di Pietro Villari, 29 Agosto 2023. Tutti i diritti riservati.
Il capitolo "Peru, por hablar
con gusto" inserito nel presente articolo mi venne pubblicato nel 1991
dal quotidiano “La Sicilia” (1).
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Nel 1989, mi era ormai chiaro che in Sicilia, come in gran parte d’Italia,
nessun professionista operante in collaborazione o all’interno di istituzioni
statali avrebbe mai avuto la possibilità di sfuggire al compito di divenire
connivente di quotidiane azioni illegali, non di rado grottesche o persino
surreali. L’insieme delle mie incompatibilità con quel regime giunse a un
livello di oppressione talmente dilagante anche nella sfera privata che, nel
maggio di quell’anno, dall’oggi al domani, decisi di acquistare un biglietto di
sola andata per il Perù. Ero divenuto un emigrante, costretto a cercare rifugio
e ristoro all’altro capo del pianeta, in quello che a quel tempo era
considerato un pericoloso “Terzo Mondo”.
Non avevo alcun conoscente non soltanto in Perù ma nell’intera America
Latina. Confidavo nel fatto che gli studi archeozoologici iniziavano a muovere
timidamente i primi passi e vi era sufficiente spazio per i pionieri. In teoria
vi erano quindi effettive possibilità di inserimento a livello scientifico
universitario. Lasciavo in Sicilia due figlie in tenera età, che amavo molto, e
un’inacidita consorte veneta, un’ereditiera ormai da anni radicalizzata nel
tipico ambiente borghese siculo, sino al punto di giungere a convivere in un
reciproco profondo disgusto. Stavo precipitando nel baratro dell’imposizione della
morte professionale e sociale, non trovando altra soluzione che quella
d’impormi a reagire.
Già il giorno dopo il mio arrivo a Lima, la capitale peruviana, mi recai in
visita all’Istituto Italiano di Cultura dove mi presentai al direttore, il
regista di teatro Dott. Renato Lipari che apprendendo la mia situazione (della
quale ebbe immediata e lusinghiera conferma telefonica non so da chi a Roma) mi
accolse con empatia, essendosi anche lui trovato in quelle condizioni decenni
addietro. Lipari mi suggerì di contattare a suo nome la giovane direttrice di
un noto museo di Lima, moglie di un esponente politico la cui famiglia aveva
avuto parte nell’elezione dell’allora giovane Presidente della Repubblica, il
socialista Alan Garcia (2). Appena uscito dall’Istituto presi un
taxi e mi recai incuriosito all’indirizzo fornitomi.
Quando giunsi nel museo volli dapprima visitarlo da solo per farmi un’idea
delle capacità museografiche del suo staff scientifico. Fu così che la notai
casualmente in una sala, per quella sua particolare bellezza del settentrione
orientale ispanico (3). Bionda, e dai modi alteri, ma al contempo
positiva e dinamica nell’affrontare la situazione nella quale in quel frangente
si trovava assieme a alcuni suoi giovani collaboratori, suscitò in me
un’istintiva simpatia. Aspettai in lontananza che finisse e quindi mi
avvicinai, congratulandomi in modo lievemente divertito dell’allestimento di
una vetrina espositiva.
Dopo esserci presentati senza che facessi ricorso a nominare il dott.
Lipari, m’invitò a prendere assieme un caffè nel giardino interno, dove mi
spiegò con chiarezza la gravissima situazione nella quale si trovava il Paese,
e di conseguenza anche il Museo. La nazione stava soffrendo in pericoloso
crescendo, costretta a trincerarsi in una economia autarchica determinata
dall’isolamento causato dal lobbismo delle multinazionali del sistema
Occidentale ma soprattutto, come prevedibile, dalla pericolosa avversione
statunitense, sia per motivi ideologici che strategico-militari. I grandi
capitali si erano già da tempo rifugiati in Svizzera o in Nord America, gli
investitori stranieri erano scomparsi e molte imprese private erano state
nazionalizzate.
Comprese che non nutrivo alcuna simpatia per il liberismo duro di stampo
anglosassone e mi chiese come mai fossi in Perù. Le accennai alle
difficoltà in Sicilia limitandomi ad alcune brevi frasi. Mi chiese se fossi
interessato a trasferirmi stabilmente a Lima, dove vi erano ancora alcune
fondazioni private a suo avviso potenzialmente interessate a finanziare i miei
studi archeozoologici. Potevo rendermi utile a vantaggio del progresso
scientifico della nazione, avendo un ottimo curriculum professionale ed essendo
già da alcuni anni membro accreditato dell’ICAZ (International Council for
Archeoarcheology).
A quel punto, accompagnandolo da uno splendido sorriso, mi confidò che
aveva apprezzato molto il fatto di essermi astenuto dal presentarmi a nome del
dott. Lipari, intellettuale che godeva di profonda stima in Perù anche per le
sue molteplici attività benefiche e che questi, prevedendo il mio pudore, le
aveva telefonato descrivendole la mia situazione ed elogiando le mie vicende
siciliane delle quali aveva ricevuto ulteriori notizie dall’Italia.
Nel frattempo, fece cenno di avvicinarsi a due personaggi appena giunti,
che si accomodarono al nostro tavolino. Chissà per quale motivo lo ricordo
bene, con quella tovaglia a quadretti bianchi e rossi in stile bavarese che
faceva tanto anni 1930. Una presenza bizarre, considerato il
contesto.
La direttrice fece le presentazioni in un modo spartano che gradii molto.
Uno dei suoi ospiti era un anziano antropologo dell’Università di San Marcos,
dalla lunga e folta barba che, appreso il mio nome, tirò fuori dalla borsa
professorale rigonfia di libri e appunti, una vecchia foto degli anni 1950,
dicendomi che c’era bisogno di un nuovo Pedro Villar in Perù. Non comprendevo a
cosa si riferisse, e così mi raccontò del suo vecchio amico Monsignor Pedro
Villar Córdova, deceduto il mese addietro, la direttrice annuì al proposito
della strana coincidenza. Non replicai, tacendo anche per il fatto che ero
ormai sin da bambino abituato a coincidenze ancor più problematiche e la
discussione fu deviata sulle tecniche di deformazione dei crani in età Olmeca,
finendo con un invito del professore a visitare l’Istituto di Antropologia.
Il secondo ospite era un giovane i cui caratteri somatici mostravano un
insieme razziale ove i più appariscenti erano quelli indigeni dell’area
andina centrale e altri di evidente origine alloctona, dominandovi quelli
giapponesi. A partire dal decennio successivo divenne uno dei più noti e
apprezzati archeologi peruviani.
In pochi giorni conobbi pressoché l’intero gotha dell’archeologia
peruviana di quegli anni. La ricerca scientifica applicata allo scavo
archeologico era molto più progredita di quella italiana, purtroppo a quel
tempo ancora dominata dagli storici dell’arte. In quel Nuovo Mondo,
meravigliosamente lontano dal Vecchio Continente, tutto si svolgeva in modo non
soltanto realmente osservante la dottrina e la metodologia scientifica, ma
anche con una dinamicità incomparabile. Le scienze naturali erano già dalla seconda
metà del 1800 parte fondamentale dell’archeologia: una situazione che, in
Sicilia e nell’Italia Centro-Meridionale, solo a invocarla come di mio diritto,
aveva concorso alla mia perdizione in quanto considerata una tesi improponibile
e quindi gravemente avversata dal baronato universitario e burocratico. La
situazione siciliana iniziò timidamente a cambiare un quarto di secolo dopo,
durante il quale continuarono a essere perpetrate devastazioni di siti
archeologici ad opera di scavi condotti con personale tecnico-scientifico,
attrezzature e metodologie inappropriati, pur essendo autorizzati dalle locali
Soprintendenze ai Beni Culturali e Ambientali della Regione Siciliana alle
quali spettava anche il controllo dei lavori.
A quelle prime settimane, sino alla fine del 1991 seguirono altri lunghi
periodi che trascorsi in Perù, dove lavorai in operazioni di scavo e di studio
nella qualità di archeozoologo e di naturalista. Amavo molto quella terra
bellissima, quella società purtroppo anch’essa scossa da una profonda crisi
esistenziale. Tuttavia, il pensiero alle mie figliolette rimaste in Italia
finiva per ammantare ogni cosa di tristezza, ogni sapore aveva un fondo amaro,
e ogni sia pur bellissima donna che con trasporto mi donava i suoi favori,
riusciva solo per momenti limitati a prevalere su quelle assenze affettive e
sui sensi di colpa per averle costrette al dolore della lontananza.
“La rivoluzione è un atto di violenza”
Una parte della popolazione peruviana aveva ritenuto di potere attenuare le
ingiustizie sociali eleggendo un governo socialista “anti-amerikano”,
mentre un’altra parte ormai disperata aveva scelto di vivere formando bande di
“ladrones”, banditi sanguinari dediti ai sequestri di ricchi personaggi,
all’assalto di banche e di grandi aziende. Last but not least, vi
era una terza quota della popolazione, costituita da gruppi e movimenti
extraparlamentari, capeggiati da intellettuali, dove militavano studenti
universitari di varia estrazione borghese e quella massa di lavoratori che
stanchi di essere sfruttati a livello pressoché schiavistico, scelsero la via
della lotta armata popolare, abbracciando l’ideologia comunista nella sua forma
rivoluzionaria vittoriosa in Cina, il maoismo (4).
L’organizzazione di maggiore rilievo era denominata “Sendero Luminoso”,
al cui vertice già dal 1969 vi era il “Presidente Gonzalo”, al secolo
Abimael Guzmán, sin dal 1962 docente di Filosofia all’Università di San
Cristóbal de Huamanga, nella città di Ayacucho (Ande Centrali).
Di lui si è molto scritto, ed è anche stato realizzato un film da un
regista australiano di cultura anglosassone, dove è dipinto quale un
uomo dotato di quella scarsa empatia e intelligenza che si suole attribuire
agli ideologi fattisi terroristi. In realtà, mi fu spiegato, il percorso
formativo delle convinzioni politiche di Guzmán fu comune a parecchie
migliaia di giovani studenti universitari non soltanto peruviani, ma della
maggior parte dei Paesi dell’America Latina che negli anni 1950 avevano
militato politicamente “a Sinistra”, tra le file socialiste o comuniste.
Agli inizi degli anni 1960, ottenuta la laurea, parecchi di questi giovani
idealisti iniziarono a trovare posto nelle nuove cattedre universitarie
disponibili o a svolgere altre professioni impegnate nel sociale. Per i
filosofi e gli antropologi la cattedra divenne un luogo dove potere professare
le loro idee politiche, e le aule universitarie furono scelte quale sede di
dibattito pubblico, per poi diffondersi anche nei quartieri popolari cittadini
e nelle località rurali.
Un esempio eclatante di questo fenomeno fu proprio l’Università San
Cristóbal de Huamanga, sita in un’area fortemente popolata dall’etnia indigena
di lingua Quechua, tradizionalmente ostile allo Stato in quanto identificato
quale sede dell’oppressione colonialista a maggioranza spagnola e anglosassone.
Molti aderenti al Partido Comunista del Perú iniziarono a convincersi su
basi empiriche che, per uscire dallo sfruttamento del sistema capitalistico
locale, afferente a quello nord americano e europeo occidentale, necessitava
una lotta armata popolare, sull’esempio di quanto già avvenuto in Russia nel
1919, in Cina nel 1949 e a Cuba nel 1959.
In Perù, alcuni ideologi marxisti-leninisti iniziarono a considerare
positivamente gli sviluppi che avvenivano in Cina, dovuti all’imponente
programma del leader rivoluzionario cinese Mao Tse Tung. Nella qualità di
docente universitario e evidentemente previo contatto con colleghi cinesi,
Abimael Guzmán riuscì a recarsi in Cina a fini di studio due volte, nel 1965 e
nel 1969, quale ospite del governo (5). Quell’esperienza ebbe il
potere di cambiare la sua vita, avendo maturato una profonda ammirazione per i
risultati raggiunti dalla Nuova Rivoluzione Democratica cinese quali frutto di
minuziose pianificazioni eseguite eliminando alla radice ogni impedimento. Il
professore Guzmán si convinse che fosse possibile applicarle con successo non
soltanto in Perù, ma in tutte le popolazioni del pianeta, se condotte con
eguale determinazione attraverso la rivoluzione armata, iniziando come da
manuale con infiltrazioni ideologiche all’interno del sistema e operazioni di
guerriglia, coprendo pressoché l’intero vasto territorio nazionale tramite
gruppi d’azione non in diretto contatto tra loro.
Queste mie considerazioni sul tentativo rivoluzionario marxista-leninista-maoista peruviano,
non sono il mero frutto di letture, ma dei periodi vissuti nel Paese nel corso
dei tre anni cruciali dell’imponente e complessa lotta armata intercorsa tra
Sendero Luminoso e gli apparati governativi del sistema dominante locale.
Queste ultime erano assistite da agenzie del Blocco
Occidentale e in particolare nordamericane, in talune aree delegando le
operazioni sul campo anche ai ben più temibili gruppi paramilitari
filogovernativi o unità militari d’élite travestite da non meglio
identificabili “gruppi mercenari”. Pur essendo una lotta impari, si svolse per
oltre due decenni con crescente violenza.
In quei tre anni, dal 1989 al 1991, che costituirono il culmine e il
declino del tentativo rivoluzionario senderista, ebbi la
possibilità d’intrattenere discussioni con esponenti di varie fasce sociali e
politiche peruviane, respirare la pesante aria di rivolta nelle strade del
centro e delle periferie cittadine e allo stesso tempo di constatare le
atrocità spesso mortali in quelle abbondantemente presenti. Non potrò mai
cancellare le lunghe scene alle quali assistetti, nella qualità di testimone
senza alcuna possibilità di poter cambiare l’orrendo decorso, carico di
disperazione, di folle ridotte allo stadio finale dell’inedia in quanto ultimi
indifesi, abbandonati dalla società. Rivedo ancora nitide le immagini di lunghe
file di uomini, donne, vecchi e bambini seduti a angolo retto con la schiena
appoggiata al muro dei ricchi palazzi, indossanti sudici stracci un tempo
abiti. La mancanza di cibo li aveva ridotti a scheletri ricoperti da un sottile
strato di pelle simile a pergamena grigia, esausti con lo sguardo velato, tutti
immobili in un assoluto silenzio privo di urla o di pianto, nella rassegnata
attesa degli ultimi dolorosi spasmi che precedevano la morte liberatrice.
Innanzi a quell’estreme miserie umane è impossibile non odiare profondamente le
logiche di un governo corrotto, di qualsiasi colore politico s’ammanti,
compresi i suoi cani da guardia nelle vesti di attori nei ruoli di tecnocrati,
burocrati o militari che siano.
Quei corpi che ancora trattenevano anime torturate erano i resti di coloro
che per i continui soprusi subiti e infine la fame, erano stati costretti a
emigrare, incamminandosi per molte centinaia di chilometri in condizioni di
estrema indigenza, abbandonando le ataviche proprietà nelle strette vallate
semidesertiche lungo la costa, o in quelle della sierra, o nelle aree della
selva amazzonica peruviana. Raggiungevano le città dove si favoleggiavano la
presenza di fontanelle con acqua potabile e abbondanti scarti di ricchi pranzi
tra la spazzatura, quanto bastava per tirare avanti nel periodo di ricerca di
un domani migliore. Ma le nebbie della speranza si dissolvevano quando
giungevano alla meta, riversati come rifiuti negli sterminati, luridi e
violenti accampamenti destinati a coloro che non possiedono più nulla. Una
piccola parte, forse la più fortunata riusciva a morire nelle belle vie del
centro, a centinaia, sopportando le bastonate dei servizi d’ordine che
cercavano di dissuaderli e finivano invece per renderli inabili.
Nelle file appoggiati ai muri dei bei palazzi vi erano anche quelli già
morti, ovvero pronti a essere raccolti da uno dei camion municipali che girava
per le vie del centro per portarseli via, raddrizzandoli e affastellandoli sul
mezzo come stoccafissi, cosicché altri disgraziati avrebbero potuto finalmente
occupare il loro posto.
Dopo decenni, ancora oggi non riesco a togliermi di dosso, in quanto talora
s’insinua nei miei sogni, l’odio provato verso coloro che persino in quella
situazione ostentavano pubblicamente ricchezza e incuranza, passeggiando
tranquillamente in quell’orrore, o deridendo le posizioni assunte dai moribondi
per cercare di attenuare i crampi della fame. Li vedevo poi entrare
allegramente, in bella compagnia, in ampi e lussuosi bar o ristoranti il cui
accesso e le vetrine erano tenute libere da squadroni privati di “gorilla”
pesantemente armati.
Come avvenuto in quei decenni in altri Paesi del Terzo Mondo non in grado
di difendersi dalle depredazioni del capitalismo oltranzista, quell'orrore era
stato probabilmente accuratamente programmato dai vertici di potere del sistema
occidentale al fine di punire i popoli non inclini a sopportare lo
sfruttamento. Uno stato di disgrazia che d'altronde nel corso degli ultimi
secoli ha più volte fatto capolino anche l’Italia, sottolineato da operazioni
stragiste e assassinii facendoli ricadere su formazioni estremistiche di destra
o di sinistra abilmente create, supportate e infine distrutte a uso e consumo
degli interessi del sistema dominante. È praticamente accaduto ogni
qualvolta che, come in Perù in quegli anni, comparivano propositi di cambiamento
“dal basso” dei programmi socio-economici e politici imposti dal sistema di
potere capitalistico.
Il film australiano su Abimael Guzmán e Sendero Luminoso non
mostra alcunché di tutto questo, ed è quindi ben lontano dal descrivere la
realtà, tacendo vicende relative alle attività dei veri pupari o presentandole
con gravi imprecisioni o persino spingendosi a stravolgerne il significato.
Arrestato nel 1992, Guzmán venne trasferito nel carcere militare sito nella
base navale di Callao, dove fu sottoposto a un primo “interrogatorio” privo di
controllo, ovvero di garanzia del rispetto dei diritti umani.
Condannato all’ergastolo, rimase detenuto in questo carcere sino alla sua
morte, che la versione governativa asserisce avvenuta a seguito di un’infezione
virale (Covid 19) nel settembre 2021, all’età di 86 anni. Alcuni anni addietro,
nel 2019, durante la sua ultima esposizione al pubblico voluta dal potere
vittorioso in occasione di un processo, egli aveva ribadito innanzi ai giudici
la sua fede politica, rifiutando di rinnegarla.
Una decisione eroica se si considera trattarsi di un anziano, gravemente
malato, che aveva già trascorso decenni in quegli inferi sconosciuti, eccetto
che per la foto trapelata alla Stampa di una cella sovraffollata di quel regime
carcerario, dove altri militanti combattenti vi erano deceduti (6).
Un articolo “mondato” dei contenuti politici.
L’articolo pubblicato dal quotidiano “La Sicilia” nel 1991 rappresenta ben
poco dell’originale scritto in Perù nel maggio 1989, immediatamente rifiutato
in quanto non corrispondente alla linea politica del padrone della testata
giornalistica. Fu tuttavia molto apprezzato da un giornalista di cronaca, che
riteneva dovessi aspettare l’evolvere della situazione in quanto, a suo dire,
da lì a poco il vento del cambiamento avrebbe scosso l’Europa, gli equilibri
della politica internazionale e quindi del sistema partitocratico italiano.
Considerato quanto avevo visto in Perù, non nutrivo alcuna fiducia nelle
rivoluzioni, figurarsi in una istigata su territorio nazionale italiano dove
solo i golpe di stampo massonico possono giungere alla vittoria. Sono frutto di
accordi e coordinamenti con apparati preposti, dal vertice del sistema
dominante occidentale, al pieno controllo delle rispettive filiere d'importanza
strategica, comprese parti del Deep State nazionale (fatta salva l'approvazione
di quello internazionale filo-occidentale). Tutto questo considerato, le
"rivoluzioni" destinate al successo sono solo dei rinnovamenti
periferici del sistema dominante, o la conseguenza di atti di conquista nel
corso della guerra mondiale in corso tra il Blocco Occidentale e quello
Asiatico.
In gran parte determinata dal default finanziario, la forzata scelta del
governo russo di accettare di entrare nel sistema capitalistico internazionale
attraverso una oligarchia internazionalista - prettamente affidata a
famiglie russe di origine ebraica in quanto gradite al vertice del sistema
dominante occidentale - fu simbolicamente sugellata esibendo il crollo del
Muro di Berlino. L'evento fu una messinscena della capitolazione e
smantellamento del sistema sovietico che, nonostante le garanzie di non invasione
espresse da esponenti dei vertici del Blocco Occidentale, ebbe un effetto
domino di perdita di ampie aree di quell’impero a beneficio di quello.
Nell’Europa filo-occidentale, il controllo di questa fase venne abilmente
affidato a quella parte della Sinistra europea che ormai da anni si era
progressivamente defilata dagli stretti contatti con l’Unione Sovietica, in
quanto a conoscenza dell’imminente crollo ideologico e strutturale di quel
sistema. La composita Sinistra europea divenne a stragrande maggioranza il
principale riferimento degli interessi filoamericani, coincidenti con quelli
dei vertici dominanti il Blocco Occidentale (7).
In questa situazione, le trasformazioni avvenute nell'assetto economico e
politico russo e in quello cinese dal 1989 in avanti, ebbero un effetto distruttivo
sui movimenti rivoluzionari presenti nei Paesi del cosidetto Terzo Mondo, come
quelli presenti nell'America Latina tra i quali era annoverato il Perù. La
mancanza di sostegni finanziari, di forniture militari e di sussistenza
minarono alla radice le possibilità ormai non più di vittoria, ma di
resistenza della lotta armata della Sinistra rivoluzionaria.
Chiarito questo, torno al dicembre 1990, quando su richiesta della
redazione de La Sicilia, consegnai una nuova versione dell’articolo
scritto nel maggio 1989, aggiornata al dicembre 1990. Avevo dovuto
accettare di rinunziare momentaneamente a descrivere gli orrori di
quanto avevo assistito in Perù in quegli ultimi anni, che nessun
quotidiano o settimanale aveva voluto pubblicarmi.
Questa volta mi fu coperta d’inchiostro nero anche una frase che fu
ritenuta indecorosa per l’immagine dello Stato Italiano, avendo dichiarato di
essere pervenuto nella capitale peruviana spinto dal bisogno professionale di
lasciare un’Italia corrotta, in preda a una disperazione al punto di non
essermi dapprima informato della situazione economica e politica di quel Paese.
In realtà fu un caso di doppia censura, abbattendosi sia sulla vicenda
personale giudicata “borderline”, al contempo utilizzata per troncare ogni
possibilità di divulgare le atrocità che stavano tormentando il popolo
peruviano in quanto ribelle al terribile sfruttamento operato dal sistema
capitalistico.
Ebbi piena contezza della situazione appena giunto in territorio peruviano.
Il caldo afoso e una folla oceanica di questuanti all’uscita dell’aeroporto
della capitale mi colpì come un gancio laterale da knock out,
essendomi immediatamente palesata la sensazione proverbiale di essere finito
dalla padella alla brace, addirittura nel bel mezzo di una di quelle terribili
crisi economiche che nei Paesi latino-americani hanno spesso esito estremamente
violento.
Sotto protezione della polizia e dell’esercito, assieme ad alcuni dei pochi
altri turisti occidentali venni caricato esterrefatto su un taxi, dove per
l’autista la cosa più preziosa in quel momento era la batteria, posta al suo
fianco destro, i cavi elettrici annodati ai rispettivi poli. Ci spiegò che in
tal modo poteva essere estratta facilmente per portarsela a tracolla in casa,
al bar, o al chiosco, in quanto bene raro da non lasciare in auto incustodito:
uno degli effetti dell’autarchia, come ad esempio gli introvabili scatoloni di
cartone.
Attraversando in taxi la città, compresi che nonostante tutto, quella era
la terapia ideale per un giovane uomo nelle mie condizioni, lo shock to
the system adatto a fare velocemente sparire gran parte dei problemi
esistenziali. Messo a confronto con vicende ben più gravi, tutto tornava ad
avere il suo giusto valore, anche il senso della vita, degli ideali, del
diritto a un lavoro dignitoso e dell’Amore in tutte le sue numerose forme (8).
Ma ciò che lentamente compresi con stupore in quel taxi fu che quella
situazione mi aveva infine affascinato, nel senso direi magico del termine,
ritenendo accettabile persino rischiare di beccarsi una pallottola vagante o di
sbattere contro la lama di un coltello per strada, pur di vivere libero la mia
vita. Non provavo particolare paura, sovrastata dall’eccitazione di trovarmi
innanzi a problemi di sopravvivenza di una gravità da parecchi decenni divenuta
sconosciuta alle nuove generazioni dell’Europa occidentale. Inoltre, il fatto
che un popolo avesse trovato dentro di sé la forza per sollevarsi in una lotta
di classe, agendo senza mezzi termini per abbattere in modo sistematico i
vertici delle istituzioni territoriali identificati quali i manutengoli della
tirannia, divenne per me occasione di profonda riflessione.
In quel 1989 scosso globalmente da cambiamenti epocali di equilibri
politici e sociali, a Lima vissi assiduamente per strada anche di notte e nelle
periferie riferitemi quali le più pericolose, accompagnato da una giovane
creola conosciuta negli uffici di una compagnia aerea e da alcuni suoi amici.
Scoprii che in linea generale gli italiani con i miei caratteri somatici e il
mio abbigliamento essenziale non erano odiati quanto gli anglosassoni, che
invece erano considerati inclini al razzismo e ostili alle ideologie populiste
o comuniste a quel tempo particolarmente in voga nell’America Latina. Giravamo
anche per i locali notturni dove ebbi modo di ascoltare molte notizie su quanto
stava avvenendo a livello economico, politico e militare, finché ebbi un quadro
chiaro e decisi di spostarmi sulle Ande, nella bellissima città di Cuzco che a
quel tempo iniziava a essere al centro di sanguinarie operazioni della
guerriglia e dei reparti antiterrorismo governativi. Nel 1990 trovai la
situazione peggiorata anche nei villaggi lungo l'ímmensa fascia desertica
costiera. Nel 1991, il problema delle grandi bande di predatori armati era
peggiorato al punto che, la spedizione archeologica alla Gran Piramide di Nasca
alla quale partecipavo quale archeozoologo dovette dotarsi di ronde armate.
Assieme al caro amico botanico Luigi Piacenza svolgevamo ogni notte, pistola in
pugno, il nostro turno di quattro ore di ronda armata a protezione esterna
all’accampamento e degli scavi posti a circa un centinaio di metri (9).
L’articolo che qui ripubblico mantenendo il titolo originale, fu ospitato
nell’aprile del 1991 dal quotidiano “La Sicilia” nella pagina “le Scienze”,
diretta da Luigi Prestinenza, noto giornalista sportivo con una profonda
dedizione agli studi e ricerche in campo astronomico. Come sottotitolo aveva
inserito “Appunti di viaggio di un archeologo e naturalista messinese nel
Paese degli Incas, fra il Pacifico e le Ande”.
Spogliato di ogni “eresia” politica e velleità di reportage,
era divenuto un mero articolo divulgatore a livello popolare. Ne risultò
comunque un buon ritratto di quella forte connotazione culturale tradizionale
che oggi, in quel Paese, non esiste più, spazzata via dalle manipolazioni di
massa e tecnologie del villaggio globale, standardizzata sul modello di vita
nordamericano incrociato con caratteri culturali autoctoni. A questo articolo
negli anni seguenti ne seguirono altri dello stesso carattere.
Alla redazione de “La Sicilia” erano perfettamente consapevoli che ai
lettori isolani poco o affatto interessavano le rivoluzioni vere, preferendo
evitare i resoconti di migliaia di individui in carne e ossa orrendamente
ammazzati, di centinaia di migliaia di persone abusate fisicamente e
psicologicamente da bande armate o milizie di ogni tipo e villaggi montani
distrutti.
In Italia, erano bastate sia la dissoluzione del sistema fascista,
d'altronde arrivato al potere tutt’altro che con una vera rivoluzione popolare
contro i poteri forti borghesi, che anzi finirono per dominare lo Stato
monarchico, e sia le illusioni separatiste del secondo dopoguerra, poco più che
una vampata di calore di poca durata. La rivoluzione è per sua definizione un
poderoso insieme di atti di violenza in crescendo, che richiede al popolo che
la compie una tempra e una volontà di grande determinazione come in
parte lo fu quella peruviana.
L'articolo "Peru, por hablar con gusto" (10)
Aeroporto di Lima, Ottobre 1990. Ancora una volta, istintivamente, presto
attenzione alle sensazioni, enfatizzandone i messaggi come altri europei giunti
da un minuto o da anni, sbarcati in questa terra che per molti è di conquista o
di sconfitta. Mi trovo in Sud America, nel mitico Perù: un territorio quattro
volte l’Italia, il paradiso di noi archeologi e naturalisti.
Tierras calientes, tierras templadas e tierras frias sono
le fasce climatiche che in base all’altitudine dividono questo Paese in tre
aree geografiche bel diversificate.
Tre fasce di territorio
La costa è bagnata dall’Oceano Pacifico, 3000 km di deserti torridi,
solcati da strette e lunghe vallate alluvionali ove la poca acqua e l’umidità
permettono all’uomo di coltivare; a ridosso s’innalzano i primi contrafforti
terrazzati delle Ande, la Sierra, ove il clima è temperato e ha permesso lo
sviluppo delle attività contadine; e infine le terre fredde della steppa
o puna degli altopiani ove la Cordigliera si eleva con vette
vulcaniche oltre i seimila metri, regno del condor.
Separati da questa barriera orografica, si estendono i territori
dell’Oriente, l’immensa selva tropicale in gran parte ancora inesplorata, dove
tribù di indios bravos (cioè “feroci”) praticano il
cannibalismo, interrotta dai meandri di corsi d’acqua affluenti del Rio delle
Amazzoni.
È questo uno degli aspetti che più attirano i viaggiatori: il rapido
succedersi di ambienti naturali profondamente differenti. Così in alcuni giorni
si può passare dalle splendide calde spiagge tropicali, tuttavia bagnate dalle
gelide acque provenienti dall’Antartide e frequentate da otarie e pinguini,
alle ampie e deserte piste sciistiche ad oltre cinquemila metri, attraversare
le afose piantagioni di banani o di caffè, inoltrarsi nella foresta pluviale,
navigare con le guide indios nei fiumi amazzonici.
E vari sono anche i contesti archeologici: dalle piramidi di adobe (mattoni
di fango) degli immensi centri cerimoniali preincaici situati nell’attuale
deserto costiero, alle fortezze e città fortificate degli Incas, alle vestigia
delle prime cittadine d’età coloniale, oggi disabitate.
L’aeroporto internazionale di Lima è simile a quello di altre capitali nel
mondo, ma il lieve tipico odore di grasso vegetale che avvolge sin
dall’affacciarsi dalla scaletta dell’aereo, e che mi accompagnerà ovunque, è
inconfondibile e lo associo ad immagini e esperienze vissute. Cerco e ritrovo i
volti, i gesti, gli abiti, classificando mentalmente i “gringos” (11),
gli indios, i meticci.
Il taxi governativo per non farsi derubare, il lungo tragitto attraverso la
città sino all’albergo in un quartiere residenziale, dove potrò dormire
chiudendo entrambi gli occhi. Ampi viali, piccola gente, movimenti lenti e
pacati, volti dalle espressioni indecifrabili.
Siti in luoghi della periferia non visibili, e sembrano quindi non
esistere, i Pueblos Jovines, eufemismo per indicare quartieri di
una povertà inimmaginabile, di recente costituzione ed in vertiginosa
espansione. Qui la mortalità infantile è tra le più alte al mondo, il dodici
per cento.
Ospitalità e gioia di vivere
Le telefonate ad amici e conoscenti peruviani, affettuosi e premurosi come
richiede l’ospitalità limeña, con quella gioia di vivere di chi è
svogliatamente rassegnato alla propria condizione sociale, ma non lo sa o non
si cura di ricordarselo, ricco o povero che sia, anch’essi nell’incapacità di
poter cambiare il mondo o se stessi.
Sono affezionato ad un albergo in stile coloniale, ed alla camera con i
quadri riproducenti le vie della Lima che fu, con i monumentali balconi
intarsiati in scuro legno di cedro.
Come sempre al pomeriggio del primo giorno amo trascorrerlo immergendomi
nel palar spagnolo per le vie del centro, nell’immenso e colorito mercato. La
visita ai negozi di libri usati che talora hanno rivelato veri e propri
gioiello per i miei studi. Le serie di onnipresenti bettole che offrono
pietanza elaborate a basso prezzo, ed i cui olezzi mi spingono verso spazi più
ampi, sin sotto i portici di Plaza Bolivar ed ancora più
avanti, sino a Plaza de Armas, splendori architettonici, anch’esse
affollatissime. Qui misere compagnie di mimi indios eseguono brevi
rappresentazioni tra crocchi di curiosi, teatri all’aperto, specchio della “vida
en la calle”.
Vivir en la calle
La serata con gli amici ritrovati nei ristoranti dell’elegante quartiere
Miraflores, gustando i deliziosi piatti della “cocina criolla”; la
passeggiata all’Ovalo, una grande piazza dove sino a notte espongono pittori e
scultori o qualche indio venuto dalla Sierra o dalla Selva, che offre rocce
cristalline metallifere o raccolte di farfalle.
L’immancabile giro nei locali da ballo aperti sino all’alba. Ve ne sono una
cinquantina, e si può scegliere dalle frenetiche danze orgiastiche negre ai
romantici huaynos indios, dai minuetti settecenteschi di
tradizione castigliana alla frastornante e liberatoria salsa.
Se il tempo lo concede e c’è la luna, e soprattutto se si è in tanti, si va
tutti alla playa ai piedi dell’alta falesia che delimita a
sud-ovest la città; su quella finissima sabbia che in queste ore ha riflessi
argentati, ascoltando l’aritmico e inquietante frangersi delle lunghe onde del
Pacifico: da dove provengono e quali altri relitti porteranno?
E quindi, cara Consuelo, caro Ricardo, e tu, e tu, insomma cari amici e
coetanei raccontatemi cos’è accaduto in questi mesi di mia assenza, ed io vi
racconterò la solita storia delle storie della solita Italia, notoriamente
terra di comportamento mafioso, e la condirò come voi volete, amanti come siete
delle spezie, del muy rico, così, “por hablar con gusto”.
L’umidità della notte si riscoprirà al mattino, assieme alle uova che sanno
di pesce (negli allevamenti costieri le galline sono spesso allevate con farina
di pesce) ed agli effetti del Pisco Sour (una potente grappa
locale, servita on the rocks, con lime, un pizzico di
zucchero e di sale), ma infine prevarrà la quantità dell’abbondante e varia
frutta tropicale e il concentrato e profumatissimo caffè.
Dopo alcuni giorni di frequenza ai musei, fondazioni e istituti
universitari per mettermi al passo con le ultime ricerche, sono pronto al lungo
viaggio attraverso i deserti costieri. Raggiungerò i colleghi della équipe
archeologica che hanno piantato il campo già da qualche settimana. I disagi
saranno come sempre abbondantemente ripagati dalle emozioni delle nuove
scoperte scientifiche (12).
Note
1 – Perù, por hablar con gusto, in “La Sicilia”, nella
rubrica Le Scienze, 26 marzo 1991.
2 – Alan Garcia era divenuto Presidente della Repubblica nel 1985, a
soli 35 anni. Leader del Partido Aprista Peruano, istituito nel
1930 quale sede peruviana dell’Alianza Popular Revolucionaria Americana (APRA), fondata
in Messico nel 1924 e affiliata alla Socialist International. Nel
1989, l’ideologia aprista si fondava sulla lotta per l’avvento
di una democrazia sociale nell’ambito di una integrazione Latino-Americana di
una rete di movimenti sociali e politici anti-imperialisti. A distanza di oltre
trent’anni constatiamo come l’Apra si sia spostata nell’area politica
parlamentare di centro-destra.
Garcia morì nel 2019 all’età di 59 anni, ucciso da un colpo di pistola alla
testa. Identificato quale un caso di suicidio dagli investigatori, la morte
evitò il suo arresto e sopratutto il diritto di potersi difendere
pubblicamente, divulgando informazioni sui cerchi di potere superiori rimasti
ignoti nell’inchiesta, avviata dalla magistratura brasiliana, su uno scandalo
internazionale di corruzioni avvenute nel settore petrolifero con epicentro
ritenuto avente sede in Brasile.
3 – Vi trascorsi un breve periodo agli inizi dell’estate 1975. Vi ero giunto
all’età di diciotto anni, dopo alcuni giorni di viaggio in autostop dalla
Sicilia, curioso di sperimentare la vita sotto il regime dittatoriale
franchista, caratterizzato da una ideologia con tratti comuni con il fascismo.
4 – Al proposito, ricordo che a quel tempo era spesso citata una
celebre frase del medico Ernesto “Che” Guevara “La rivoluzione è
sempre un atto di violenza”. Il “Che” venne assassinato nel 1967 in
stato di prigionia in Bolivia, un’esecuzione operata da un ufficiale
dell’esercito seguendo ordini pervenutigli dai vertici militari nazionali per
vie di comando.
5 – Vi furono anche casi differenti, quali ad esempio
quello di un esponente comunista siciliano, l’archeologo Vincenzo Tusa, che nel
1965 fu ospite del governo cinese, nella qualità di membro del Comitato
Nazionale dell’Associazione Italia-Cina (e dell’Associazione Italia-Russia). Ho
accennato alla vicenda, inclusi anche alcuni aspetti oscuri,
nell’articolo pubblicato il 16 maggio 2019 su The Reporter’s Blog e
trasferito su questo blog in data 19 giugno 2020
all’indirizzo: https://www.thereporterscorner.com/2019/05/la-tecnocrazia-e-il-sistema-di-potere_19.html
6 – Nel maggio 1989, durante il mio soggiorno a Cuzco, ebbi
modo di leggere una lunga lettera manoscritta con una semplice matita e recante
una firma a me incomprensibile. Mi sembrò una calligrafia femminile, ben
ordinata, rotondeggiante, scorrevole e sicura. Una missiva informativa della
grave situazione di sofferenza in cui si trovava la popolazione indigena sita
in un’ampio territorio montuoso a quel tempo perfetto per la guerrilla,
dove si alternavano le fasce altitudinali della sierra e della selva peruviana,
la regione del Madre de Dios (nomen omen), e di quanto
esse necessitavano, non soltanto per le cure mediche.
Nella lettera, indirizzata ad personam ma che presumo
fosse, come nel mio caso, consegnata a diverse personalità di cultura straniere
in visita in Perù, Abimael Guzman o forse più probabilmente una sua
collaboratrice, chiamava a raccolta altri “colleghi”, come ci definiva quali
uomini dediti alla conoscenza e sensibili alle conquiste sociali. Chiedeva di
apportare aiuto alla popolazione sconvolta dalle conseguenze della repressione
governativa, anche solo diffondendone testimonianza presso le istituzioni umanitarie
e all’opinione pubblica internazionale, dell’assoluta mancanza di protezione
giuridica delle popolazioni lasciate alla mercé degli eccessi di forze militari
e paramilitari.
Non molti sono a conoscenza che il corpo di Abimael Guzmán fu cremato il 24
settembre 2021, alcuni giorni dopo la sua morte, e le sue ceneri disperse in un
luogo segreto ad opera di un’istituzione governativa (così come era avvenuto
nella vicina Bolivia decenni addietro, nel 1967, per il corpo di Ernesto “Che”
Guevara dopo il suo assassinio). Evidentemente, si trattò di una necessità
politica che va oltre la vendetta del sistema di potere dominante in Perù, in
quanto il popolare carisma del Guzmán suscitava paura di emulazioni e di un
culto eroico. Un errore politico notevole, in quanto dal punto di vista del
potere simbolico di un evento, essendo l’ideologia un’Entità immateriale, la
totale dissoluzione e sparizione del corpo del personaggio che la rappresenta
ne risulta esaltata quale figura eroica, purificata dal suo legame terreno e in
quanto tale immortale.
Quanto al periodo che trascorsi sulle Ande, a Cuzco, se ben ricordo il
sindaco e molti altri dirigenti di Istituzioni statali presenti in quella
città vennero assassinati da un gruppo di fuoco di Sendero Luminoso poco
dopo la mia partenza, quando già rientrato a Lima. Devo ammettere che avevo
anticipato la mia partenza in quanto avevo avuto sentore che qualcosa stava per
accadere.
7 – Qualcosa di simile sta avvenendo oggi con l’avvento al potere
di una Destra ormai da considerare lontana dalle aspirazioni sia dei populisti
che dei sovranisti. A parte i proclami strombazzati in sede elettorale, è il
risultato che conta: essa ha dimostrato di avere ben poca intenzione di
contrastare gli interessi del vero potere, quelli socio-politici e militari e
quelli economici del lobbismo multinazionale, quali entità strutturali dei
vertici del sistema occidentale. Svanite le iniziali tenui speranze delle
masse, essa si è ormai rivelata priva di possibilità d’intervento innanzi ai
voleri stranieri non coincidenti con quelli nazionali e talora anche
dell’Unione Europea. Sarebbe quindi necessaria una rifondazione politica,
economica e militare dell’Unione Europea in modo di garantire il rispetto delle
esigenze di ogni nazione nell’ambito di una vera indipendenza comunitaria.
Appare ovvio il bisogno di bandire ogni forma di contrasto (comprese le guerre)
fortificando l’attuale compagine comunitaria mediante un pacifico allargamento
ad Oriente, ovvero comprendendo nazioni di notevole peso economico estendendosi
quantomeno sino ai territori della cosiddetta Russia Bianca. È un
dato incontestabile che il futuro dell’Europa sarà precario senza questi
territori, e al contempo anche per questi. Di queste profonde mancanze l’intera
popolazione dell’Europa Centrale e Occidentale inizia a pagarne le conseguenze,
in parte dovute a influenze esterne e in parte a incapacità delle classi
politiche europee.
8 – Credo sia interessante notare come nell’antichità, i Greci,
avendo riconosciuto la complessità dell’amore, Eros, termine con il
quale definivano l’insieme dei diversi aspetti affettivi e sentimentali,
ritennero opportuno di accompagnarlo nei discorsi da un secondo termine, che ne
specificava la tipologia (Philia, Agape, Storge, Pothos, etc.)
9 – l’anno precedente la spedizione era stata attaccata da una
grossa banda di ladrones che avevano derubato diversi
componenti e arrecato gravi molestie ad alcune donne. L’accaduto fu denunziato
alle Autorità dal direttore dello scavo, senza accennare ai problemi avuti dai
componenti di sesso femminile, ritenendo che la notizia avrebbe provocato non
soltanto una indiscreta curiosità della popolazione locale e della Stampa
nazionale ma, rimanendo impunite le violenze, avrebbero potuto rendere in
futuro possibili anche insorgenze di fenomenologie copycat. Due
anni dopo, a Genova, il paleobotanico Luigi Piacenza mi comunicò di avere
appreso che gli autori dell'attacco erano stati eliminati da un gruppo
paramilitare di specialisti.
10 – vedasi nota 1.
11 – un vocabolo popolare messicano che sin dalla seconda metà
degli anni 1980, si diffuse negli ambienti dell’estrema sinistra peruviana per
designare in senso spregiativo cittadini nordamericani o stranieri di cultura e
tipico aspetto anglosassone.
12 – rimando all’articolo pubblicato il 14 febbraio 2023 su
questo blog (vedasi in particolare l’aneddoto presente nella nota
3):
https://www.thereporterscorner.com/2023/02/la-tecnocrazia-e-il-sistema-di-potere.html