di Pietro Villari, 19 Giugno 2023. Tutti i diritti riservati.
Claude Levi Strauss, “Tristi Tropici” e
l’epilogo dell’antropocentrismo globalista
La mia generazione di paletnologi provenienti dagli studi
naturalistici, formata tra la metà degli anni 1970 e i primi anni 1980, ha
avuto la buona stella di nutrirsi non soltanto di forti ideali,
dell’insegnamento e delle frequentazioni con eccellenti studiosi, di condurre
esplorazioni archeologiche nei più affascinanti e remoti siti a quel tempo
conosciuti, ma anche di partecipare in modo costruttivo ai dibattiti che
generarono i nuovi approcci metodologici e dottrinali della nostra professione.
Per me e alcuni altri colleghi della scuola di specializzazione dell’Università
di Pisa e in seguito presso il Laboratorio di Ecologia del Quaternario
dell’Università di Firenze, tra i testi fondamentali svettavano quelli di
Claude Levi-Strauss (1908-2009), padre dell’antropologia strutturale. Ogni
volta che li rileggevo saltavano fuori nuovi spunti utili alle indagini.
Tra i suoi scritti tutti noi preferivamo “Tristi
Tropici” (1), un’opera geniale: diario di appassionata ricerca scientifica
nella selva amazzonica, romanzo autobiografico, struggente resoconto
etnografico, testimonianza dell’irreversibilità della perdita delle culture
arcaiche e tradizionali del pianeta, e non ultimo opera a tratti filosofica, in
alcuni punti con latenze profetiche. Mi colpiva l’asettica mancanza di
riferimenti realmente spirituali, come se il vissuto avesse precluso ogni
speranza all’autore. Eppure, per chi voglia sentirlo, il sacro aleggia in ogni
pagina dei suoi libri, pur essendo d’indirizzo razionalista.
Come già tra i beduini del deserto giordano, nei remoti
villaggi delle Ande peruviane, e persino a Rapa Nui, la più isolata delle isole
polinesiane, avevo in quegli anni compreso tutta l’amarezza di Lévi-Strauss
negli ultimi due decenni della sua vita centenaria: ogni possibilità sognata da
giovane di potere vivere e studiare le affascinanti, esotiche e remote comunità
“primitive” era ormai preclusa in quanto estinte. Ne potevo solo constatare le
tristi conseguenze, essendo state profondamente corrotte e fagocitate nel
confronto con l’imponente opera distruttiva condotta dal potere della
modernità, dal neocolonialismo e dal globalismo con la finalità di indurre una
totalizzante monocultura planetaria.
Alla fine degli anni 1970 la maggioranza degli studiosi
italiani non riusciva ancora a cogliere il senso profondo di quella sorta di
afflizione luttuosa, fortemente percepibile soprattutto tra gli antropologi
francesi, per la scomparsa delle ultime popolazioni “primitive” e del loro
ricchissimo patrimonio culturale. Un’Umanità che per centinaia di migliaia di
anni aveva vissuto in armonia con l’ecosistema nel quale si sentiva parte e non
padrona, dissolta innanzi a realtà foriere di nuove peggiorative sciagure,
epilogo della deriva comportamentale antropocentrica.
Rapadisneyland
Annichilamento dei valori fondamentali della cultura
indigena, sovrappopolamento, insufficienza delle attività di sussistenza,
depauperamento delle risorse alimentari disponibili, smaltimento dei rifiuti
solidi, inquinamento costiero e delle falde acquifere, effetti della
diminuzione della quantità annua di pioggia, erosione dell’intero perimetro
costiero, dilavamento del suolo, costante presenza annuale di incendi dolosi,
contrapposizioni etniche, rappresentano per Rapa Nui le problematiche
attualmente individuabili per affrontare il suo futuro. Esse richiederebbero
scelte politiche ed economiche immediate, alcune certamente impopolari, al
punto che difficilmente si opererà con efficacia per risolverle entro il
corrente decennio.
Quanto oggi sta avvenendo, è invece definibile quale
un’impegnativa operazione d’interesse politico, il cui fine è di istituire
nell’Isola un’imponente apparato amministrativo burocratico a guida
tecnocratica, in grado di garantire un sistema di controllo totale del governo
cileno delle attività in essa svolte. Esso costituisce una pericolosa arma a
doppio taglio per tutti i giocatori seduti al tavolo di questa partita, in
quanto la posta è la formazione del potere dominante locale, quale parte di
quello nazionale cileno a sua volta componente del gruppo sudamericano
filo-occidentale.
È una occasione rara quella che oggi si presenta
agli studiosi, di osservare le dinamiche di istituzione e sviluppo sia della
piramide della pubblica amministrazione di un sistema politico-economico
geograficamente circoscritto come quello di Rapa Nui e sia, come sempre avviene
in queste circostanze, del gruppo locale Deep State quale riferimento di quello
nazionale e quindi dei poteri transnazionali ai quali questo è connesso (2).
Infine, le scelte di oggi saranno alla base delle risposte agli eventi internazionali
che accadranno in gran parte del corrente secolo.
Quel che oggi possiamo constatare è che da una parte vi è
il veloce avanzare del programma governativo finalizzato a potenziare il
controllo dell’isola tramite una piramide tecnico-amministrativa locale, che va
ad affiancarsi alla presenza delle forze cilene dell’esercito e di
polizia. Essa sarà nei prossimi anni costituita da un folto
gruppo di giovani nativi indottrinati in Continente e ben pagati, con il ruolo
di classe dirigenziale degli organismi di governo dell’isola, e ai gradini
inferiori gli impiegati con ruoli minori. Il corpo locale di “rangers”, in
dotazione del dipartimento del Natura & Monumenti, verrà a breve
notevolmente rinforzato con nuovo personale per le funzioni di controllo a
salvaguardia del parco e in generale del patrimonio diffuso in tutta l’isola,
costituendo una forza di polizia ben dotata di automezzi, tecnologie d’uso
internazionale nei parchi naturali e adeguatamente armata.
Dall’altra parte, è ovvio prevedere che questa piramide
filo-governativa comporterà costi di gestione molto alti per la comunità, a
iniziare dagli stipendi e dai mezzi e tecnologie impiegate che necessariamente
assorbiranno parecchia energia elettrica, un bene prezioso per una piccola
isola in mezzo a un oceano. Tutto questo potrebbe divenire incompatibile con il
sistema, nel caso si verificasse una lunga crisi dell’economia isolana, essendo
attualmente fondata sulla precaria sostenibilità delle attività turistiche,
dipendendo questa innanzitutto dalle capacità del trasporto aereo e dalle
libertà di viaggio concesse dai Paesi di provenienza, che in tal modo
mantengono costanti i flussi di enormi masse di turisti registrate nell’ultimo
decennio. Tuttavia, l’intenso sfruttamento per finalità turistiche rappresenta
la principale causa del logoramento fisico dell’isola e culturale della sua
popolazione, un problema di crescente gravità che presto o tardi presenterà il
conto.
È inoltre intuibile quanto questa costruzione
piramidale burocratica, definibile una sorta di robusta guaina a maglia
debolmente elastica che in teoria dovrebbe garantire il buon governo, il
costante monitoraggio e la tenuta della comunità, possa al contempo minare le
basi della coesistenza e le aspirazioni indipendentiste indigene. Non è affatto
raro che in una regione occidentalizzata, la presenza di un coacervo di entità
amministrative in un territorio a statuto speciale, come ad esempio Rapa Nui,
possa condurre all’insorgenza di una particolare casta sociale i cui ruoli
travalicano le finalità d’interesse filogovernativo.
Difatti, anche se poco nota alle cronache giornalistiche,
fatto di per sé altamente inquietante, la sua principale attività “parallela” è
destinata a divenire ben presto quella di struttura a polifunzionalità
logistica, più o meno segretamente collegata a strutture del potere dominante
transnazionale, alle sue filiazioni imprenditoriali lobbistiche multinazionali,
ai club service filo-occidentali quali il Rotary e le
Massonerie (3). Un apparato logistico la cui ramificata fitta
presenza nel territorio, generalmente caratterizzata da autorità
autoreferenziali, connivenze corporative e comportamenti omertosi, è in grado
di corrompere i propositi governativi, creare profonda ostilità nella
popolazione, giungendo a favorire l’atavica aspirazione indipendentista fondata
sul ritorno all’antico stile di vita polinesiano.
Notiamo una simile situazione in molti altri luoghi (in
particolare le isole) del pianeta, che sottoposti al sistema egemonico
“occidentale” hanno assunto i caratteri tristemente noti con il termine
di repubbliche delle banane, dove impera la vasta gamma delle
possibilità corruttive della pubblica amministrazione e l’assenza di giustizia
sociale. Per diretta esperienza posso riferirmi a quello che rappresenta un
classico esempio dei risultati dell’operazione di manipolazione occidentalizzante:
la Sicilia.
Anche qui vi è una popolazione storicamente di forte
vocazione indipendentista, che a sua insaputa è stata manipolata in modo da
soddisfare politicamente e economicamente le classi sociali media e alta con la
concessione dello Statuto Autonomo. Al contempo, l’operazione è stata
accompagnata dall’istituzione di un mastodontico apparato burocratico di
controllo (la “guaina” sopra citata), e sede di importanti basi militari
statunitensi, in quanto luogo altamente strategico del sistema egemonico del
cosiddetto Blocco Occidentale.
Oltre la metà della popolazione siciliana ha
oggi perso gran parte del suo patrimonio linguistico, il principale elemento
dell’identità culturale che la caratterizzava sino agli anni 1960, sostituito
da quello italiano. In tal modo, private dei profondi significati esistenziali
della sicilianità, le attività di ricerca scientifica e valorizzazione del suo
patrimonio archeologico, monumentale e naturalistico, e delle tradizioni
popolari, sono divenute solo un contenitore di elementi utili allo sfruttamento
turistico. Del popolo siciliano, esempio di alienazione in quanto estraniato da
se stesso, oggi sono rimaste solo le caratteristiche peggiori, essendo ormai
una società che ha fatto a suo modo propria e scimmiotta la standardizzazione
piatta dello stile di vita americano, peraltro finanziata con fondi che lo
Stato italiano ha ottenuti in prestito dall’Unione Europea. Nell’impossibilità
di restituirli alla data pattuita, renderanno lo Stato insolvente e quindi
totalmente alla mercé dei poteri transnazionali che rappresentano il vero
potere dominante all’interno dell’Unione Europea (4).
L’istituzione a Rapa Nui di una piramide di potere
governativo cilena, è un modo di garantire al sistema filo-occidentale che, nel
caso tra alcuni decenni (ovvero almeno una nuova generazione rapanui) si giunga
alla decisione di rendere indipendente l’isola, questa sia stata modificata con
manipolazioni finalizzate a determinare il fenomeno dell’etnolisi. A questo
sono difatti riconducibili il recente enorme numero di incroci di indigeni con
elementi alloctoni e la creazione di una quantità di posti di lavoro
governativi, fondamentali per “naturalizzare” e rendere quindi stabile la
futura appartenenza della popolazione dell’isola alla sfera culturale
occidentale.
La comparazione con la dissoluzione dell’antico
indipendentismo siciliano (5), pur comparendo differenti attori, ci
riporta a quanto sta avvenendo all’indipendentismo rapanui, alle cause
dell’impossibilità di una piena restaurazione dei valori della sovranità
indigena.
Il problema che oggi si pone ai Rapanui è come
confrontarsi con le promesse di benessere immediato, sostenute dalla creazione
di un’imponente dislocazione di posti stabili e ben pagati di lavoro e poter
accedere all’acquisto di moderne tecnologie, accettandone l’offerta in cambio
della conversione al modello di vita occidentale. E tutto questo pur sapendo che di conseguenza dovranno accettare di divenire oggetto di quelle fameliche operazioni di sfruttamento
territoriale, condotte dai diversi gruppi di potere che compongono il sistema dominante
in quell’area filo-occidentale dello scacchiere geopolitico
internazionale.
I caratteri dell’indipendentismo presente a Rapa Nui ha
fondamenti legittimi, essendo internazionalmente riconosciuto il diritto
all’autodeterminazione di un gruppo etnico culturalmente e territorialmente
identificabile. Di conseguenza, lo è anche l’aspirazione a ristabilire l’antica
suddivisione dell’isola in aree occupate da clan; il diritto del Consiglio dei
Capiclan a eleggere un sovrano dell’Isola; e non ultimo il diritto al rifiuto a
condurre uno stile di vita quotidiana dominata dagli stressanti ritmi della
cultura Occidentale.
In breve, quello indigeno rapanui è un modello culturale
totalmente incompatibile con il progetto di esportazione nell’isola della “democrazia
made in America”, quell’inaccettabile travestimento del vertice
capitalistico, fondamentalmente anarchico ma devoto al sistema intriso di
patriottismo da esso creato per controllare le classi ad esso subordinate,
gravemente drogate dal benessere consumistico. Un folle piano espansionista
liberista, per metà narcisistico e l’altra metà affaristico, dove tutto deve
cambiare affinché nulla cambi al vertice, professato quale Nuovo Ordine
Mondiale e brillante futuro del pianeta. Un piano cinico, in bilico tra la
scelta di una catastrofe fallimentare del sistema occidentale fatta avvenire al
rallentatore, e quella che inizia a ritenere la sua unica alternativa di
salvezza, rappresentata dall’attivazione di una guerra mondiale di saccheggio
totale delle risorse in aree oggi al di fuori dalla sua egemonia.
La risposta del vertice filo-occidentale alle legittime
richieste rapanui è stata apparentemente di apertura, concedendo l’autonomia
amministrativa regionale, ma in realtà è di segno totalmente opposto. La
popolazione è già da oltre un decennio una sorta di laboratorio di
trasformazione culturale delle giovani generazioni. Una parte di queste sono
pienamente coscienti di quanto sta avvenendo per rendere vano un ritorno alle
antiche tradizioni, ma non hanno ormai strumenti politici e economici per
opporsi. Lenta e inesorabile, l’etnolisi è in corso.
La presenza di operazioni finalizzate all’adeguamento
culturale delle comunità indigene alle necessità del vertice egemonico
occidentale, è ormai riscontrabile in una qualsiasi area dell’Impero
Occidentale. Vi riscontriamo, standardizzati, gli effetti del processo in parte
alienante di tradizioni non consone ai bisogni del liberismo duro, fatta salva
quella parte di esse modificata da assurdi revisionismi
occidentalizzanti di carattere etico. Come se la cultura possa essere avulsa da
influssi formativi i più disparati, tutti irriproducibili in laboratorio, tra i
quali certamente non ultimi sono quelli ambientali. Imporre cambiamenti forzati
e repentini a una tradizione culturale equivale a menomarla gravemente,
rendendola instabile a lungo termine.
Anche a Rapa Nui si assiste a un fenomeno che colpisce le
piccole aree destinate al turismo di massa, dove per sopravvivere la
popolazione si trova ingaggiata in quotidiane folcloristiche comparsate. In
questo caso, siamo a metà fra una sorta di Disneyland polinesiana e
un’operazione concettualmente simile alle aspirazioni commerciali in stile
Jurassic Park.
Anche in questo caso, come in altri luoghi simili sotto
l’egemonia della rete tridimensionale del capitalismo multinazionale, bisogna
chiedersi se una buona fetta dei guadagni resta nell’isola o finisce altrove.
Se si tratta di turismo sostenibile o piuttosto dello sfruttamento reso ancora
più grasso dalla presenza dell’indicazione “sito UNESCO” che marca persino la
comunità indigena, un unicum culturale che avrebbe dovuto essere in ben altro
modo tutelato. Sarà mai possibile intervenire efficacemente sulle conseguenze
dell’attuale livello raggiunto dall’overtourism e in particolare
sulla tenuta non soltanto del patrimonio naturale e monumentale di Rapa Nui, ma
dei fondamenti culturali della sua comunità (6).
Malgrado i media riportano dichiarazioni di segno
opposto, il Nuovo Ordine Mondiale non può permettersi di tutelare tutti i
diritti all’esistenza delle tipicità etniche, nemmeno se lo volesse realmente,
e di fatto opera per eliminarle attraverso il processo di standardizzazione
culturale. Nei casi di resistenza, l’irresistibilità al suo potere appare
nell’annientamento di quanto intralci le sue finalità geopolitiche e
commerciali. Lo si è visto ad esempio in Italia anche nello scontro con partiti
politici nazionali, o di organizzazioni criminali di stampo mafioso o
camorristico, determinando profondi cambi sia nei loro vertici dirigenziali che
nelle loro dottrine, in modo da renderli funzionali alle necessità egemoniche
del Nuovo Ordine Mondiale occidentale, prevaricando quelle locali.
Cos’altro ci si poteva aspettare ben sapendo che la
stessa nascita della potenza trainante dell’attuale sistema occidentale, gli
Stati Uniti, è legata all’annichilamento delle popolazioni indigene, a iniziare
da quelle che erano presenti su quelli che diventarono il suo territorio
nazionale. Una Unione di Stati basata sulla progressiva conquista e un immane
massacro di genti e scomparsa di intere culture, concluso con il confinamento
dei superstiti in riserve dove era impossibile continuare a svolgere le attività
di sussistenza tradizionali indigene. Erano anche in quel caso, come i rapanui,
incompatibili al sistema di vita statunitense.
La scoperta europea dell’esistenza di Rapa Nui e la fine
di una civiltà arcaica polinesiana
1722.
L’ammiraglio Jacob Roggeveen, sessantaquattro anni, è al comando di una piccola
flotta navale inviata in missione esplorativa nelle acque dell’Oceano Pacifico
Meridionale (7). Sta tentando di compiere il sogno che lo anima sin
da bambino: scoprire la leggendaria Terra Australis Incognita. Dopo
anni di studi e attività professionali preparative, è riuscito a
convincere i vertici della potente West-Indische Compagnie (W.I.C., Compagnia
delle Indie Occidentali) a finanziare l’impresa, nella speranza di scoprire
nuove ricche terre da sfruttare commercialmente (8).
Dopo
avere lasciato la costa cilena e superate le Isole Fernandez naviga in
direzione nord-ovest per migliaia di chilometri, attorniata dall’immensa
distesa incognita delle acque oceaniche. Così, sembra quasi un miracolo quando,
alla sera del 5 aprile 1722, nel giorno della domenica di Pasqua (Paaszondag in
olandese), le navi giungono in vista di un’isola sconosciuta.
L’ammiraglio la denominerà quindi Paaseiland, ovvero Isola di
Pasqua.
Gli
Olandesi scoprono con profonda sorpresa che nonostante si tratta di un piccolo
affioramento di origine vulcanica isolato nel mezzo dell’oceano, esso è abitato
da alcune migliaia di indigeni e che le sue coste sono disseminate di gruppi di
enormi statue litiche. La presenza e la quantità di queste statue (ad oggi ne
sono state censite oltre 1100), la loro realizzazione e difficoltà di trasporto
fecero presumere conoscenze tecnologiche non attribuibili a quei “selvaggi”. Il
mistero venne svelato solo pochi anni fa, ma inizialmente le opere megalitiche
generarono centinaia di ipotesi le più disparate, quali ad esempio
l’attribuzione a una civiltà di giganti estinta da tempi remoti.
Lo
sbarco nell’Isola avviene solo il 10 aprile. L’esplorazione viene condotta
dall’Ammiraglio accompagnato da 134 uomini, marinai e soldati ben equipaggiati
con armi da fuoco, sconosciute agli isolani sino a quel momento, così come lo
erano anche la metallurgia, la tessitura, la manifattura uniformi, la ceramica,
il linguaggio e i caratteri razziali di quella che, con preoccupazione,
constatavano essere una cultura aliena, di origini misteriose e potenzialmente
pericolosa.
Visitata
brevemente l’isola e raccolte localmente informazioni con l’aiuto di un
interprete polinesiano facente parte del suo equipaggio, probabilmente viene a
conoscenza di altre isole presenti ad alcune settimane di navigazione in
direzione nord-ovest, Roggeveen proseguì il suo viaggio esplorativo
raggiungendo il lembo a nordovest dell’Arcipelago delle Tuamotu, ovvero
dapprima l’atollo di Takaroa (18 maggio), e in seguito l’isola di Makatea (2
giugno) (9). Qui forse raccoglie ulteriori informazioni dai nativi
che lo convincono definitivamente dell’inesistenza di un continente in quei
mari e dell’inutilità di proseguire la missione esplorativa alla ricerca
della “Terra Australis Incognita”, della quale con insistenza si
rincorrono voci sin dagli inizi del sedicesimo secolo (10).
L’ammiraglio
si dirige verso l’Indonesia incontrando sulla rotta l’arcipelago delle Samoa,
la Nuova Guinea e le Molucche. Così, dopo aver perso il contatto con le altre
navi della sua flotta, giunge nella città fondata dagli Olandesi, Batavia (oggi
la capitale Jakarta, che dal 1619 al 1799 fu sede degli uffici della
West-Indische Compagnie) dove troverà dei funzionari a beffeggiarlo del
fallimento della missione e del danno economico procurato alla WIC, coinvolta
nella “folle” ricerca del Continente leggendario.
L’importanza
storica dell’evento, compresa da Jacob Roggeveen innanzi alla scoperta della
civiltà presente in Paaseiland e il mistero della presenza delle gigantesche
statue, non importavano nulla a quei burocrati, che avevano contato sulla
scoperta di un nuovo Continente per fare risorgere la potenza olandese.
L’esploratore morirà pochi anni dopo, ma non prima di avere lasciato un libro
nel quale racconta la sua vita avventurosa, i viaggi in terre esotiche, la sua
velata profonda delusione innanzi alla mancata manifestazione di riconoscenza
per le sue scoperte geografiche da parte dell’Amministrazione statale olandese.
Il
resoconto che Roggeveen scrisse della sua breve esplorazione dell’Isola di
Pasqua, con notevole chiarezza ai fini di conoscenza pur trattandosi di un
documento stilato per quanto di competenza burocratico-amministrativa, militare
e economico-commerciale dello Stato olandese, attirò l’attenzione degli Europei
per quasi quattro secoli. Ancora oggi esso costituisce la più antica e preziosa
fonte testimoniale disponibile per gli studi paletnologici, paleoecologici e
storici.
È così
che apprendiamo, in contrasto con quanto descritto da successivi viaggiatori a
partire da circa mezzo secolo dopo, l’Isola era fertile e vi prosperavano le
attività agricole (dando risalto alla presenza di coltivazioni di diverse
specie di banani, tuberi e ortaggi) e all’allevamento di una sottospecie
polinesiana di gallo domestico.
Calcolando
e mappando con esattezza la posizione di Paaseiland (Jacob era
figlio di Aarend Roggeveen, uno dei migliori cartografi e astronomi olandesi
del diciassettesimo), fornì le coordinate utili ad altri naviganti che nello
stesso secolo e in quelli successivi, la utilizzarono per le necessità di
approvvigionamento di acqua e alimenti freschi. Fu così che, negli anni
seguenti, l’Isola venne raggiunta da baleniere o dalle navi dei cacciatori di
schiavi provenienti dalle coste americane causando, entro poco più di un
secolo, la riduzione della popolazione da circa 3.000 a soli 110 abitanti e la
distruzione del precario equilibrio dell’ecosistema isolano.
Dagli
inizi del ventesimo secolo i discendenti dei superstiti nativi, anche in quanto
stimolati dagli studi scientifici condotti da personalità erudite straniere che
hanno vissuto parte della loro vita nell’isola, hanno sviluppato una forte
coscienza di quanto accaduto alla loro cultura e della necessità di proteggere
quel che rimaneva del passato. Appare indubbio che il mantenimento di nozioni
della fede animista, in particolare il culto degli antenati, fu in parte
tollerato e protetto all’interno del culto cattolico sino ad evolvere in un
sincretismo sopravvissuto sino a oggi (11).
Rapa Nui e la crisi terminale del globalismo all’americana
Sono trascorsi ben trentadue anni dal periodo che vissi
all’Isola di Pasqua (12). A quel tempo, sia gli abitanti che
i pochi turisti, che vi giungevano per spirito di avventura, non avrebbero
potuto immaginare che da lì a pochi anni l’Isola sarebbe entrata nel vortice
del mercato globale, sperimentandone gli immediati vantaggi e le tristi
conseguenze.
Per focalizzare le problematiche che, entro questo
decennio, potrebbero iniziare a costituire le cause dell’avverarsi di profondi
cambiamenti culturali, geopolitici, e economici a Rapa Nui, bisogna comprendere
quanto sta avvenendo nei Paesi ai quali l’Isola deve il prosperare della sua
attuale economia.
Fenomeno esploso agli inizi degli anni 1990, il
globalismo si basava su un progetto d’integrazione della popolazione mondiale,
otto miliardi di esseri umani, al modello di vita nordamericano, prettamente
consumista. Ispirato a dottrine economiche neoliberiste che professavano
l’instaurazione di un libero mercato universalista privo di barriere doganali,
veniva propagandato quale in grado di generare la veloce diffusione di maggiore
benessere e giustizia sociale a livello planetario. Un modello ideologico
fallimentare, che sin dall’inizio rivelò che la sua incapacità di estendersi
liberamente in diverse aree del mondo attraverso flussi di capitali, merci e
lavoro.
Si constatò empiricamente come esso richiedesse
sincronismi spesso impossibili da ottenere, in quanto trovavano difficoltà di
applicazione per incompatibilità esistenti nei luoghi ove esse intendevano
svolgersi (quali ad esempio i divieti governativi protezionisti nei confronti
dell’importazione o di esportazione di particolari merci, difficoltà di
ottenere permessi per condurre attività commerciali internazionali, tempi
burocratici di controllo doganale). Cosicché, pur partecipando per convenienza
al mercato globale – e averne abbondantemente usufruito accrescendo in modo
esponenziale la loro crescita economica – le leadership di potenze
tendenzialmente egemonico-competitive quali la Cina e la Russia, operarono in
modo da impedire la diffusione del modello culturale americano.
Questa scelta permise di evitare una contaminazione
culturale profonda e irreversibile, che avrebbe condotto le proprie popolazioni
a divenire parte attiva nel progetto del mercato globale quale fenomeno
espansionista dell’egemonia americana.
Nel caso della Federazione Russa, è difficile stabilire
se l’intervento di contrasto avrà un efficace successo nella porzione
occidentale, come dimostra quanto da alcuni decenni avviene in Ucraina. Appare
invece attualmente piuttosto improbabile che le popolazioni dell’Asia
settentrionale orientale possano fare proprie, in termini di libera
sottomissione, le tipicità dello stile di vita perseguito dal potere dominante
del “blocco occidentale”. La situazione sembra congegnata per logorare sino allo sfaldamento la Federazione Russa e determinare le condizioni per la sua sostituzione con un gruppo di Stati
orientali filo-cinese, e uno occidentale di Stati filo-europeisti.
Fallendo di raggiungere questa meta fondamentale del
disegno egemonista occidentale a guida statunitense, iniziarono a manifestarsi
gli effetti negativi causati dall’operazione globalista sull’economia
americana, già zavorrata da un debito pubblico di dimensioni catastrofiche. I
primi a essere duramente colpiti furono i lavoratori dipendenti e le piccole
imprese, appartenenti alle classi media e bassa. Avendo il libero mercato
causato lo scardinamento dell’assetto interno del mercato del lavoro del blocco
occidentale, furono favorite le classi agiate legate alle grandi compagnie
multinazionali.
L’aspetto senz’altro tra i più inquietanti dell’intera
vicenda – per quanto i vertici dei poteri statali fossero ben coscienti delle
tragiche conseguenze che, nel medio termine, in base a quel piano liberista
sarebbero puntualmente derivate all’economia del blocco occidentale – ben pochi
personaggi pubblici ebbero la volontà o la forza di cercare di contrastare le
manipolazioni affidate alla macchina dei media del potere dominante. Quel
vertice di potere, costituito da un coacervo di rappresentanti di poteri
pubblici e di enti privati transnazionali, che ha condizionato tutte le scelte
politiche e economiche dei poteri nazionali dei Paesi appartenenti al “blocco
occidentale”.
Trent’anni dopo, gli effetti disastrosi del tentativo
globalista pesano ormai sul futuro dell’Europa. L’America Settentrionale è
riuscita a blindarsi in termini protezionistici nella propria economia, forte
delle proprie risorse naturali, continuando strette relazioni con i paesi di
cultura anglosassone di quel che resta del Commonwealth britannico. Si nota
tuttavia una pericolosa crisi identitaria, in particolare statunitense, che
potrebbe creare una implosione del sistema federale, caratterizzato dall’accentramento
di ricchezze e poteri detenuti dagli Stati delle due coste, orientale e
occidentale a discapito di quella parte del territorio americano che sta di
mezzo. Quel Midwest tradizionalista che i progressisti consideravano sede di
masse di comunità caratterizzate da bassa e rozza cultura, dalle quali ottenere
carne da macello, soldati semplici e consumatori di bocca buona. Si tratta di
una situazione che, se non risolta nei prossimi anni, potrebbe degenerare in
guerra civile.
Se nell’Africa subsahariana e nel sudest asiatico vi sono
ampi territori d’influenza probabilmente ormai considerate sufficientemente
sfruttate dal famelico colonialismo europeo – in talune aree sino al
depauperamento delle ricchezze spinto ad arrecare la distruzione dei locali
ecosistemi, mettendo in crisi le possibilità di sopravvivenza delle popolazioni
– vi è anche l’attuale situazione determinatasi nel Nord Africa.
Qui le risorse energetiche dei pozzi petroliferi sono
destinate a passare al controllo di governi locali, fortemente militarizzati,
che progressivamente si stanno allontanando dal modello egemonico americano e
in generale occidentale. Lo stesso fenomeno, anche se in termini diversi, si
sta registrando nell’Asia occidentale, e entrambi i continenti di questo passo
potrebbero uscire dall’egemonia americana entro la fine della metà del corrente
secolo.
Nel peggiore dei casi, parti di esse diverranno, assieme
ad aree dell’Europa centro-occidentale, luoghi dove combattere una guerra per
il controllo egemonico al quale si candidano diversi Paesi asiatici. In primo
luogo l’India e la Cina e l’inizio della loro competitiva espansione navale
nell’Oceano Pacifico. Per la propria sopravvivenza la Cina dovrà mettere in
sicurezza le proprie coste e aprire le rotte commerciali centro occidentali –
sino all’Oceano Indiano, all’Arabia Saudita e ai Paesi del Golfo, e non ultimi
i Paesi della costa africana centro meridionale – e per tale operazione è
fondamentale l’occupazione, l’annessione e il potenziamento di Taiwan quale
base militare e commerciale (13).
Ferma restando l’incognita costituita dall’India, se la
Cina riuscirà a prevalere sarà un ulteriore colpo verso il declino
dell’egemonia navale americana, progressivamente sostituita nelle rotte
marittime sulle quali viaggia oltre il 90% delle materie prime del pianeta.
Se riuscirà ad annettere Taiwan quale parte integrante
del suo territorio, la Cina potrà espandere la sua area d’influenza politica e
economica anche sui Paesi dell’Oceano Pacifico (ad eccezione dell’Australia e
della Nuova Zelanda), controllando militarmente i punti nevralgici di quelle
ricche rotte commerciali che, tramite l’Oceania renderanno possibile la seconda
fase della proiezione egemonica, preceduta da partenariati in aree dell’America
Centrale e Meridionale.
Questo periodo di scontri sempre più violenti in
molteplici aree del pianeta è già nella fase iniziale, e teoricamente potrebbe
prolungarsi per decenni, comportando dapprima l’avvento di gravi instabilità
governative determinate da crolli di filiere economiche di portata
internazionale dovuta all’interdipendenza dei sistemi finanziari. Un periodo di
disordine mondiale dominato da costanti incertezze, determinato dall’insorgenza
di una frammentazione del potere in molteplici potenze egemoniche coesistenti.
Al livello successivo della catena conseguenziale, il peggiore degli scenari è
la degenerazione in un caos devastante ampie aree del pianeta, caratterizzata
dalla scomparsa di ogni forma di controllo del territorio, e dall’avvento di
guerre tra milizie locali, come già da tempo accade in diversi Paesi africani.
L’attuale inizio dell’arroccamento entro i propri confini
dell’economia dell’area nordamericana, sembra avallare l’ipotesi che la
possibilità che questi scenari possano concretizzarsi sia considerata un
pericolo effettivo in un futuro non lontano, da porre attorno alla metà del
secolo.
È molto probabile che a quel tempo nuove armi di
distruzione di massa, calibrate su tipicità genetiche razziali, e in grado di
condurre alla disintegrazione immediata e non inquinante dei corpi, lasciando
integro l’ambiente. Il loro effetto benefico collaterale sarà quello di causare
una drastica soluzione del sovrappopolamento e il ritorno a una sostenibilità
della presenza
umana.
L’avvio di questa fase venne preannunciato nell’ormai
lontano 2001, con la brutale violenza del caso, da un’azione carica di
simbolicità quale contrasto all’egemonia americana: colpendo gli Stati Uniti
nel cuore finanziario di New York, si è voluto mettere fine al sistema binario
sul quale sino a quel momento si era fondata la ripartizione del potere
mondiale, Ovest-Est, simbolicamente rappresentato dalle Torri Gemelle.
Un attentato che difficilmente può essere ancora
considerato quale opera progettata ed eseguita con la sola partecipazione di
uno o più gruppi terroristici, essendo destinato a rappresentare l’inizio di un
nuovo livello di scontro tra potenze militari nell’ambito della instaurazione
di un diverso ordine egemonico per il controllo delle risorse energetiche
mondiali.
Questa lunga introduzione, per contestualizzare le
inquietanti incertezze del futuro della popolazione di Rapa Nui, concludendosi
il lungo periodo della Pax Americana, già entro la seconda metà del
corrente decennio nessuna popolazione, anche la più remota del pianeta,
risulterà immune dalle conseguenze dei giochi di potere che si avvereranno
sullo scacchiere geopolitico internazionale, in un progressivo aggravamento che
potrebbe essere accompagnato dalla comparsa di eventi bellici
catastrofici (14).
Appare evidente che nel lungo termine, il destino di Rapa
Nui è legato alla sua capacità di resilienza al caos e da improvvisi vuoti di
potere egemonico nel sudest dell’Oceania, dalle decisioni di nuove potenze che
occuperanno aree frammentarie del crollato ordine mondiale e decideranno come,
quando e a quali fini utilizzare l’isola: grande cava a cielo aperto di
estrazione mineraria, emigrazione forzata di gran parte della popolazione,
importante potenziamento logistico della base militare aeronautica in quanto
posta a media distanza tra Sudamerica e Nuova Zelanda. Prolungati periodi
di mancanza d’acqua potabile, alimenti e medicine potrebbero condurre a
gravi disordini sociali. Al crollo dei rapporti economici e culturali con il
continente americano potrebbe seguire periodo di cooperazione con altre
potenze.
Se la competizione tra le grandi potenze mondiali dovesse
a breve degenerare in una guerra totale, la sopravvivenza dell’attuale piramide
burocratica e la sovrappopolazione di Rapa Nui potrebbero in breve tempo
risultare gravemente compromesse dal crollo dell’economia di sussistenza,
essendo stata basata sul turismo e attività ad esso collegate, ignorando il
fondamentale bisogno di potenziare le attività produttive della filiera
alimentare e di porre rimedio all’attuale sovrappopolamento.
Globalismo e turismo di massa a Rapa Nui
Da qualche anno i misteri concernenti la realizzazione e
il trasporto delle grandi statue sono stati in gran parte svelati, ma l’Isola
rimane un centro di attrazione mondiale non soltanto per le particolarità
culturali della sua popolazione nativa, gli abbondanti resti archeologici
megalitici e l’ampio Parque Nacional Rapa Nui che costituisce
circa un terzo del suo territorio.
Oggi vi sono anche decine di ristoranti specializzati in
ricette a base di pesci e crostacei (15), una decina di ottimi
alberghi e una quantità di bed & breakfast e abitazioni
residenziali offerte in affitto, che rendono piacevole la permanenza a coloro
che nell’ultimo decennio la frequentano, anche quale uno dei luoghi più
esclusivi del surf e del diving internazionale.
Le sue coste sono disseminate di centri specializzati che
offrono guide e istruttori di valido livello, quali Papa Tangaroa, Mata Veri,
Viri Iuga O Tuki, Tahai, Huareva, Vaihu, Koe Koe, Akahanga, Motu Hava, tutte
citate da surf-forecast.com, il maggiore sito specialistico online
del pianeta (16). Consultato dal gotha internazionale del surf, il
sito offre gratuitamente e in tempo reale il proprio supporto quale “global
big wave finder, with powerfull swell with light or offshore wind”.
Un dato che fornisce una chiara idea il livello oggi
raggiunto dal controllo satellitare in tempo reale della superficie del
pianeta, persino di quella oceanica, è che questo sito on-line fornisce
previsioni dell’altezza delle onde, potenza e direzione dei venti, e
temperatura dell’acqua. Esse hanno valore settimanale altamente attendibile
anche per questo luogo così remoto.
Nel 1991, ai tempi della mia permanenza nell’isola, il
totale dei residenti, compresi i pochi turisti, ammontava a un massimo di circa
3000 individui. Oggi l’Isola conta una presenza umana stabile di oltre 8.000
abitanti ai quali si aggiungono annualmente oltre 90.000 turisti. Vi è una
strada asfaltata che conduce dall’aeroporto Mataveri ad Hanga Roa, il piccolo
villaggio polinesiano nel corso di alcuni decenni è divenuto una cittadina
moderna, con i cittadini che subiscono anch’essi periodici ingorghi di turisti
e automezzi, ben attrezzata turisticamente anche con strutture recettive di
standard internazionale elevato.
Diritti e aspirazioni della popolazione nativa in una
comunità divenuta multietnica
Nella remota Rapa Nui, circa la metà dei residenti ha
ascendenza polinesiana. Si tratta di una parte della popolazione molto attiva,
che rivendica i diritti sulle terre espropriate o estorte (nella totale assenza
di diritti giuridici), ai loro antenati nel corso degli ultimi due secoli. Con
tenace orgoglio difendono e tramandano alle nuove generazioni ciò che nello
scorso secolo è stato preservato della tradizione orale dell’antica
cultura Rapanui. Una comunità che, tra l’altro, pone quale
necessità primaria un’applicazione realmente funzionale del recente piano di
turismo sostenibile, essendo divenute pressanti le insidie provenienti dal
globalismo, in particolare le gravose conseguenze negative del turismo
invasivo.
Non è facile conciliare le aspettative politiche e
socio-economiche sovraniste del governo cileno –che, ricordiamolo, assieme a
altri Paesi sudamericani cerca di fronteggiare la rapacità di taluni poteri
multinazionali – con il diritto-necessità di salvaguardare il tradizionale
stile di vita non soltanto dei nativi, tipicamente polinesiano, essendo ormai
esteso a gran parte dell’intera comunità isolana. Esso è ben diverso dall’American
Way of Life ormai ideologicamente identificabile quale “Occidentale”,
caratterizzato da valori sui quali anche una buona metà degli stessi
statunitensi si trovano oggi a riflettere in modo profondamente critico.
Inoltre, non si può tacere che nell’isola esiste una minoranza convinta che sia
possibile ripristinare le condizioni precedenti all’arrivo degli Europei, le
attività economiche tradizionali costituite da pesca, agricoltura e piccoli
allevamenti di bovini, ovini e di pollame, per vivere armoniosamente le
giornate, scandite nel rispetto dei ritmi della Natura e nella fede animista.
Per rendere fattivo questo stile di vita, la comunità
indigena chiede da tempo il reinserimento dell’originario sistema di divisione
delle terre, restituendole alla cura dei clan familiari, la nomina di un
regnante affiancato dal consiglio dei capiclan, e di reintrodurre l’antica
pratica collettiva di dedicarsi alle opere pubbliche. La base di questa società
sarebbe quindi costituita dalle relazioni di forte legame affettivo e di mutua
assistenza proprie dei clan familiari e dell’unità rappresentata dalla religione
sincretica cristiano-animistica, nella quale il rispetto del legame con gli
antenati esercita un forte aggregante sociale.
Malgrado questi eccellenti propositi è innegabile che
l’imponente presenza di turisti durante l’anno, in massima parte appartenenti a
culture europee o americane standardizzate nell’attuale forma dettata dal
gruppo dei poteri al vertice del “blocco occidentale”, costituenti il suo
“sistema dominante” è divenuta una potente fonte di un paradigma
destabilizzante a causa dell’attrazione che quegli stili di vita consumistici
esercitano sui giovani nativi. Si tratta di influenze dalle conseguenze
corruttive sulla tenuta dei clan familiari e delle quotidiane pratiche
espressione di profonda spiritualità, sulle quali fondano la propria
sopravvivenza le culture polinesiane.
Si vedano ad esempio gli effetti della diffusione della
dipendenza da droghe e alcolici sull’integrità psicofisica individuale e le
attività comunitarie, mentre le ricchezze derivate dalle attività commerciali
turistiche, hanno determinato l’insorgenza di classi sociali di potere non più
necessariamente legate alle qualità maggiormente apprezzate dalla cultura
tradizionale polinesiana, o persino in contrasto con i suoi valori.
È una delle modalità messe a punto per tentare di
giungere al Nuovo Ordine Mondiale egemonizzato dal modello culturale
anglosassone in salsa americana. Sembra quindi trattarsi di una manipolazione
costituente la finalità primaria dell’intento globalista, operata affinché il
turismo di massa potesse divenire il principale mezzo occidentale per esportare
la sua ideologia liberista, quello stile di vita consumistico fonte di
devastazione in aree dove ancora regnava la cultura tradizionale, sabotandone
l’armonia con l’ecosistema che le ospitava.
Overtourism: come creare l’ecosistema insostenibile
L’attuale sovrappopolamento umano dell’Isola costituisce
un ben definibile pericolo con effetti devastanti, insostenibili, in caso di
totale isolamento a iniziare dalle necessità alimentari. Seguono la grave
realtà degli effetti del depauperamento delle risorse marine; le problematiche
legate allo smaltimento dei rifiuti prodotti quotidianamente; l’inquinamento
oceanico da materie plastiche con grandi quantità di particelle microplastiche
in continua deposizione non soltanto nella fascia costiera isolana, ma anche
sui rilievi per effetto dei venti e delle piogge; l’innalzamento del livello
marino nel corso dei prossimi decenni e l’erosione delle coste a esso
collegato; l’aggravarsi di fenomenologie atmosferiche estreme; la pericolosità
e la durata delle future pandemie e l’evoluzione di quelle attuali, quali
il dengue emorragico nella sua variante polinesiana.
Ognuna di queste problematiche rappresenta un pericolo
costantemente pendente sulla tenuta del progetto di economia sostenibile,
recentemente avviato dal governo cileno e fortemente voluto dalla comunità
locale e da quella scientifica internazionale, per frenare i danni arrecati
dallo sfruttamento di massa delle attrazioni naturali e culturali dell’Isola.
Tuttavia, come si può dedurre da quanto sopra esposto, la maggior parte dei
problemi hanno cause non imputabili a fattori locali e quindi incontrollabili se
non si effettueranno drastici cambiamenti, possibili solo se operati da
decisioni attuate a livello politico internazionale. Una mera speranza, lontana
e poco credibile, oggi ritenuta di difficile attuazione per motivi politici e
economici.
A tutti questi problemi in un lontano futuro potrebbero
affiancarsi ulteriori emergenze quali un’incontrollata crescita demografica,
gravi crisi energetiche, destabilizzazione e sostituzione del sistema
governativo dell’Isola, disordini razziali, trasferimento costrittivo di parte
della popolazione, trasformazione dell’isola in un’area estrattiva mineraria a
cielo aperto, desertificazione.
Oggi il turismo costituisce il perno delle attività
trainanti dell’economia locale, al punto da creare gravi problemi ambientali
per sostenerlo, quali l’incremento delle attività di pesca d’alto mare e
costiera, e l’impossibilità di smaltire localmente l’enorme massa di rifiuti,
generata annualmente dall’uso di materiali importati nell’Isola per le
necessità dei turisti e consumati per le loro necessità.
Circa venti anni orsono, lo sfruttamento della fauna
ittica operato dalla pesca d’alto mare da flotte di grandi navi specializzate,
appartenenti a grandi compagnie multinazionali, causò un drammatico decremento
della pesca al tonno, che tradizionalmente costituiva una delle principali
risorse alimentari della popolazione isolana. I pescatori locali furono
costretti a ricorrere all’intensificazione della pesca lungo la fascia
costiera, con la conseguente depauperazione della sua fauna marina.
A questa distruzione dell’ecosistema si è cercato di
porre un argine con l’emissione di nuove leggi protettive e l’istituzione di
parchi marini. Gli interventi sono tardivi considerate le condizioni di
depauperamento dell’Oceano Pacifico, che sino agli anni 1970 si era preservato
ricchissimo di vita, giunte ormai da tempo a livelli allarmanti. A peggiorare
la situazione è intervenuto anche il massiccio inquinamento dell’intera fascia
costiera dell’Isola dovuta, tra l’altro, alle crescenti problematiche associate
all’enorme presenza nell’Oceano Pacifico di rifiuti derivati da materie
plastiche. Quest’ultima costituisce un’insorgenza con previsioni peggiorative
altamente allarmanti, essendo in forte ascesa la produzione mondiale di rifiuti
non smaltibili e fortemente dannosi alle condizioni di vita sul pianeta. Le
quantità di questi rifiuti dispersi in tutti i mari, hanno conseguenze
devastanti anche per l’intera catena alimentare del pianeta, persino in
località remote quali Rapa Nui (17).
Di pari passo all’esplosione del fenomeno turistico, si è
verificata la comparsa di fenomenologie che avrebbero dovuto essere affrontate
prima di permettere l’arrivo delle orde di visitatori generate dal consumismo
globalizzante: 1) la presa di coscienza dei propri diritti da parte della
popolazione di lontane origini autoctone, anche in senso sovranista e quindi
fortemente protettivo della propria cultura e della propria religione. In
particolare, bisognava comprendere la magnitudine di quanto quest’ultima sia
inscindibile dal rispetto per i monumenti, gli insediamenti, e nel loro
complesso tutti i luoghi sacri che legano animisticamente la popolazione con i
propri antenati, considerati protettori dell’armonico svolgimento della vita
nell’ambiente naturale isolano; 2) la sproporzionata presenza di visitatori
nell’isola ha condotto alla produzione di imponenti quantità di rifiuti, per il
cui smaltimento vi sono costi altissimi in termini di trasporto in Cile o in
Perù per il loro smaltimento; 3) l’enorme inquinamento delle coste e della
diffusione di polveri microplastiche dovuto a problematiche non dipendenti
dalle attività locali; 4) la necessità di potenziare il servizio ospedaliero,
adeguandolo alle necessità dovute alla coesistenza in aree limitate dell’isola
di migliaia di individui alloctoni, provenienti da varie aree del mondo e in
continua sostituzione con nuovi arrivi.
Attualmente, la popolazione residente viene costantemente
e massivamente esposta alle patologie importate dai viaggiatori dai loro Paesi
di origine, alcune delle quali si presume possano essere gravi e trasmissibili,
potenzialmente in grado di determinare il verificarsi di emergenze di casi di
batteri resistenti alle cure o di forme virali pandemiche ad alto impatto
letale.
L’economia locale si basa sul turismo di massa, mentre
alle forme tradizionali di sussistenza, tipicamente polinesiane, è riservata
scarsa importanza fattiva. Cosa accadrebbe degli isolani nel caso, piuttosto
probabile, che nei prossimi anni il pianeta fosse scosso da una nuova pandemia,
ben più aggressiva di quella vissuta al tempo del COVID? Come potrebbero
tentare di sopravvivere in mancanza di un’autosufficienza alimentare e di una
forte coesione sociale, tra l’altro in grado di fare emergere vecchi rancori e
trasformarsi in un ordigno a orologeria, costituito dalle diverse componenti
razziali e culturali?
In questa ottica, nel 2018 si è mosso un intervento
governativo, al fine di limitare a trenta giorni la durata del permesso di
soggiorno (che prima concedeva un massimo di 90 giorni) adducendo ragioni
sociali e ambientali, e per meglio preservare il patrimonio monumentale.
Tuttavia, tale soluzione sembra non solo meramente capziosa, ma
controproducente rispetto agli intenti, in quanto lo spazio creato per i nuovi
arrivi moltiplica le possibilità di importare malattie, soprattutto quelle
inerenti alla diffusione di infezioni epidemiche generate da microrganismi
resistenti o totalmente refrattari alle cure antibiotiche.
Eppure, ciò sembra ben chiaro alle Istituzioni
governative cilene, che difatti nel caso della pandemia COVID, imposero
preventivamente la chiusura dell’Isola ai turisti e limitarono fortemente il
traffico aereo civile dal 17 marzo 2020 al 4 agosto 2022, cercando così di
prevenire conseguenze catastrofiche per la popolazione isolana.
Secondo dati del 2014, nell’Isola si producono in media
20 tonnellate di rifiuti al giorno, ovvero 7.300 tonnellate all’anno, tra le
quali sono presenti ben 440.000 bottiglie di plastica. La realizzazione di una
adeguata centrale di smaltimento termico dei rifiuti nell’isola deve fare i
conti con la realtà dei fatti. Solo una piccola parte è smaltibile o
riciclabile, il resto è da destinare a un’area di stoccaggio a tempo
indefinito. E questo rappresenta una notevole problematica in termini di
inquinamento dell’ambiente e di occupazione di ampie aree di stoccaggio
nell’isola, tra l’altro destinate a un costante allargamento. Difatti, si pensi
alle conseguenze se improvvisamente mancasse la possibilità di continuare a
inviare periodicamente questi particolari rifiuti tossici agli altoforni cileni
e a stabilimenti industriali peruviani specializzati nel loro trattamento in
tutta sicurezza. Per ragioni sanitarie e ambientali, il trattamento non è
effettuabile in una piccola isola sovrappopolata turisticamente e sede di un
parco naturale.
Il problema dei rifiuti potrebbe compromettere anche le
condizioni di sviluppo del rimboschimento, essendovi una relazione tra lo
smaltimento effettuato tramite combustione e la polluzione ambientale che, in
particolari condizioni atmosferiche, riguarda anche l’attività di formazione di
nubi con potenziale tossico e non ultima la compromissione delle falde
acquifere che in massima parte finiscono in mare, interagendo quindi con
l’ecosistema costiero. Anche se fossero delle piccole quantità, è la continuità
della loro produzione, diffusione e deposizione che costituirebbe un pericolo
per l’ecosistema e non ultime le attività di sussistenza a esso legate e i
conseguenti danni alla salute della popolazione.
Mass media e manipolazione globalista: il “Rogo di
Rapa Nui” dell’ottobre 2022
Per curiosa coincidenza, conclusa la parentesi epidemica
2020-2022, circa due mesi dopo la riapertura dell’isola ai turisti il tamburo
della stampa internazionale attirò l’attenzione delle masse mondiali,
riportando con una escalation di notizie allarmanti. Un gigantesco incendio si
è sviluppato minacciando il villaggio di Hanga Roa, il parco nazionale
e centinaia di moai, le famose antiche statue
megalitiche (18). Le modalità nelle quali sono state create e
diffuse queste narrazioni, per poi dissolversi in un prevedibile lieto fine,
mostra alcuni aspetti che, quantomeno da un punto di vista giornalistico,
avrebbero dovuto essere opportunamente focalizzati aggiungendo una buona dose
di autocritica.
Riassumo questa vicenda in quanto sembra trattarsi di un
tipico Deep Event (19), in questo caso un evento che non credo
stupirebbe qualcuno se risultasse pianificato in un qualche ufficio. Quel che
possiamo constatare dall’opera dei media, esso è certamente manipolato con
gonfiature, scelte e occultamenti di verità, in modo da attirare l’attenzione
pubblica su un argomento. Vi possiamo constatare come sia possibile
confezionare una notizia in modo che la narrazione riesca ad appassionare
l’opinione pubblica mondiale, e possa essere anche utile per accompagnare o
distogliere l’attenzione da altre notizie. Ma la finalità primaria è di
favorire effetti a cascata di natura economica in una data area d’interesse
geopolitico.
In primo luogo, anche se non fu provato, le dinamiche
dell’incendio indussero il sindaco di Hanga Roa a dichiarare, due mesi dopo,
ovvero agli inizi di dicembre 2022, non soltanto che si fosse trattato di
incendio doloso, ma che in quanto tale è un fenomeno consueto, specificando
testualmente “come tutti quelli che si sono precedentemente sviluppati
nell’isola”. È interessante notare che la dichiarazione fu subito
solo parzialmente ripresa dai media internazionali, tacendo il vero fatto
allarmante che gli incendi e in generale gli eventi dolosi sono comuni
nell’Isola (20).
Dopodiché, in pochi giorni assistiamo all’ingrasso della
notizia su altri giornali, trasformata sino a spingersi a titolarla inserendo
l’inquietante termine “attack”, ovvero paventando un vero e proprio
attentato al patrimonio ambientale e culturale isolano. Viene inoltre
dichiarato che “circa quattrocento moai”, ovvero statue litiche
monumentali, cioè poco più di un terzo di quelle presenti sull’intera isola
sarebbero state interessate dall’incendio. Senza specificare
che cosa s’intenda con questo termine, dato che quelli da pulire dagli
annerimenti sono un’ottantina e soltanto uno ha subito danni irreparabili della
sua superficie. Anche in questo caso la reale entità del problema viene
lasciata vaga. Quali sono realmente stati i danni all’ambiente e ai beni
monumentali? Quali sono le possibilità di una completa pulitura dell’area e di
restauro? Riparare e restaurare sono due tipi di intervento ben distinti con
costi e tempi notevolmente diversi.
L’interesse manipolatorio dei media occidentali,
orchestrato su scala internazionale, appare quello di evidenziare l’importanza
del patrimonio naturale e culturale isolano, ricordandolo alle masse, sfrondato
di ogni problematica derivata dal globalismo rampante, e soprattutto suscitando
nell’opinione pubblica un forte desiderio di raggiungere e godersi Rapa Nui,
isola paradisiaca, prima che scompaia. E di legittimare provvedimenti
governativi per il potenziamento della piramide burocratica di controllo dell’isola.
Nonostante il grande intervento mediatico nazionale e
internazionale che paventa un rogo di dimensioni imponenti, è bene ricondurre
l’allarme nei suoi termini reali, non essendo stata interessata gran parte
dell’Isola, ma un’area di circa 100 ettari dei 7.150 costituenti il Parco
Nazionale Rapa Nui, che occupa circa il 44% dell’intero territorio isolano.
Inizialmente i media riportarono di un incendio
divampato, per motivi non noti, in un allevamento di bovini sito nei pressi del
confine con il parco nazionale, a nordovest del Rano Raraku. Da qui, a causa
del vento, si sarebbe esteso in direzione sud-est circondando l’area
settentrionale dell’antico vulcano. Secondo le cronache locali la propagazione
del fuoco all’interno del cratere sarebbe stata scongiurata grazie all’opera di
vigili del fuoco e volontari locali, questi ultimi muniti solo di vanghe, bastoni
e pietre. Delle centinaia lambite dalle fiamme, solo una statua avrebbe subito
danni irreparabili.
Tuttavia, sei mesi dopo, il 20 marzo del 2023, un
articolo comparso sul sito ufficiale dell’Unesco rivela (senza citare la fonte
governativa cilena), che si tratta non di uno, ma di “una serie di incendi”,
tutti avvenuti nel mese di ottobre 2022 (21). Questa circostanza,
se confermata, sembrerebbe eliminare la casualità dell’evento.
Se si tratti realmente di un incendio doloso, ovvero
deliberatamente appiccato in più luoghi per aggravarne il bilancio, ad oggi
resta ancora un quesito insoluto. Non si ha notizia dell’esistenza di eventuali
sospettati, né delle motivazioni alla base del gesto, nella fattispecie se le
cause siano da ricercare in dispute locali o nell’ambito di attività collegata
a un intervento di livello criminale più alto, con mandanti e interessi esterni
alla comunità rapanui. È quindi presumibile che le indagini siano ancora
in corso, e che per la loro complessità possano nella migliore delle ipotesi
richiedere alcuni anni (22).
Bisogna invece interrogarsi su come sia stato possibile
che un incendio originato in un allevamento possa essersi esteso a un parco
naturale di rilevanza internazionale e posto sotto la protezione dell’UNESCO.
Da un rapporto pubblicato dall’Organizzazione delle Nazioni Unite apprendiamo
dell’esistenza di un problema di occupazione illecita di terreni e che lo
sconfinamento di bestiame nel parco naturale è un fatto ricorrente (23).
Ai cronisti sarebbe stato utile visitare personalmente
l’area colpita dall’incendio, per constatare se al confine del parco fossero
state realizzate le cosiddette fasce spartifuoco, quale ad esempio terreni a
pascolo raso, tali da costituire un impedimento alla propagazione
dell’incendio. Inoltre, una visita agli uffici pubblici di competenza di Hanga
Roa, per prendere eventualmente visione del piano d’intervento antincendio del
quale presumo l’isola fosse in quell’anno già dotata, conoscere il livello di addestramento
della popolazione in previsione di calamità naturali, delle squadre di
volontari da impiegare in questi casi per l’assistenza ai turisti e per
affiancare il lavoro dei pompieri. Ma lasciamo parlare i dati forniti agli
inizi di maggio del 2021, prima del verificarsi degli incendi, dallo stesso
corpo dei vigili del fuoco.
Scopriamo così che nell’ultimo decennio nell’isola si
sono annualmente in media verificati circa 90 incendi forestali, 10 incendi
strutturali, 20 interventi associati a veicoli motorizzati, 40 associati a
persone, 20 ad animali, 10 interventi verticali o con corde, 10 fughe di gas.
Altro che idilliaca, pacifica isola polinesiana in gran parte disabitata: in
media circa un incendio da domare alla settimana, oltre agli interventi
quotidiani più o meno definibili di routine.
La caserma dei “bomberos” è dotata di 6 pompieri
professionisti e 40 volontari addestrati, e una disponibilità di quattro carri
d’intervento, dei quali uno con trazione 4x4 di ultima generazione per
raggiungere aree di difficile accesso e munito di una pompa con getto da 3000 litri
di acqua al minuto. Una meraviglia della tecnologia, dal costo di oltre 270.000
dollari statunitensi, giunta nell’Isola nel maggio del 2021 (24).
Se il sistema di pronto intervento, stando a quanto
dichiarato ai media dalle Autorità, è quindi validamente operativo, ed essendo
impossibile che oltre 5 dei 100 incendi all’anno (5%) possa essersi originato
per autocombustione, cos’è che li determina? Turisti sbadati, attività illegali
di cottura degli alimenti, incendi dolosi (e qui ci si perde in una vasta gamma
di motivazioni le più diverse, dagli interessi privati alle finalità
politiche). Il problema è quindi socio-culturale e va risolto a livello di clan
familiare, di maggiore controllo delle masse di turisti fermo restando la
necessità di una forte riduzione del loro quantitativo quotidiano e di dotare
tutta l’isola di un adeguato numero di vigilantes ben
addestrati.
Il turismo non è tornato alle cifre del boom economico
del 2018, quando l’isola venne presa d’assalto da oltre 100.000 visitatori che
vi risiedettero per un minimo di una settimana a testa, determinando un giro di
affari di oltre 70 milioni di dollari. Tuttavia, il faro del circo mediatico
puntato per circa due mesi su quest’isola a seguito dell’incendio, ha permesso
una buona ripresa delle sua economia basata sulle molteplici attività
lavorative legate al turismo di massa. Una coincidenza che ha contribuito a
mantenere attivo un introito annuale d’importanza vitale, ammontando in
vent’anni a circa 1 miliardo di dollari. Niente male per una remota isoletta
del mezzo dell’Oceano Pacifico.
Il tenore di vita socioeconomico di matrice Occidentale dei nativi di Rapa Nui è
cresciuto notevolmente in questi ultimi decenni, grazie alle possibilità
offerte dal turismo e dal costante lavoro svolto - anche con l’importante
sostegno di organizzazioni ambientaliste internazionali – dagli Enti locali
quali la Ma’u Henua Indigenous Community. A questa è tra l’altro
assegnata la gestione amministrativa del Parque Nacional de Rapa Nui, che
occupa circa un terzo dell’isola.
Il salvataggio del patrimonio monumentale quale rottura
degli antichi equilibri magico-religiosi
La Rapa Nui che ho avuto il piacere di contribuire alla
sua esplorazione scientifica oltre trent’anni fa, è lentamente scomparsa ormai
da oltre un quarto di secolo. È doloroso prenderne atto, e questo
vale per tutti gli altri luoghi del pianeta a quel tempo ancora intatti e che
oggi versano in condizioni allarmanti, tra sfruttamento dissennato delle
risorse economiche, sovrappopolamento e inquinamento. Sono le conseguenze
dell’ultima follia ideologica del liberismo, il consumismo globalista, che
spacciato quale fonte di benessere e progresso culturale planetario, ormai
procede in un’espansione esponenziale e insostenibile con tutta probabilità già
oltre il punto di non ritorno.
Come se non bastasse, anche su Rapa Nui pendono i
problemi generati dall’innalzamento del livello marino, imputato al
surriscaldamento globale e alla conseguente fusione dei ghiacci polari. Entro
il corrente secolo parte della costa marina sarà soggetta a erosione
determinando, se non s’interverrà per tempo, la rovinosa caduta e
sommersione delle statue (moai) e dei loro basamenti sacri megalitici,
dei quali l’isola è disseminata lungo tutto il suo perimetro costiero (25). Esiste
la reale possibilità che entro il prossimo secolo, il previsto peggioramento
delle attuali condizioni climatiche riduca drasticamente la superficie di Rapa
Nui sino a renderla un isolotto roccioso inabitabile.
Questo processo di distruzione è già attuale nel caso di
alcune aree monumentali, aggravato dall’effetto delle mareggiate, e altre lo
saranno probabilmente entro i prossimi decenni. Occorre sin da oggi decidere se
spostarle a maggiori altitudini, trasportarne una parte in Musei siti in altri
Continenti, o lasciarle al loro destino per essere inghiottite dagli abissi
oceanici. In ogni caso, si tratta di operazioni che necessitano di notevoli
finanziamenti, particolari mezzi meccanici, manodopera specializzata, e alcuni
decenni di lavoro.
È forse il più drammatico degli interventi da
operare a breve termine nell’isola, in quanto il problema colpisce la
popolazione nel suo forte legame magico-religioso animista con gli
antenati.
Si tratta di una forma di animismo diffuso in tutta
l’Oceania, caratterizzata da uno stretto rapporto con la natura e le sue forze,
il culto degli spiriti e del pantheon delle divinità. Non riuscendo a imporre
la religione cristiana ai nativi, i missionari riuscirono a convincerli sia con
la protezione contro le violenze degli stranieri, accettando di sostituire i
luoghi di culto animistico con le chiese, le tipicità degli spiriti in quelle
dei santi anche nelle cerimonie religiose. Tuttavia, in tutta la Polinesia,
l’opera dei missionari non è riuscita a cancellare la presenza dell’animismo,
determinando un ibrido (sincretismo) religioso ben evidente, ad esempio, nel
corso delle celebrazioni festive con danze e musiche, e nel forte legame
spirituale con la natura (26).
Nel caso si decidesse di spostare i monumenti in altra
sede, bisognerebbe tenere presente il diritto, esercitabile da parte
della popolazione rapanui che ha recuperato l’atavica fede animista, di
richiedere alle autorità governative l’attivazione delle procedure cerimoniali
magico-religiose. I monumenti furono eretti con particolari rituali
cerimoniali, e la rottura e nuova apposizione in altra sede dei loro “sigilli”
magici devono essere effettuati dai sacerdoti animisti, in modo da non alterare
gravemente le volontà e l’armonia evocate e indotte in quei luoghi.
Non è una problematica da sottovalutare, in quanto
coinvolge le credenze religiose e il forte legame spirituale della popolazione
con l’isola.
Note
1) Lévi-Strauss
C., 1975, Tristi Tropici, Il Saggiatore ed. (traduzione di Bianca
Garufi), Milano, pp. 441. La prima edizione venne pubblicata nel 1955.
2) ne
ho ampiamente scritto in articoli pubblicati su diversi siti on-line, e dal
2020 tutti consultabili nel presente blog. In particolare rimando all’articolo
del 27 luglio 2018 “Strutture operative transnazionali e il network
sopranazionale Deep States. Un criminologo sull’Arca di Noah” https://www.thereporterscorner.com/2020/06/strutture-operative-transnazionali-e-il.html e
nei sette articoli della serie “La Tecnocrazia e il Sistema di Potere
in Sicilia”, Parti I-VII, pubblicati dal 2018 al 2023.
3) rimando
alle indicazioni in nota 2. Per quanto concerne il fenomeno delle autorità
statali autoreferenziali, leggasi quanto espresso
nell’articolo pubblicato su questo blog il 12 agosto 2022 “La
Tecnocrazia e il Sistema di Potere in Sicilia. Parte V: il Feestschrift, il
cerchio magico, e la costruzione del mito dell’Intellighenzia tecnocratica”) https://www.thereporterscorner.com/2022/08/la-tecnocrazia-e-il-sistema-di-potere.html
4) 27
luglio 2018 “Strutture operative transnazionali…” op. cit. in
nota 2, anche per le note bibliografiche pertinenti quanto concerne
la descrizione della Commissione Europea fornita nel 2017 da Basil Coronakis
nella sua monografia The Deep State of Europe: Requiem for a Dream:
“the most sophisticated and corrupt administrative machine in the world…
devoted of any political legitimacy”.
5) scomparso
nel corso del diciannovesimo secolo per l’avvento dell’ideologia unitaria
nazionale prettamente massonica, e degli interessi geopolitici delle grandi
potenze dell’Europa Occidentale di quel tempo, che infine nel ventesimo secolo
condussero all’instaurazione della Repubblica Italiana e alla costruzione delle
basi militari statunitensi nell’isola.
6) All’insostenibilità
della presenza di grandi flussi turistici, noto con il termine tecnico overtourism,
al sovrappopolamento di piccole isole, e ai problemi socio culturali a questi
legati, negli ultimi anni sono stati dedicati molti interessanti lavori. Segnalo
in particolare:
Ahmad
F., Draz M.U., Su L., 2018, Taking the bad with the Good: The Nexus between
Tourism and Environmental Degradation in the Lower-Middle Income Southeast
Asian Economies, Journal of Cleaner Production, doi:
10.1016/J.Jclepro.2019.06.138
Angel
P., Bergamini K., 2020, Sociocultural-Carrying Capacity: Impact of Population
Growth in Rapa Nui, in G. Cirella (a cura di) Sustainable Human -
Nature Relations. Advances in 21st Century Human Settlements, Springer ed.,
Singapore, pp. 23-47
Cinnaghi
E., Mondini G., Valle M. (a cura di), 2017, La capacità di carico turistica.
Uno strumento per la gestione del patrimonio culturale, Quaderni della
valorizzazione. Nuova serie 5, Direzione Generale dei Musei , Roma, pp. 130
Cristino
C., Recasens A., Vargas P., 1984, Isla de Pascua: Proceso, Alcances y
Efectos de la Aculturación, Facultad de Arquitectura y Urbanismo,
Universitad de Chile: https://www.academia.edu/19391005/Isla_de_pascua_proceso_alcances_y_efectos_de_la_aculturacion_pdf_2159_kb_1_
Lima
M., Gayo E.M., 2020, Ecology of the Collapse of Rapa Nui society,
Royal Society Publishing, 287, pp. 1-10
Palombi
M., 2020, Il fenomeno dell’overtourism nelle realtà insulari: il caso
studio dell’Isola di Pasqua, Università Ca’ Foscari, Venezia, Tesi di
laurea, pp. 136
Telfer
D.J., Sharpley R., 2016, Tourism and Development in the Developing World,
Routhledge, 2nd ed., London and New York, pp. 462
7) a
quel tempo chiamato semplicemente Grande Mare. Il termine Polinesia fu invece
coniato circa un quarto di secolo dopo, nel 1756, dal francese Charles de
Brosses per indicare tutte le Isole del Grande mare, comprendenti anche quelle
della Malesia. Nel 1832 il termine fu ristretto alle isole presenti nella
attuale circoscrizione geografica del Triangolo Polinesiano, con ai vertici le
Hawaii, la Nuova Zelanda e l’Isola di Pasqua.
8) Gelder v. R., 2012, Naar
het paradijs, het rusteloze leven van Jacob Roggeveen, ontdekker van Paaseiland
(1659-1729), Uitgeverij Balans, pp. 336
9) Gelder
v. R., 2012, Naar het paradijs, op. cit.; Heyerdhal
T., 1958, Aku-Aku: The Secret of Eastern Island, Rand Mc Nally
& Co., Chicago, pp. 384
10) di
questa terra ne fa riferimento una carta compilata nel 1513 dall’Ammiraglio
turco Piri Reis, scoperta nel 1929 nella biblioteca del Topkapi, il Palazzo del
Sultano a Istanbul.
11) Di
grande importanza furono gli sforzi di studiosi Europei e Americani, tra i
quali il Bavarese Anton Franz Englert, al secolo Sebastian, un missionario
poliglotta cattolico che dal 1935 al 1968 dedicò parte della sua vita trascorsa
nell’Isola al recupero della memoria del passato, intuendo quanto da questo
dipendeva la resilienza etnica e il rifiorire culturale di quella martoriata
popolazione.
Mulloy
W.T., 1969, Sebastian Englert 1888-1969, in American Anthropologist 71:
1109-1111
Englert
S., 2004, La tierra de Hotu Matu’a. Historia y etnologia de la Isla de Pascua:
gramática y dicionario del antiguo idioma de Isla de Pascua, 9a ed., Editorial
Universitaria, Santiago de Chile, pp. 361
12) Villari P., 8 aprile 1993, I giganti
dell’Isola di Pasqua, in La Sicilia, p. 32 (pagina intera con
diversi miei articoli dedicati all’argomento);
Villari P., 1997,
Saggio di scavo nell’area di un “hare moa” sito in località Puna Marengo
(Isla de Pasqua, Chile), Ultramarina Occasional Papers, Ortiz
Troncoso R. ed., Number 3 (November 1997), pag. 1-12, Amsterdam;
Villari P., 20
dicembre 2000, Eindpunt, Tokerau e la vecchietta, in Grifone,
organo bimestrale dell’Ente Fauna Siciliana, anno IX, n. 6 (fasc.48), pp.6-7.
Villari
P., 7 aprile 2023, Isola di Pasqua (Cile), 1991. Testimonianza di fenomenologia
N.O.E. (not ordinary experiences) vissuta nel corso degli scavi archeologici
condotti a Puna Marengo. The Reporter’s Corner https://www.thereporterscorner.com/2023/04/isola-di-pasqua-cile-1991-testimonianza.html
Villari
P., 2 maggio 2023, Toroko,
1991. Un ricordo della prima discoteca dell’Isola di Pasqua (Rapa Nui,
Polinesia Cilena). The Reporter’s Corner. https://www.thereporterscorner.com/2023/05/toroko-1991-un-ricordo-della-prima.html
13) l’antica
Ceylon sede di importanti luoghi sacri e centri monasteriali del culto
buddista.
14) condotti
con armi di distruzione di massa a target biologico selettivo, che non
coinvolgono le infrastrutture e causano danni molto limitati all’ecosistema.
15) ai
tempi del mio soggiorno, nel 1991, le uniche due attività del genere
utilizzavano esclusivamente il pescato locale, non compromesso da inquinamento
e prelevato in quantità irrisorie rispetto a quanto avviene negli ultimi
vent’anni. In tal modo la sostenibilità dell’ecosistema costiero isolano era
ancora attiva.
16) in
htttps://www.surf-forecast.com
17) ricerche
condotte dall’Istituto di Ecologia dell’Università Católica del Norte, UCN,
Cile. I ricercatori hanno appurato che la massa di spazzatura plastica
spiaggiata sulle coste di Rapa Nui proviene in prevalenza dall’Australia, Nuova
Zelanda, Cile, Peru, Ecuador, ma che a questi si sommano anche provenienze da
altre aree del pianeta. Si legga ad esempio l’articolo pubblicato online il 19
dicembre 1919: https://www.noticias.ucn.cl/especies-invasoras-utilizan-basura-plastica-para-llegar-a-las-costas-de-rapa-nui/
Un
rapporto dell’ONU riferisce di una massa galleggiante di spazzatura presente al
largo della costa cilena, in gran parte costituita da detriti plastici che
aveva raggiunto una superficie ampia tre volte quella del Cile e destinata ad
accrescere annualmente. Le ricerche suggeriscono che al ritmo attuale, nel 2050
vi saranno più rifiuti plastici che pesci in tutti gli oceani del pianeta. Per
quanto concerne la situazione cilena e quella di Rapa Nui:
https://www.mondonuevo.cl/isla-de-basura-frente-a-chile-ya-es-tre-veces-el-tamano-del-pais/
https://moevarna.com/en/plastic-contaminates-the-coast-of-rapa-nui
Si
leggano inoltre i risultati eclatanti delle ricerche delle missioni
scientifiche svolte dal 2015 nella remota Isola di Henderson, un atollo
facente parte del Gruppo delle Isole Pitcairn il cui ecosistema rimase
incontaminato sino al 1985. Le sue spiagge coralline sono state letteralmente
ricoperte da una quantità di frammenti plastici di concentrazione tra le più
alte dell’intero pianeta. Fatto ancor più inquietante, la quantità riscontrata
è raddoppiata nei sette anni intercorsi tra le misurazioni svolte dalle due
missioni scientifiche. Le conseguenze sulla salute della fauna marina e sugli
uccelli ad essa legata per uso alimentare sono ancora in corso di studio in
laboratorio, ma essendo già state pubblicate le osservazioni preliminari,
risultano chiare a quali tragiche conseguenze l’ecosistema mondiale andrà
incontro nei prossimi decenni, essendo gran parte delle materie plastiche non
smaltibili.
La
scorsa estate l’intera spiaggia di quell’atollo, ormai considerato l’ex ultimo
paradiso dei Mari del Sud, dichiarato patrimonio dell’UNESCO World Heritage sin
dal 1988, è ricoperto da una massa stimabile a circa 70 miliardi di frammenti
plastici, associata a una quantità di esemplari faunistici deceduti a causa
della loro presenza, ed essi stessi fonte di morte delle specie che di essi si
nutrono. Quella visione è l’anteprima di quanto accadrà, tra non molti decenni,
alle spiagge e ai mari dell’intero pianeta se non si troveranno delle soluzioni
a livello internazionale.
Lavers
J.L., Bond A., 2017, Exceptional and rapid accumulation of anthropogenic debris
on one of the world’s most remote and pristine islands, in Proceedings
of the National Academy of Sciences, Edited by Karl D.M., University of
Hawaii, Honolulu. https://www.pnas.org/doi/10.1073/pnas.1619818114
18) leggasi
ad esempio https://apnews.com/article/rapa-nui-easter-island-fire-e27ed4f03fa67e2ftdae10341efdc151
19) per
la nozione di Deep Event rinvio a: 27 luglio 2018 “Strutture
operative transnazionali…” op. cit. in nota 2
20) dal
quotidiano The Guardian, 7 october 2022, Easter Island fire causes
“irreparable” damage to famous moai statues; e dal sito
statunitense online https://apnews.com/article/rapa-nui-easter-island-fire-e27ed4f03fa67e2f7dae10341efdc151
22) da
un punto di vista criminologico la vicenda potrebbe rivelare un seguito
interessante. Difatti, nel caso l’incendio doloso sia il frutto di
un’operazione ideata e condotta da specialisti, quale un blitz accompagnato
da una serie di diversivi, le possibilità di risalire ai mandanti saranno
pressoché nulle. Si potrebbe quindi giungere alla classica situazione in cui
per necessità politiche si renda necessario di circoscrivere localmente il
problema insabbiandolo, e se questo non fosse possibile, banalizzarlo.
Qui si entra nel campo delle tecniche di manipolazione di massa, creando quanto
serve per l’incriminazione di un singolo o di un piccolo gruppo della minoranza
razziale, di personaggi caratterialmente borderline, o comunque
invisi al potere dominante locale e nazionale. Il pasto servito alle belve del
circo mediatico, che diverte e tranquillizza il pubblico, e elimina la
fastidiosa presenza di oppositori.
23) https://whc.unesco.org/en/list/715 Riporto i seguenti brani: "An
increase has been observed in cattle that wander illegally inside the Park
limits”… “Additional staff and resources are needed for the
administration and care of the site, to reinforce the number and training of
the park rangers team, and to increase the operating budget. There is constant
pressure on park lands; the State must prevent its illegal occupation”).
24) Paula
Rossetti, 4 maggio 2021, Nuevo carro forestal para los bomberos di Rapa
Nui. https://www.elcorreodelmoai.com/?p=2697 L’autrice,
di origini italiane, è l’editrice de El Correo del Moai, periodico
indipendente fondato nell’isola nel 2009).
25) Casey
N, Haner J., in https://nytimes.com/interactive/2018/03/14/climate/easter-island-erosion.html
26) Anche
il concetto di nucleo familiare è rimasto più ampio rispetto a
quello delle popolazioni cristiane Europee e Nordamericane. Oltre alla coppia
di sposi e ai loro figli, ne fanno parte anche nonni, zii, cugini e “parenti
adottati”.