, che sino agli anni 1970 si era preservato ricchissimo di vita, giunte ormai da tempo a livelli allarmanti. A peggiorare la situazione è intervenuto anche il massiccio inquinamento dell’intera fascia costiera dell’Isola dovuta, tra l’altro, alle crescenti problematiche associate all’enorme presenza nell’Oceano Pacifico di rifiuti derivati da materie plastiche. Quest’ultima costituisce un’insorgenza con previsioni peggiorative altamente allarmanti, essendo in forte ascesa la produzione mondiale di rifiuti non smaltibili e fortemente dannosi alle condizioni di vita sul pianeta. Le quantità di questi rifiuti dispersi in tutti i mari, hanno conseguenze devastanti anche per l’intera catena alimentare del pianeta, persino in località remote quali Rapa Nui (17).

Di pari passo all’esplosione del fenomeno turistico, si è verificata la comparsa di fenomenologie che avrebbero dovuto essere affrontate prima di permettere l’arrivo delle orde di visitatori generate dal consumismo globalizzante: 1) la presa di coscienza dei propri diritti da parte della popolazione di lontane origini autoctone, anche in senso sovranista e quindi fortemente protettivo della propria cultura e della propria religione. In particolare, bisognava comprendere la magnitudine di quanto quest’ultima sia inscindibile dal rispetto per i monumenti, gli insediamenti, e nel loro complesso tutti i luoghi sacri che legano animisticamente la popolazione con i propri antenati, considerati protettori dell’armonico svolgimento della vita nell’ambiente naturale isolano; 2) la sproporzionata presenza di visitatori nell’isola ha condotto alla produzione di imponenti quantità di rifiuti, per il cui smaltimento vi sono costi altissimi in termini di trasporto in Cile o in Perù per il loro smaltimento; 3) l’enorme inquinamento delle coste e della diffusione di polveri microplastiche dovuto a problematiche non dipendenti dalle attività locali; 4) la necessità di potenziare il servizio ospedaliero, adeguandolo alle necessità dovute alla coesistenza in aree limitate dell’isola di migliaia di individui alloctoni, provenienti da varie aree del mondo e in continua sostituzione con nuovi arrivi.

Attualmente, la popolazione residente viene costantemente e massivamente esposta alle patologie importate dai viaggiatori dai loro Paesi di origine, alcune delle quali si presume possano essere gravi e trasmissibili, potenzialmente in grado di determinare il verificarsi di emergenze di casi di batteri resistenti alle cure o di forme virali pandemiche ad alto impatto letale.

L’economia locale si basa sul turismo di massa, mentre alle forme tradizionali di sussistenza, tipicamente polinesiane, è riservata scarsa importanza fattiva. Cosa accadrebbe degli isolani nel caso, piuttosto probabile, che nei prossimi anni il pianeta fosse scosso da una nuova pandemia, ben più aggressiva di quella vissuta al tempo del COVID? Come potrebbero tentare di sopravvivere in mancanza di un’autosufficienza alimentare e di una forte coesione sociale, tra l’altro in grado di fare emergere vecchi rancori e trasformarsi in un ordigno a orologeria, costituito dalle diverse componenti razziali e culturali? 

In questa ottica, nel 2018 si è mosso un intervento governativo, al fine di limitare a trenta giorni la durata del permesso di soggiorno (che prima concedeva un massimo di 90 giorni) adducendo ragioni sociali e ambientali, e per meglio preservare il patrimonio monumentale. Tuttavia, tale soluzione sembra non solo meramente capziosa, ma controproducente rispetto agli intenti, in quanto lo spazio creato per i nuovi arrivi moltiplica le possibilità di importare malattie, soprattutto quelle inerenti alla diffusione di infezioni epidemiche generate da microrganismi resistenti o totalmente refrattari alle cure antibiotiche.

Eppure, ciò sembra ben chiaro alle Istituzioni governative cilene, che difatti nel caso della pandemia COVID, imposero preventivamente la chiusura dell’Isola ai turisti e limitarono fortemente il traffico aereo civile dal 17 marzo 2020 al 4 agosto 2022, cercando così di prevenire conseguenze catastrofiche per la popolazione isolana.

Secondo dati del 2014, nell’Isola si producono in media 20 tonnellate di rifiuti al giorno, ovvero 7.300 tonnellate all’anno, tra le quali sono presenti ben 440.000 bottiglie di plastica. La realizzazione di una adeguata centrale di smaltimento termico dei rifiuti nell’isola deve fare i conti con la realtà dei fatti. Solo una piccola parte è smaltibile o riciclabile, il resto è da destinare a un’area di stoccaggio a tempo indefinito. E questo rappresenta una notevole problematica in termini di inquinamento dell’ambiente e di occupazione di ampie aree di stoccaggio nell’isola, tra l’altro destinate a un costante allargamento. Difatti, si pensi alle conseguenze se improvvisamente mancasse la possibilità di continuare a inviare periodicamente questi particolari rifiuti tossici agli altoforni cileni e a stabilimenti industriali peruviani specializzati nel loro trattamento in tutta sicurezza. Per ragioni sanitarie e ambientali, il trattamento non è effettuabile in una piccola isola sovrappopolata turisticamente e sede di un parco naturale.  

Il problema dei rifiuti potrebbe compromettere anche le condizioni di sviluppo del rimboschimento, essendovi una relazione tra lo smaltimento effettuato tramite combustione e la polluzione ambientale che, in particolari condizioni atmosferiche, riguarda anche l’attività di formazione di nubi con potenziale tossico e non ultima la compromissione delle falde acquifere che in massima parte finiscono in mare, interagendo quindi con l’ecosistema costiero. Anche se fossero delle piccole quantità, è la continuità della loro produzione, diffusione e deposizione che costituirebbe un pericolo per l’ecosistema e non ultime le attività di sussistenza a esso legate e i conseguenti danni alla salute della popolazione.

 

Mass media e manipolazione globalista: il “Rogo di Rapa Nui” dell’ottobre 2022

Per curiosa coincidenza, conclusa la parentesi epidemica 2020-2022, circa due mesi dopo la riapertura dell’isola ai turisti il tamburo della stampa internazionale attirò l’attenzione delle masse mondiali, riportando con una escalation di notizie allarmanti. Un gigantesco incendio si è sviluppato minacciando il villaggio di Hanga Roa, il parco nazionale e  centinaia di moai, le famose antiche statue megalitiche (18). Le modalità nelle quali sono state create e diffuse queste narrazioni, per poi dissolversi in un prevedibile lieto fine, mostra alcuni aspetti che, quantomeno da un punto di vista giornalistico, avrebbero dovuto essere opportunamente focalizzati aggiungendo una buona dose di autocritica.

Riassumo questa vicenda in quanto sembra trattarsi di un tipico Deep Event (19), in questo caso un evento che non credo stupirebbe qualcuno se risultasse pianificato in un qualche ufficio. Quel che possiamo constatare dall’opera dei media, esso è certamente manipolato con gonfiature, scelte e occultamenti di verità, in modo da attirare l’attenzione pubblica su un argomento. Vi possiamo constatare come sia possibile confezionare una notizia in modo che la narrazione riesca ad appassionare l’opinione pubblica mondiale, e possa essere anche utile per accompagnare o distogliere l’attenzione da altre notizie. Ma la finalità primaria è di favorire effetti a cascata di natura economica in una data area d’interesse geopolitico.

In primo luogo, anche se non fu provato, le dinamiche dell’incendio indussero il sindaco di Hanga Roa a dichiarare, due mesi dopo, ovvero agli inizi di dicembre 2022, non soltanto che si fosse trattato di incendio doloso, ma che in quanto tale è un fenomeno consueto, specificando testualmente “come tutti quelli che si sono precedentemente sviluppati nell’isola”. È interessante notare che la dichiarazione fu subito solo parzialmente ripresa dai media internazionali, tacendo il vero fatto allarmante che gli incendi e in generale gli eventi dolosi sono comuni nell’Isola (20).

Dopodiché, in pochi giorni assistiamo all’ingrasso della notizia su altri giornali, trasformata sino a spingersi a titolarla inserendo l’inquietante termine “attack”, ovvero paventando un vero e proprio attentato al patrimonio ambientale e culturale isolano. Viene inoltre dichiarato che “circa quattrocento moai”, ovvero statue litiche monumentali, cioè poco più di un terzo di quelle presenti sull’intera isola sarebbero state interessate dall’incendio. Senza specificare che cosa s’intenda con questo termine, dato che quelli da pulire dagli annerimenti sono un’ottantina e soltanto uno ha subito danni irreparabili della sua superficie. Anche in questo caso la reale entità del problema viene lasciata vaga. Quali sono realmente stati i danni all’ambiente e ai beni monumentali? Quali sono le possibilità di una completa pulitura dell’area e di restauro? Riparare e restaurare sono due tipi di intervento ben distinti con costi e tempi notevolmente diversi.

L’interesse manipolatorio dei media occidentali, orchestrato su scala internazionale, appare quello di evidenziare l’importanza del patrimonio naturale e culturale isolano, ricordandolo alle masse, sfrondato di ogni problematica derivata dal globalismo rampante, e soprattutto suscitando nell’opinione pubblica un forte desiderio di raggiungere e godersi Rapa Nui, isola paradisiaca, prima che scompaia. E di legittimare provvedimenti governativi per il potenziamento della piramide burocratica di controllo dell’isola.

Nonostante il grande intervento mediatico nazionale e internazionale che paventa un rogo di dimensioni imponenti, è bene ricondurre l’allarme nei suoi termini reali, non essendo stata interessata gran parte dell’Isola, ma un’area di circa 100 ettari dei 7.150 costituenti il Parco Nazionale Rapa Nui, che occupa circa il 44% dell’intero territorio isolano.

Inizialmente i media riportarono di un incendio divampato, per motivi non noti, in un allevamento di bovini sito nei pressi del confine con il parco nazionale, a nordovest del Rano Raraku. Da qui, a causa del vento, si sarebbe esteso in direzione sud-est circondando l’area settentrionale dell’antico vulcano. Secondo le cronache locali la propagazione del fuoco all’interno del cratere sarebbe stata scongiurata grazie all’opera di vigili del fuoco e volontari locali, questi ultimi muniti solo di vanghe, bastoni e pietre. Delle centinaia lambite dalle fiamme, solo una statua avrebbe subito danni irreparabili.

Tuttavia, sei mesi dopo, il 20 marzo del 2023, un articolo comparso sul sito ufficiale dell’Unesco rivela (senza citare la fonte governativa cilena), che si tratta non di uno, ma di “una serie di incendi”, tutti avvenuti nel mese di ottobre 2022 (21). Questa circostanza, se confermata, sembrerebbe eliminare la casualità dell’evento.

Se si tratti realmente di un incendio doloso, ovvero deliberatamente appiccato in più luoghi per aggravarne il bilancio, ad oggi resta ancora un quesito insoluto. Non si ha notizia dell’esistenza di eventuali sospettati, né delle motivazioni alla base del gesto, nella fattispecie se le cause siano da ricercare in dispute locali o nell’ambito di attività collegata a un intervento di livello criminale più alto, con mandanti e interessi esterni alla comunità rapanui. È quindi presumibile che le indagini siano ancora in corso, e che per la loro complessità possano nella migliore delle ipotesi richiedere alcuni anni (22).

Bisogna invece interrogarsi su come sia stato possibile che un incendio originato in un allevamento possa essersi esteso a un parco naturale di rilevanza internazionale e posto sotto la protezione dell’UNESCO. Da un rapporto pubblicato dall’Organizzazione delle Nazioni Unite apprendiamo dell’esistenza di un problema di occupazione illecita di terreni e che lo sconfinamento di bestiame nel parco naturale è un fatto ricorrente (23).

Ai cronisti sarebbe stato utile visitare personalmente l’area colpita dall’incendio, per constatare se al confine del parco fossero state realizzate le cosiddette fasce spartifuoco, quale ad esempio terreni a pascolo raso, tali da costituire un impedimento alla propagazione dell’incendio. Inoltre, una visita agli uffici pubblici di competenza di Hanga Roa, per prendere eventualmente visione del piano d’intervento antincendio del quale presumo l’isola fosse in quell’anno già dotata, conoscere il livello di addestramento della popolazione in previsione di calamità naturali, delle squadre di volontari da impiegare in questi casi per l’assistenza ai turisti e per affiancare il lavoro dei pompieri. Ma lasciamo parlare i dati forniti agli inizi di maggio del 2021, prima del verificarsi degli incendi, dallo stesso corpo dei vigili del fuoco.

Scopriamo così che nell’ultimo decennio nell’isola si sono annualmente in media verificati circa 90 incendi forestali, 10 incendi strutturali, 20 interventi associati a veicoli motorizzati, 40 associati a persone, 20 ad animali, 10 interventi verticali o con corde, 10 fughe di gas. Altro che idilliaca, pacifica isola polinesiana in gran parte disabitata: in media circa un incendio da domare alla settimana, oltre agli interventi quotidiani più o meno definibili di routine.

La caserma dei “bomberos” è dotata di 6 pompieri professionisti e 40 volontari addestrati, e una disponibilità di quattro carri d’intervento, dei quali uno con trazione 4x4 di ultima generazione per raggiungere aree di difficile accesso e munito di una pompa con getto da 3000 litri di acqua al minuto. Una meraviglia della tecnologia, dal costo di oltre 270.000 dollari statunitensi, giunta nell’Isola nel maggio del 2021 (24).

Se il sistema di pronto intervento, stando a quanto dichiarato ai media dalle Autorità, è quindi validamente operativo, ed essendo impossibile che oltre 5 dei 100 incendi all’anno (5%) possa essersi originato per autocombustione, cos’è che li determina? Turisti sbadati, attività illegali di cottura degli alimenti, incendi dolosi (e qui ci si perde in una vasta gamma di motivazioni le più diverse, dagli interessi privati alle finalità politiche). Il problema è quindi socio-culturale e va risolto a livello di clan familiare, di maggiore controllo delle masse di turisti fermo restando la necessità di una forte riduzione del loro quantitativo quotidiano e di dotare tutta l’isola di un adeguato numero di vigilantes ben addestrati.

Il turismo non è tornato alle cifre del boom economico del 2018, quando l’isola venne presa d’assalto da oltre 100.000 visitatori che vi risiedettero per un minimo di una settimana a testa, determinando un giro di affari di oltre 70 milioni di dollari. Tuttavia, il faro del circo mediatico puntato per circa due mesi su quest’isola a seguito dell’incendio, ha permesso una buona ripresa delle sua economia basata sulle molteplici attività lavorative legate al turismo di massa. Una coincidenza che ha contribuito a mantenere attivo un introito annuale d’importanza vitale, ammontando in vent’anni a circa 1 miliardo di dollari. Niente male per una remota isoletta del mezzo dell’Oceano Pacifico.

Il tenore di vita socioeconomico di matrice Occidentale dei nativi di Rapa Nui è cresciuto notevolmente in questi ultimi decenni, grazie alle possibilità offerte dal turismo e dal costante lavoro svolto - anche con l’importante sostegno di organizzazioni ambientaliste internazionali – dagli Enti locali quali la Ma’u Henua Indigenous Community. A questa è tra l’altro assegnata la gestione amministrativa del Parque Nacional de Rapa Nui, che occupa circa un terzo dell’isola.

 

Il salvataggio del patrimonio monumentale quale rottura degli antichi equilibri magico-religiosi

La Rapa Nui che ho avuto il piacere di contribuire alla sua esplorazione scientifica oltre trent’anni fa, è lentamente scomparsa ormai da oltre un quarto di secolo. È doloroso prenderne atto, e questo vale per tutti gli altri luoghi del pianeta a quel tempo ancora intatti e che oggi versano in condizioni allarmanti, tra sfruttamento dissennato delle risorse economiche, sovrappopolamento e inquinamento. Sono le conseguenze dell’ultima follia ideologica del liberismo, il consumismo globalista, che spacciato quale fonte di benessere e progresso culturale planetario, ormai procede in un’espansione esponenziale e insostenibile con tutta probabilità già oltre il punto di non ritorno.

Come se non bastasse, anche su Rapa Nui pendono i problemi generati dall’innalzamento del livello marino, imputato al surriscaldamento globale e alla conseguente fusione dei ghiacci polari. Entro il corrente secolo parte della costa marina sarà soggetta a erosione determinando, se non s’interverrà per tempo, la rovinosa caduta  e sommersione delle statue (moai) e dei loro basamenti sacri megalitici, dei quali l’isola è disseminata lungo tutto il suo perimetro costiero (25). Esiste la reale possibilità che entro il prossimo secolo, il previsto peggioramento delle attuali condizioni climatiche riduca drasticamente la superficie di Rapa Nui sino a renderla un isolotto roccioso inabitabile.

Questo processo di distruzione è già attuale nel caso di alcune aree monumentali, aggravato dall’effetto delle mareggiate, e altre lo saranno probabilmente entro i prossimi decenni. Occorre sin da oggi decidere se spostarle a maggiori altitudini, trasportarne una parte in Musei siti in altri Continenti, o lasciarle al loro destino per essere inghiottite dagli abissi oceanici. In ogni caso, si tratta di operazioni che necessitano di notevoli finanziamenti, particolari mezzi meccanici, manodopera specializzata, e alcuni decenni di lavoro.  

È forse il più drammatico degli interventi da operare a breve termine nell’isola, in quanto il problema colpisce la popolazione nel suo forte legame magico-religioso animista con gli antenati.  

Si tratta di una forma di animismo diffuso in tutta l’Oceania, caratterizzata da uno stretto rapporto con la natura e le sue forze, il culto degli spiriti e del pantheon delle divinità. Non riuscendo a imporre la religione cristiana ai nativi, i missionari riuscirono a convincerli sia con la protezione contro le violenze degli stranieri, accettando di sostituire i luoghi di culto animistico con le chiese, le tipicità degli spiriti in quelle dei santi anche nelle cerimonie religiose. Tuttavia, in tutta la Polinesia, l’opera dei missionari non è riuscita a cancellare la presenza dell’animismo, determinando un ibrido (sincretismo) religioso ben evidente, ad esempio, nel corso delle celebrazioni festive con danze e musiche, e nel forte legame spirituale con la natura (26).

Nel caso si decidesse di spostare i monumenti in altra sede, bisognerebbe tenere presente il diritto,  esercitabile da parte della popolazione rapanui che ha recuperato l’atavica fede animista, di richiedere alle autorità governative l’attivazione delle procedure cerimoniali magico-religiose. I monumenti furono eretti con particolari rituali cerimoniali, e la rottura e nuova apposizione in altra sede dei loro “sigilli” magici devono essere effettuati dai sacerdoti animisti, in modo da non alterare gravemente le volontà e l’armonia evocate e indotte in quei luoghi.

Non è una problematica da sottovalutare, in quanto coinvolge le credenze religiose e il forte legame spirituale della popolazione con l’isola.  

 

Note

1) Lévi-Strauss C., 1975, Tristi Tropici, Il Saggiatore ed. (traduzione di Bianca Garufi), Milano, pp. 441. La prima edizione venne pubblicata nel 1955.

2) ne ho ampiamente scritto in articoli pubblicati su diversi siti on-line, e dal 2020 tutti consultabili nel presente blog. In particolare rimando all’articolo del 27 luglio 2018 “Strutture operative transnazionali e il network sopranazionale Deep States. Un criminologo sull’Arca di Noah” https://www.thereporterscorner.com/2020/06/strutture-operative-transnazionali-e-il.html  e nei sette articoli della serie “La Tecnocrazia e il Sistema di Potere in Sicilia”, Parti I-VII, pubblicati dal 2018 al 2023.  

3) rimando alle indicazioni in nota 2. Per quanto concerne il fenomeno delle autorità statali autoreferenziali, leggasi quanto espresso nell’articolo  pubblicato su questo blog il 12 agosto 2022 “La Tecnocrazia e il Sistema di Potere in Sicilia. Parte V: il Feestschrift, il cerchio magico, e la costruzione del mito dell’Intellighenzia tecnocratica”)  https://www.thereporterscorner.com/2022/08/la-tecnocrazia-e-il-sistema-di-potere.html

4) 27 luglio 2018 “Strutture operative transnazionali…” op. citin nota 2anche per le note bibliografiche pertinenti quanto concerne la descrizione della Commissione Europea fornita nel 2017 da Basil Coronakis nella sua monografia The Deep State of Europe: Requiem for a Dream: “the most sophisticated and corrupt administrative machine in the world… devoted of any political legitimacy”.

5) scomparso nel corso del diciannovesimo secolo per l’avvento dell’ideologia unitaria nazionale prettamente massonica, e degli interessi geopolitici delle grandi potenze dell’Europa Occidentale di quel tempo, che infine nel ventesimo secolo condussero all’instaurazione della Repubblica Italiana e alla costruzione delle basi militari statunitensi nell’isola.

6) All’insostenibilità della presenza di grandi flussi turistici, noto con il termine tecnico overtourism, al sovrappopolamento di piccole isole, e ai problemi socio culturali a questi legati, negli ultimi anni sono stati dedicati molti interessanti lavori. Segnalo in particolare:

Ahmad F., Draz M.U., Su L., 2018, Taking the bad with the Good: The Nexus between Tourism and Environmental Degradation in the Lower-Middle Income Southeast Asian Economies, Journal of Cleaner Production, doi: 10.1016/J.Jclepro.2019.06.138

Angel P., Bergamini K., 2020, Sociocultural-Carrying Capacity: Impact of Population Growth in Rapa Nui, in G. Cirella (a cura di) Sustainable Human - Nature Relations. Advances in 21st Century Human Settlements, Springer ed., Singapore, pp. 23-47

Cinnaghi E., Mondini G., Valle M. (a cura di), 2017, La capacità di carico turistica. Uno strumento per la gestione del patrimonio culturale, Quaderni della valorizzazione. Nuova serie 5, Direzione Generale dei Musei , Roma, pp. 130

Cristino C., Recasens A., Vargas P., 1984, Isla de Pascua: Proceso, Alcances y Efectos de la Aculturación, Facultad de Arquitectura y Urbanismo, Universitad de Chile:  https://www.academia.edu/19391005/Isla_de_pascua_proceso_alcances_y_efectos_de_la_aculturacion_pdf_2159_kb_1_

Lima M., Gayo E.M., 2020, Ecology of the Collapse of Rapa Nui society, Royal Society Publishing, 287, pp. 1-10

Palombi M., 2020, Il fenomeno dell’overtourism nelle realtà insulari: il caso studio dell’Isola di Pasqua, Università Ca’ Foscari, Venezia, Tesi di laurea, pp. 136

Telfer D.J., Sharpley R., 2016, Tourism and Development in the Developing World, Routhledge, 2nd ed., London and New York, pp. 462

7) a quel tempo chiamato semplicemente Grande Mare. Il termine Polinesia fu invece coniato circa un quarto di secolo dopo, nel 1756, dal francese Charles de Brosses per indicare tutte le Isole del Grande mare, comprendenti anche quelle della Malesia. Nel 1832 il termine fu ristretto alle isole presenti nella attuale circoscrizione geografica del Triangolo Polinesiano, con ai vertici le Hawaii, la Nuova Zelanda e l’Isola di Pasqua.

8) Gelder v. R., 2012, Naar het paradijs, het rusteloze leven van Jacob Roggeveen, ontdekker van Paaseiland (1659-1729), Uitgeverij Balans, pp. 336

9) Gelder v. R., 2012, Naar het paradijs, op. cit.;  Heyerdhal T., 1958, Aku-Aku: The Secret of Eastern Island, Rand Mc Nally & Co., Chicago, pp. 384

10) di questa terra ne fa riferimento una carta compilata nel 1513 dall’Ammiraglio turco Piri Reis, scoperta nel 1929 nella biblioteca del Topkapi, il Palazzo del Sultano a Istanbul.

11) Di grande importanza furono gli sforzi di studiosi Europei e Americani, tra i quali il Bavarese Anton Franz Englert, al secolo Sebastian, un missionario poliglotta cattolico che dal 1935 al 1968 dedicò parte della sua vita trascorsa nell’Isola al recupero della memoria del passato, intuendo quanto da questo dipendeva la resilienza etnica e il rifiorire culturale di quella martoriata popolazione.

Mulloy W.T., 1969, Sebastian Englert 1888-1969, in American Anthropologist 71: 1109-1111

Englert S., 2004, La tierra de Hotu Matu’a. Historia y etnologia de la Isla de Pascua: gramática y dicionario del antiguo idioma de Isla de Pascua, 9a ed., Editorial Universitaria, Santiago de Chile, pp. 361

12) Villari P., 8 aprile 1993, I giganti dell’Isola di Pasqua, in La Sicilia, p. 32 (pagina intera con diversi miei articoli dedicati all’argomento);

Villari P., 1997, Saggio di scavo nell’area di un “hare moa” sito in località Puna Marengo (Isla de Pasqua, Chile), Ultramarina Occasional Papers, Ortiz Troncoso R. ed., Number 3 (November 1997), pag. 1-12, Amsterdam;

Villari P., 20 dicembre 2000, Eindpunt, Tokerau e la vecchietta, in Grifone, organo bimestrale dell’Ente Fauna Siciliana, anno IX, n. 6 (fasc.48), pp.6-7.

Villari P., 7 aprile 2023, Isola di Pasqua (Cile), 1991. Testimonianza di fenomenologia N.O.E. (not ordinary experiences) vissuta nel corso degli scavi archeologici condotti a Puna Marengo. The Reporter’s Corner https://www.thereporterscorner.com/2023/04/isola-di-pasqua-cile-1991-testimonianza.html

Villari P., 2 maggio 2023, Toroko, 1991. Un ricordo della prima discoteca dell’Isola di Pasqua (Rapa Nui, Polinesia Cilena). The Reporter’s Corner.  https://www.thereporterscorner.com/2023/05/toroko-1991-un-ricordo-della-prima.html

13) l’antica Ceylon sede di importanti luoghi sacri e centri monasteriali del culto buddista.

14) condotti con armi di distruzione di massa a target biologico selettivo, che non coinvolgono le infrastrutture e causano danni molto limitati all’ecosistema.

15) ai tempi del mio soggiorno, nel 1991, le uniche due attività del genere utilizzavano esclusivamente il pescato locale, non compromesso da inquinamento e prelevato in quantità irrisorie rispetto a quanto avviene negli ultimi vent’anni. In tal modo la sostenibilità dell’ecosistema costiero isolano era ancora attiva.

16) in htttps://www.surf-forecast.com

17) ricerche condotte dall’Istituto di Ecologia dell’Università Católica del Norte, UCN, Cile. I ricercatori hanno appurato che la massa di spazzatura plastica spiaggiata sulle coste di Rapa Nui proviene in prevalenza dall’Australia, Nuova Zelanda, Cile, Peru, Ecuador, ma che a questi si sommano anche provenienze da altre aree del pianeta. Si legga ad esempio l’articolo pubblicato online il 19 dicembre 1919:  https://www.noticias.ucn.cl/especies-invasoras-utilizan-basura-plastica-para-llegar-a-las-costas-de-rapa-nui/

Un rapporto dell’ONU riferisce di una massa galleggiante di spazzatura presente al largo della costa cilena, in gran parte costituita da detriti plastici che aveva raggiunto una superficie ampia tre volte quella del Cile e destinata ad accrescere annualmente. Le ricerche suggeriscono che al ritmo attuale, nel 2050 vi saranno più rifiuti plastici che pesci in tutti gli oceani del pianeta. Per quanto concerne la situazione cilena e quella di Rapa Nui:

https://www.mondonuevo.cl/isla-de-basura-frente-a-chile-ya-es-tre-veces-el-tamano-del-pais/   

https://moevarna.com/en/plastic-contaminates-the-coast-of-rapa-nui

Si leggano inoltre i risultati eclatanti delle ricerche delle missioni scientifiche svolte dal 2015 nella remota Isola di Henderson, un atollo facente parte del Gruppo delle Isole Pitcairn il cui ecosistema rimase incontaminato sino al 1985. Le sue spiagge coralline sono state letteralmente ricoperte da una quantità di frammenti plastici di concentrazione tra le più alte dell’intero pianeta. Fatto ancor più inquietante, la quantità riscontrata è raddoppiata nei sette anni intercorsi tra le misurazioni svolte dalle due missioni scientifiche. Le conseguenze sulla salute della fauna marina e sugli uccelli ad essa legata per uso alimentare sono ancora in corso di studio in laboratorio, ma essendo già state pubblicate le osservazioni preliminari, risultano chiare a quali tragiche conseguenze l’ecosistema mondiale andrà incontro nei prossimi decenni, essendo gran parte delle materie plastiche non smaltibili.

La scorsa estate l’intera spiaggia di quell’atollo, ormai considerato l’ex ultimo paradiso dei Mari del Sud, dichiarato patrimonio dell’UNESCO World Heritage sin dal 1988, è ricoperto da una massa stimabile a circa 70 miliardi di frammenti plastici, associata a una quantità di esemplari faunistici deceduti a causa della loro presenza, ed essi stessi fonte di morte delle specie che di essi si nutrono. Quella visione è l’anteprima di quanto accadrà, tra non molti decenni, alle spiagge e ai mari dell’intero pianeta se non si troveranno delle soluzioni a livello internazionale.

Lavers J.L., Bond A., 2017, Exceptional and rapid accumulation of anthropogenic debris on one of the world’s most remote and pristine islands, in Proceedings of the National Academy of Sciences, Edited by Karl D.M., University of Hawaii, Honolulu.  https://www.pnas.org/doi/10.1073/pnas.1619818114

18) leggasi ad esempio https://apnews.com/article/rapa-nui-easter-island-fire-e27ed4f03fa67e2ftdae10341efdc151

19) per la nozione di Deep Event rinvio a: 27 luglio 2018 “Strutture operative transnazionali…” op. citin nota 2

20) dal quotidiano The Guardian, 7 october 2022, Easter Island fire causes “irreparable” damage to famous moai statues; e dal sito statunitense online https://apnews.com/article/rapa-nui-easter-island-fire-e27ed4f03fa67e2f7dae10341efdc151

21) https://www.unesco.org/en/articles/after-fires-rapa-nui-chile-unesco-launches-evaluation-and-management-plan-islands-world-heritage

22) da un punto di vista criminologico la vicenda potrebbe rivelare un seguito interessante. Difatti, nel caso l’incendio doloso sia il frutto di un’operazione ideata e condotta da specialisti, quale un blitz accompagnato da una serie di diversivi, le possibilità di risalire ai mandanti saranno pressoché nulle. Si potrebbe quindi giungere alla classica situazione in cui per necessità politiche si renda necessario di circoscrivere localmente il problema insabbiandolo, e se questo non fosse possibile, banalizzarlo. Qui si entra nel campo delle tecniche di manipolazione di massa, creando quanto serve per l’incriminazione di un singolo o di un piccolo gruppo della minoranza razziale, di personaggi caratterialmente borderline, o comunque invisi al potere dominante locale e nazionale. Il pasto servito alle belve del circo mediatico, che diverte e tranquillizza il pubblico, e elimina la fastidiosa presenza di oppositori.

23) https://whc.unesco.org/en/list/715  Riporto i seguenti brani: "An increase has been observed in cattle that wander illegally inside the Park limits”… “Additional staff and resources are needed for the administration and care of the site, to reinforce the number and training of the park rangers team, and to increase the operating budget. There is constant pressure on park lands; the State must prevent its illegal occupation”).

24) Paula Rossetti, 4 maggio 2021, Nuevo carro forestal para los bomberos di Rapa Nuihttps://www.elcorreodelmoai.com/?p=2697 L’autrice, di origini italiane, è l’editrice de El Correo del Moai, periodico indipendente fondato nell’isola nel 2009).

25) Casey N, Haner J., in https://nytimes.com/interactive/2018/03/14/climate/easter-island-erosion.html

26) Anche il concetto di nucleo familiare è rimasto più ampio rispetto a quello delle popolazioni cristiane Europee e Nordamericane. Oltre alla coppia di sposi e ai loro figli, ne fanno parte anche nonni, zii, cugini e “parenti adottati”.

 

Archaeological Centre-Villari Archive: pubblicazioni scientifiche

In questa sezione è presentata una selezione di pubblicazioni scientifiche di Pietro Villari (monografie, articoli editi da riviste speciali...