di Pietro Villari, archeologo e naturalista
Articolo del 16 Gennaio 2024 - Aggiornamento Fotografico: 29 Febbraio 2024
Ultime modifiche: 08 Aprile 2024
Monte Belvedere (Fiumedinisi, Sicilia Nordorientale):
Fig. 1 - il grande piazzale realizzato spianando un'area del complesso monumentale d'interesse naturalistico e culturale (Foto dell’Autore del presente post, Gennaio 2024. Tutti i diritti riservati) L'entità del danno è parzialmente testimoniata dalla sezione stratigrafica, contenente un antico strato di ceneri e carboni d'interesse archeologico, probabilmente formatosi al tempo dell'esistenza di un riparo sottoroccia, in seguito crollato. Si tratta di una unità stratigrafica meritevole di un approfondito studio archeobotanico, che andrebbe salvaguardata anziché essere lasciata all'azione erosiva degli agenti atmosferici e ai possibili danni effettuati dai visitatori.
Fig. 2 -
Castello Belvedere (Foto dell’Autore del presente post, Gennaio 2024. Tutti i diritti riservati).
Il triste risultato dei controversi restauri effettuati negli anni 2005-2006,
ai quali si sono sommati gli effetti delle sollecitazioni generate dai
lavori operati con mezzi meccanici all'interno del monumento, edificato su un
costone roccioso che negli ultimi decenni ha peggiorato le sue condizioni
d’instabilità. La foto mostra parte del muro perimetrale del mastio, l'area che
dal 1196 in avanti, nel corso di oltre sessant'anni, accolse
periodicamente i componenti della famiglia Hohenstaufen, i regnanti svevi di
Sicilia. Almeno parte del muro è destinata a collassare a breve, e
costituisce un grave pericolo sia per gli addetti ai lavori che per i
visitatori.
Figg. 3 e 4 - Rocca Perciata ((Foto dell’Autore del presente post, Gennaio 2024. Tutti i diritti
riservati). Alcune evidenze dell'instabilità strutturale, che rende il monumento
incompatibile con un uso turistico. Il crollo dei massi potrebbe investire
anche parte del piazzale adiacente sul lato sinistro e del sentiero che
conduce al Castello.
La recente deturpazione rappresenta il sequel dei
danni, irreparabili, arrecati alla stessa area circa diciotto anni fa. Il
risultato eclatante e surreale
qualora fosse accaduto nell’ambito di una società civile, è l’espressione
della somma delle gravi incapacità sia tecnico-scientifiche e amministrative
della dirigenza regionale siciliana, e sia di pericolose modalità di usare il
potere politico. Ecco quindi i nuovi spianamenti con ruspe, distruzioni con
mezzi di disgaggio, e la cementificazione nell’area sommitale del Monte
Belvedere di Fiumedinisi, con tutta probabilità ancora in corso mentre inizio a
scrivere questa disgraziata storia (16 Gennaio 2024).
Purtroppo, questo è solo un capitolo della costante
distruzione che, nel corso di mezzo secolo, ha progressivamente compromesso la
ricchezza e la bellezza di quello che, sino alla fine degli anni 1960, fu
l’imponente patrimonio ambientale e culturale del territorio compreso tra le
valli dell’Allume e del Fiumedinisi. Anni dei quali conservo ancora molti
ricordi.
Inizio quindi a contestualizzare la vicenda sulla base
di mezzo secolo di esplorazioni archeologiche e naturalistiche, ricerche
storiche e attività pubbliche divulgative, che a vario titolo, accademico e
professionale, ho condotto anche a livello internazionale. Un'attività
costretta a divenire anche una lotta lotta impari per la tutela e
salvaguardia di quest'area, effettuata anche con l’appoggio di validi colleghi.
Una rotta di collisione con gli interessi di una rete di poteri consolidati in
un “sistema” monolitico complesso, che non disdegna di esercitare con arroganza
anche metodologie non ortodosse di annichilimento dei pochi che tentano di
opporsi. Ormai esso impera praticamente incontrastato a livello regionale, con
legami di livello nazionale e internazionale (1).
Oltre mezzo secolo di devastazioni del patrimonio
comunale
L’attuale processo di devastazione è da considerare
uno degli effetti del fenomeno di abbandono delle campagne, che raggiunse il
suo apice negli anni 1970, al quale il governo cercò di opporre un controverso
“piano di sviluppo” delle aree rurali siciliane. Tra le misure d’intervento, vi
fu l’elargizione di sovvenzioni statali per la realizzazione delle strade
sterrate di penetrazione agricola, che si rivelò particolarmente letale per
l’assetto ambientale, in quanto nella pratica era delegato all’operato di “ruspe
selvagge”, che le realizzavano in poche settimane travolgendo ogni cosa
avessero innanzi.
Si trattava di un’attività sfrenata, profondamente
odiata dagli anziani contadini nelle aree collinari che ne comprendevano le
conseguenze e si prodigavano a predirne gli svantaggi, rimanendo tuttavia
inascoltati da chi avrebbe dovuto valutarne la validità delle argomentazioni.
Si stavano attuando devastazioni condotte senza alcun riguardo nei confronti
dei caratteri e problematiche costituenti il panorama geologico, e delle
antiche protezioni dal dilavamento dei pendii collinari. Nel comprensorio ionico
del Messinese, quest’ultime erano spesso costituite dagli impianti di frutteti
e boschi secolari (castagneti, querceti, uliveti), associati a una vastissima
rete di terrazzamenti con muri a secco (le “armacere”), sapientemente
erette da operai scalpellini e mantenuta in efficienza, nelle aree critiche
quali gli erti pendii, con periodici piccoli interventi di restauro.
Compromessa dall’opera dissennata delle ruspe che
condusse in breve al conseguente prevedibile instaurarsi del dilavamento dei
terreni, fu aggravata dall'abbattimento di alberi e incendi per favorire il
pascolo sui terreni lasciati incolti. Si sommarono anche danni provocati
dall’ingordigia speculatrice del commercio di legname. Soltanto a Fiumedinisi,
negli anni 1980 erano particolarmente attive ben tre segherie.
L’abbattimento di alberi secolari, ovvero la
distruzione di un intero patrimonio naturalistico, accadde senza alcuna
possibile realistica attività di controllo delle Autorità e, dato di fatto che
permette di focalizzare il contesto, notiamo il perfetto tempismo della
contemporanea apertura di strade sterrate, sia pubbliche che private. Quasi
sempre, le concessioni di permessi comunali per l'esecuzione privata di strade
sterrate private e per il loro innesto in quelle di pubblico transito, venivano
rilasciate senza richiedere validi studi di valutazione dell’impatto
ambientale, degli interventi destabilizzanti, o di vincolarle alla garanzia di
erigere valide protezioni di contenimento e sistemi di scolo delle acque
piovane. D'altronde non esistevano studi sullo stato di conservazione e composizione
delle ampie aree boschive private e sul loro uso.
Gli effetti dell'uso sconsiderato delle ruspe e della
rarefazione di intere aree boschive collinari, si palesarono negli anni 1970 e
1980, quali cause degli ingenti danni provocate dalle tragiche tracimazioni dei
torrenti Fiumedinisi e Allume. A questo fenomeno si sommarono le conseguenze
del pascolo di armenti, condotto in modo intensivo in quelle aree che, sino
agli inizi degli anni 1960, erano state per molti secoli adibite alla
coltivazione. Difatti, con il quotidiano passaggio di mandrie bovine, ovine e
caprine lungo i sentieri del Monte Belvedere e contrade adiacenti, parte dei
terrazzamenti medievali iniziarono dapprima a essere intaccati da piccole
frane.
Nel corso dei decenni successivi, si aggiunse l’azione
degli agenti atmosferici, in grado di causare l’instaurazione di un
acceleramento del processo di dilavamento del terreno anche in aree che
conservavano resti d'interesse archeologico. Dagli anni 1990 iniziarono così a
verificarsi ulteriori devastazioni condotte con l’utilizzo di metal detectors
sia da singoli appassionati di antichità che da gruppi criminali provenienti
dall’entroterra etneo.
A partire dagli anni 1970, durante i quali iniziò un
forte sfruttamento dell’area quale sedi di attività intensive di pascolo,
la voracità di capre e pecore nei confronti delle foglie di gelso – preferite
per il loro contenuto zuccherino – causò in pochi decenni tagli di fronde che
furono determinanti nel fenomeno della rarefazione e scomparsa del bosco di
gelsi che si estendeva tra parte della Pianura Chiusa e le ultime balze
meridionali del Monte Belvedere (2). Soltanto in queste ultime,
oggi resistono alcune decine di alberi, soprattutto laddove sono protetti da
rocce e difesi da alti e fitti rovi a fusto di consistenza legnosa.
Probabilmente allestito in età medievale, nel 1700 questo bosco occupava ancora
dimensioni molto più ampie delle attuali, essendo legato oltre all’abbondante
raccolta dei benefici frutti, al lucroso allevamento del baco da seta. I
bozzoli venivano raccolti e lavorati sia a Fiumedinisi che nella frazione
Allume di Roccalumera, per ottenere tessuti da commerciare o per
confezionare parte della dote matrimoniale a carico delle famiglie delle spose.
Le recenti attività delle ruspe e quelle intensive e
quindi desertificanti di allevamento, spazzarono via anche l’armoniosa
bellezza dell’area della sorgente Acqua Rossa. Essa era situata lungo il
percorso che collegava le miniere di allume (attive quantomeno sin dall’età
romana) site ai margini dell’odierno borgo che da esse trae il nome, tramite
un’antichissima mulattiera che giungeva al casale di Budicari dominato dal
Palazzo Rosso, procedendo sino a quello dell’Acqua Rossa e da qui infine al
casale della Pianura Chiusa (3).
Fatto ancor più grave, alla fine degli anni 1980, una
nuova strada concepita in modo dissennato, distrusse la fonte di fattura
normanno-sveva usata per l’approvvigionamento del Castello, posto a circa
duecento metri in linea d’aria da questo, nell'antico e un tempo
vastissimo castagneto che si estendeva nelle contrade Deni e Brunno.
Presumo che il toponimo di quest’ultimo derivi da brunn, ovvero
“fonte”, come ho potuto apprendere anni fa in quel di Tubinga, in territorio
Svevo, quell’area della Germania Meridionale dove ancora oggi si parla un
dialetto molto simile a quella che fu la lingua nativa degli Hohenstaufen, oggi
incomprensibile ai Tedeschi centro-settentrionali. Nell’attuale lingua tedesca
il termine indica anche un pozzo d'acqua potabile) (4).
Nel caso arrivasse un turista, di quelli abituati agli
standard europei…
Per ritornare all’area del Monte Belvedere, nel corso
degli ultimi cinquant’anni, quel che resisteva dell’antico sistema rurale è
stato dapprima abbandonato per decenni al saccheggio e alla desertificazione e,
negli ultimi tempi, sta iniziando a materializzarsi una nuova fase, creata
all’ombra di una controversa concezione degli interventi di “riqualificazione”
ritenuti necessari allo sviluppo rurale.
Certamente, non credo sia facile conciliare con le
attività agrarie la creazione di quello che dovrebbe essere denominato
“Piazzale del Cemento”, ovvero un intervento spurio, considerata la sacrale
monumentalità e la millenaria armonia dei luoghi, oggi compromessa
irreversibilmente. Una spianata cementificata, concepita quale area terminale
di una chilometrica strada di penetrazione rurale, sterrata, stretta e
tortuosa, con pendii spesso erti e curve pericolose in quanto totalmente priva
di protezioni, aperta tra rocce e terreni spesso franosi e precipizi… Difatti,
fu proprio a causa di queste carenze che anni fa vi furono due decessi, in
un’auto precipitata nel vuoto.
In definitiva, dopo un percorso da incubo
automobilistico, il turista in cerca di paesaggi naturali giunge innanzi alla
sconcertante visione dell’imponente opera cementizia e inizia a farsi delle
domande. Quale valore aggiunto vorrebbe rappresentare quel piazzale pacchiano,
ottenuto ruspando e cementificando parte dell’area monumentale d’interesse
naturalistico e culturale della sommità del Monte Belvedere? Perché
aggiungere un’ulteriore deturpazione inserendo nell’opera un decoro geometrico
non consono al patrimonio culturale del luogo?
Poco dopo, il turista inizia legittimamente a
preoccuparsi constatando che la porzione a sud-ovest del piazzale è posta
presso un alto costone roccioso, orrendamente lesionato, e con fratture beanti
che affatto rassicurano il viandante… Il pericolo sussiste anche lungo il
sentiero che s’inerpica sino al maniero.
Last but not least, giunto
all’interno del Castello Belvedere, il turista continuerà a constatare di
essere in balia della sorte nel momento in cui si troverà a fotografare il muro
interno del mastio, quello alto e gravemente lesionato dal quale, come in bella
vista è possibile verificarne il risultato, si stacca talora qualche
pietra o conglomerato murario. Il danno è da ritenere una delle
conseguenze dei lavori di "riqualificazione" datati al 2005-2006 e di
quelli attuali, entrambi eseguiti sia con mezzi meccanici che provocano
prolungate scosse sussultorie e ondulatorie in quell’area geologicamente
instabile, e sia con controversi interventi restauro eseguiti mediante
consolidamenti e integrazioni murarie.
Nell’allontanarsi in fretta dall’area, il malcapitato
si chiederà: 1) come sia possibile che l’area non sia stata quantomeno
dichiarata inagibile per il pericolo di crolli: 2) quali siano le
vere finalità delle opere di “riqualificazione” finanziate nonostante la
palese instabilità del sostrato roccioso ed essendo quindi almeno parte del
monumento irrimediabilmente condannata a crolli e infine a franare lungo i
pendii delle valli sottostanti. Un pericolo reale, forsanche disastroso,
funesto e a breve, come accadrebbe nel caso nell’area si registrasse un evento
sismico di particolare potenza distruttiva.
Bisognerebbe forse iniziare a chiedersi, soprattutto
nei meandri politici e tecnocratici della Regione Siciliana, cosa potrebbe
accadere se un avventuroso gruppo di turisti tedeschi, si fosse recato in
pellegrinaggio a visitare l'area e, nello sconcerto, avesse documentato la
situazione con un video e molte foto dettagliate, divenendo testimoni come
altri prima di loro, di uno della serie di episodi di una vicenda scabrosa che
dura da un ventennio. E, se inviassero una circostanziata lettera a chi di
competenza a Berlino e Bruxelles, e a quei media tedeschi non amanti della
classe politica e burocratica italiana?
Ritenere di essere perennemente in grado di
silenziare gli oppositori del sistema di potere dominante a livello
regionale, corrompendoli con l'affidamento di lavori pagati con denari dello
Stato o, nel caso degli irriducibili, distruggendoli con la consueta
metodologia che inizia insinuando il discredito e che talora conduce alla morte
sociale, questa volta in presenza di turisti stranieri tra l’altro qualificati,
apparrebbe non soltanto maggiormente complicato del solito, ma
anche rischioso per la stabilità interna dell'organizzazione (5).
La presentazione di circostanziate interrogazioni in
sede parlamentare europea ha raramente avuto effetti sui responsabili di simili
vicende. Quel che invece preoccupa le lobbies sono gli effetti economici
determinati dal danno d'immagine sul turismo a livello regionale, in questo
caso l’affidabilità gestionale non soltanto della Regione Sicilia, ma anche delle
capacità di controllo operato dalle preposte pubbliche Istituzioni della
Repubblica Italiana e non ultime quelle dell’Unione Europea inerenti ai finanziamenti
da essa concessi in prestito ai singoli Stati membri sulla base di garanzie.
Siamo difatti innanzi a una vicenda di un progetto
concepito, accettato e attuato attraversando una quantità di uffici tecnici di istituzioni
comunali, regionali, statali e infine dell’Unione Europea, senza che nessun
politico, tecnocrate, burocrate, imprese private e liberi professionisti, per
non parlare dei parrucconi universitari, delle associazioni in difesa dei beni
culturali e ambientali, e dei giornalisti d’inchiesta, mettessero in evidenza
che si tratta della stessa area monumentale sia naturale che culturale già
oggetto di danni devastanti perpetuati già dal primo intervento operato negli
anni 2005-2006. Adesso si è arrivato all’esecuzione di un progetto definito
“riqualificante” ma che costituisce un pericolo sia per il sito che per la
pubblica incolumità, che in modo sfacciatamente al limite del surreale, sta
provocando danni irreparabili con fondi destinati all’armonico sviluppo di aree
rurali depresse. Spingendo i responsabili a potersi ritenere talmente potenti
da potere continuare anche questa volta a danneggiare gravemente e in modo ben
prevedibile, persino un monumento medievale quale il Castello di Fiumedinisi, che
fu di proprietà dei regnanti svevi del casato Hohenstaufen. Tenendo anche
presente che la vicenda si collega a fatti e personaggi pubblici che nel corso
degli ultimi vent’anni sono stati notoriamente al centro di indagini svolte
dalla magistratura italiana e dall'Ufficio antifrode dell'Unione Europea.
Comunque vada, non si comprende come questo tipo
d’investimenti pubblici possa essere di aiuto per un realistico sviluppo rurale
del territorio che, effettivamente, avrebbe tanto bisogno di un valido piano
programmato (quantomeno a livello provinciale) di ricostituzione delle antiche
opere di terrazzamento delle pendici collinari, della messa in sicurezza delle
strade di penetrazione agricola, della captazione e deflusso controllato delle
acque piovane e sorgive in eccesso, e della ricostituzione delle antiche reti
di canalizzazione e stoccaggio delle acque per uso irriguo e,
contemporaneamente, di una programmazione della piantumazione di frutteti e
aree boschive. E invece nulla di tutto questo, solo progetti che includono
cementificazioni e altre attività che rievocano tristemente logiche di un
sistema politico-clientelare che nella pratica fu appena scalfito da valide ma ormai
vecchie indagini.
In una situazione sociale ed economica quale quella di
Fiumedinisi, paese ridotto a circa 1300 abitanti, le attività di primario
interesse rurale dovrebbero essere finanziate e completate prima ancora di
quelle della filiera agro-turistica. Qualche centinaio o migliaio di turisti
all’anno, di quelli con colazione a sacco, impietosamente soprannominati “mordi
e fuggi” non possono essere considerati idonei a generare uno sviluppo
sostenibile del turismo basato sulle filiere "culturale" e "paesaggistica-naturalistica".
Tantomeno se associate ad attività condotte con deturpazioni, quali ne sono
testimoni gli spianamenti creati da ruspe per far luogo a piazzali
cementificati, e altre follie paesane, frutto delle profonde incapacità
professionali della classe dirigenziale locale regionale che si accompagnano a
quelle politiche.
Una tipica vicenda alla Siciliana
Quanto si sta perpetuando ai danni del patrimonio
ambientale e culturale di Fiumedinisi è una delle conseguenze
dell’inquietante cappa di omertà istituzionali che, da decenni, permette di
silenziare gravi vicende perpetuate impunemente con denari pubblici. Si tratta
di danni spesso irreparabili, avvenuti anche a causa della totale assenza di
richieste del formale riconoscimento regionale di parti del territorio quali
“aree archeologiche”, dell’emissione di vincoli di tutela paesaggistica, e di
approfonditi studi geofisici per la determinazione del grado di instabilità
strutturale dell’area sede del Castello Belvedere, lasciandolo in tal modo al
deterioramento o, più recentemente, a restauri e scavi inadeguati.
I principali responsabili di questa surreale
situazione sono personaggi ben noti, alcuni ancora ai vertici del sistema
preposto dalla Regione Sicilia alla tutela, salvaguardia e valorizzazione di
questo prezioso scrigno di beni pubblici.
Ribadisco il contenuto di quanto nel corso degli
ultimi decenni ho reso partecipe, nella mia qualità professionale di
naturalista e archeologo, anche tramite circonstanziati esposti. Alcuni di
questi sono stati scritti assieme a numerosi colleghi stranieri, appartenenti a
diverse università europee e nordamericane, e indirizzati alle Istituzioni di
specifica competenza provinciale, regionale e nazionale e all’organismo
anti-frode della Commissione Europea.
Tra le molteplici iniziative svolte nel 2007, desidero
ricordare quelle nell'ambito della riunione annuale dell'European Association
of Archeologists (EAA), quell'anno tenuta presso l'Università di Zadar
(Croazia) dove venne da me indetta una sessione dedicata alle
problematiche d'interesse criminologico nella provincia di Messina. Nel
corso degli interventi, particolare attenzione venne dedicata alla lunga e
circostanziata relazione della dott.ssa Katerina Ploska dell'Università di
Cardiff. Facendo seguito alle prededenti relazioni di altri studiosi inerenti
alle attività di dirigenti archeologi a quel tempo operanti nella
Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Messina, volle occuparsi degli
aspetti legali (la studiosa possedeva anche una laurea in Giurisprudenza e un
master in materia di protezione europea dei Beni Culturali) delle distruzioni
operate a Fiumedinisi nel corso degli anni 2005-2006.
Quel che sta accadendo a Fiumedinisi conferma, purtroppo,
quanto negli ultimi anni avevo previsto e scritto in diversi articoli
pubblicati in questo blog e in altri siti online.
Appare oggi improcrastinabile, per evitare ulteriori episodi di devastazione
del patrimonio pubblico, la necessità di riaprire le indagini archiviate,
approfondendole anche sotto altri aspetti d’interesse criminologico, sino ad
oggi mai affrontate, sull’operato di un gruppo di dirigenti regionali. Mi
riferisco a quanto ad esempio già evidenziato dal Gruppo Investigazione
Criminalità Organizzata (GICO) della Guardia di Finanza (Procedimento Penale n.
3037/03 RGNR Mod.21) e dall’European Commission – OLAF European Anti-Fraud
Office (Case OF/2007/0022). Resta da valutare anche l’operato di alcuni
elementi appartenenti ad altri apparati dello Stato.
Note
1 – Ne ho già
scritto in questo blog, ma credo sia opportuno anche qui accennarne brevemente.
Una dozzina di anni fa durante le mie ricerche per comprendere quel che stava
accadendo alla mia vita professionale, iniziai a prendere atto dell’esistenza
dapprima di quella che sembrava un’oscura scala di poteri della quale
riscontravo spesso conferma in velati accenni contenuti entro consigli bonari e
ammonimenti, talora affatto amichevoli, dispensatemi nel corso di conversazioni
a vario titolo avute con politici di lunga carriera, avvocati, dirigenti
pubblici, accademici e imprenditori di livello internazionale e, non ultimo, un
noto monsignore che poco prima di lasciare frettolosamente l’Italia si rivelò
prodigo di informazioni. Il quadro che ne uscì è quello di un sistema
piramidale monolitico, che si ammanta di diritti autoreferenziali
“aristocratici”, ovvero costituito da elementi privilegiati di vario grado, che
si considerano “aristoi” ovvero “i migliori” della società, in grado di
essere utili al conseguimento delle finalità che l’organizzazione decide di
perseguire.
In quanto tali, nell’esplicare il loro operato non
ammettono ingerenze esterne al monolite, e in caso di problemi si rivolgono per
via gerarchica ai vertici locali della loro organizzazione affinché si discuta
l’argomento, si conduca una indagine e, infine, eventualmente si reagisca
attivando le contromisure di difesa comunicandole a livello locale e regionale,
che a sua volta decide se informare anche i vertici nazionale, e questi quelli
internazionali.
In particolari circostanze, il lavoro sporco generalmente
eseguito da unità di affiliati distribuiti a livello provinciale o regionale,
viene affidato a unità esterne, generalmente ditte di fiducia, mediante “contractors”
che seguono protocolli prestabiliti, concernenti il come, dove e quando sia
necessario intervenire, nella fase iniziale, neutralizzando l’attenzionato in
uno stato di morte sociale. Si tratta quindi di una sorta di omicidio del
personaggio, delle sue integrità carismatiche, quali moralità, professionalità,
attendibilità. La prassi del protocollo, richiede una serie di episodi-gradino,
stadi di sofferenza da percorrere verso la denigrazione e quindi la
degradazione sociale (“il basso”). In questi casi, ogni stadio punitivo è
sempre accompagnato da riferimenti simbolici di ambito esoterico impartite
seguendo la regola detta “del contrappasso”, di dantesca memoria e interamente comprensibili
solo agli alti gradi iniziatici.
Per quanto ai “profani” possano sembrare folli tesi
“complottiste”, la finalità di questo trattamento è considerata primaria dal
vertice del sistema, e implica la fede in antichissime concezioni di origine
esoterico-religiosa. Tra queste vi sono le metodologie impiegate per la lenta
estrazione della forza vitale che conduce all’annichilimento del condannato,
sia in quanto privato di un potere che altrimenti (si ritiene) questi potrebbe
trattenere e adoperare dopo la morte fisica, e sia in quanto questo potere può
essere estratto e trasmesso per gli scambi di poteri tra diversi piani
esistenziali, come ad esempio avviene nel corso dei rituali di offerta
sacrificale. La continuazione del provvedimento in una eventuale seconda e
ultima fase, a completamento della prima, può essere considerata quale
l’apposizione del sigillo fatale a chiusura del procedimento.
2 – avendo
valutato le prime avvisaglie della distruzione, iniziai a fotografarlo a
partire dal 1973. Agli inizi dell’estate 1979 fu oggetto di un mio breve
filmato.
3 – della quale ricordo la mia prima visita da ragazzino in una mattina agli
inizi dell’estate 1965. A quel tempo, innanzi ad essa vi era un antico piccolo
spiazzo lastricato in pietra calcarea locale, levigata dal calpestio nei
secoli, ed era come immersa nell’ombra di un’ampia copertura arborea di gelsi,
fichi bianchi e un maestoso alloro. Secondo quanto appresi nel 1976, gli
anziani della zona tramandavano che le foglie di questo alloro avessero
particolari proprietà attenuanti i violenti dolori intestinali, che fosse noto
già prima del soggiorno di Garibaldi nella zona, avvenuto nel 1860 e che il
tronco sembrava avesse avuto la forza di divaricare la fessura della roccia
nella quale la pianta era nata. Cito questi miei vecchi appunti in quanto credo
sia interessante evidenziare come questa narrazione popolare mostri la fusione
di due miti in chiave simbolica: alloro=eroe e viceversa.
A margine posso testimoniare che, sino alla fine degli
anni 1960, il ricordo e la stima nei confronti di Giuseppe Garibaldi
quale Eroe dei Due Mondi, erano ancora molto vividi negli anziani
di quell’area della fascia costiera ionica del Messinese. Ne ricordavano le
gesta tramite gli spettacoli dei cantastorie itineranti e i racconti pieni di
particolari esagerati o aggiunti nell’arco di un secolo, della presenza
dell’Eroe quale ospite nell’abitazione del Col. Interdonato, che fu uno dei
suoi ufficiali nella spedizione dei Mille. Per l’occasione, il paese cambiò
denominazione divenendo l’attuale Nizza di Sicilia, in omaggio alla città
natale del Generale che, tuttavia, ottant’anni dopo (nel Secondo Dopoguerra)
passò alla Francia assieme a tutta la splendida Savoia.
Nei pressi della fonte Acqua Rossa (denominazione
probabilmente dovuta al colore dei depositi ferrosi un tempo lasciati sulla
roccia calcarea con cui era costruita) esistevano antichi edifici rurali ancora
abitati da anziane coppie di contadini, nel corso dei decenni sostituiti da
alcune famiglie di pastori e mandrie di bestiame. Con l’apertura della strada
sterrata Allume-Acqua Rossa-Fiumedinisi, negli anni 1970 vennero sradicati gli
ultimi alberi rimasti e ruspata gran parte della pavimentazione a secco dello
spiazzo innanzi alla fonte.
A simboleggiare l’arrivo della modernità anche in quei
luoghi, maldestramente cementificata, la parete rocciosa dalla quale l’acqua
sgorgava divenne un misero muro a intonaco di cemento perfettamente liscio,
dove l’acqua ancora oggi esce da un tubo di ferro sovrastato da una scritta
incisa nel cemento fresco, per ricordare ai posteri il cognome del sindaco
(Nottola) e la data. A fianco, un abbeveratoio di cemento per il bestiame, e a
meno di due metri innanzi la strada sterrata, polverosa in estate,
fanghiglia in inverno. In seguito alle proteste per la scomparsa del piccolo
frutteto che rappresentava un delizioso sollievo contro la calura estiva, ai
lati della fonte si piantarono due alberelli del tutto estranei all’ambiente,
due pini dei quali oggi ne rimane solo uno, una sorta di alieno che in quel
paesaggio genera un misto di compassione e rabbia, in quanto unico
sopravvissuto a ormai quasi mezzo secolo dalla distruzione dell’antico
frutteto.
L’area è da molti decenni ormai divenuta un pascolo in
via di desertificazione, e ha perso totalmente quella sua struggente armoniosa
bellezza rurale, gli odori delle piante in quell’ombra salutare, il canto di
numerosi uccelli che giungeva da ogni parte, al quale si accompagnava lo
scroscio dell’acqua che cadeva su una lastra di pietra sulla quale gli abitanti
del casale ponevano a riempirsi gli orci e le anfore da acqua (bummuli e quattare).
4 – Ne
ho ancora vivo ricordo in quanto la frequentai innumerevoli volte, per
dissetarmi e riempire la mia borraccia. Agli inizi degli anni 1970, il
manufatto si conservava ancora in ottime condizioni, eccetto le antiche
strutture site all’esterno, adoperate per la raccolta e la canalizzazione delle
acque, delle quali restavano tracce perimetrali, in seguito anch’esse svanite
quale conseguenza dei lavori operati dalla ruspa.
L’incantevole, semplice, essenziale, ma al contempo
severa architettura medievale della fonte, immersa in un antico bosco di
castagni, a quel tempo ancora ben curato. In estate, era un’autentico piacere
inoltrarsi nella rinfrescante sua galleria della lunghezza di circa sei o sette
metri. Era un camminamento in linea retta tra due pareti alte e strette, in
parte escavate nella roccia e in parte erette a muro a secco, con piccoli
blocchi di pietra, incastrati l’un l’altro sbozzandoli a scalpellina. La volta era
realizzata a sesto acuto in stile normanno-svevo. In fondo, la galleria si
concludeva innanzi a una parete rocciosa dalla quale sgorgava un’acqua dal
sapore minerale, deliziosa, come in genere lo sono tutte quelle che
scaturiscono da rocce metamorfiche con forte prevalenza filladica.
L’acqua doveva originariamente cadere entro una vasca
in pietra, mancante da tempo immemorabile. Difatti, traboccando dalla vasca
veniva raccolta entro una canaletta scolpita nella roccia, ancora esistente
negli anni 1980 ed in parte ricoperta da muschio. Visto dall’esterno, l’accesso
alla fonte si apriva in un alto muro a secco dell’antico terrazzamento che
interessava l’intero castagneto, proteggendolo dall’erosione del suolo per
effetto del dilavamento. Il muro a secco era qui stato eretto a
ridosso di due affioramenti rocciosi e appariva quale una sorta di portale
sensibilmente incavato di sbieco rispetto al fronte di terrazzamento, con
vertice a sesto acuto ottenuto con lastre di pietra armoniosamente disposte di
taglio.
Da questa fonte si dipartiva una conduttura
tipologicamente attribuibile al corso del tredicesimo secolo, costituita da
coppi in terracotta di forma a U, ognuno della lunghezza di circa 40 centimetri. Erano
stati ottenuti con stampi, presumibilmente lignei, e cotti in fornaci tramite
lunghe tecniche di cottura graduata, sino a raggiungere un’alta temperatura,
attorno ai 900-950°C, in modo da garantire una maggiore resistenza ad urti
e tensioni. L’interno era stato impermeabilizzato da uno strato di vetrina
diluita e vernice marrone-manganese, alcune delle quali decorate all’esterno
con questa vernice, da una linea orizzontale sinuosa posta a simboleggiare
l’acqua.
Gran parte del percorso iniziale della conduttura era stata distrutta dalle antiche frane, purtroppo ampie e profonde, che interessarono l’intero pendio sottostante alle mura occidentali del Castello sino alla Rocca Perciata. Riuscii tuttavia a localizzare la rimanente parte dell’acquedotto in una balza sottostante al Castello, seguendone le tracce sino a un’antica vasca, e da questa diramarsi infine verso le abitazioni site sulla Pianura Chiusa, all'inserzione dell'antica mulattiera che s'inerpicava sino alla sommità del Monte Belvedere. Era quindi ovvio che, quantomeno in età Sveva, le balze terrazzate che dal Castello si raccordavano con la Pianura Chiusa fossero state interamente fornite da un sistema di canalizzazione delle acque, al fine dell’utilizzo di una irrigazione differenziata a seconda delle esigenze stagionali e della varietà delle piante coltivate. Questo potrebbe significare che in quell’età il paesaggio intorno al Castello non era caratterizzato interamente da coltivazioni intensive quali frumento e vitigni, come sappiamo certamente avvenne in età moderna, ma probabilmente anche lussureggiante con giardini a frutteto o altro, che solo accurate indagini archeobotaniche potrebbero in parte rivelarne la presenza.
Desidero infine ricordare che parte del sentiero
fiancheggiante questo acquedotto dalla Pianura Chiusa sino alla fonte sopra
descritta, utilizzata per le necessità del Castello e delle abitazioni
circostanti ad esso collegate in particolare quale contado, fu distrutto negli
anni 1980 dall’instaurarsi di una fase di piccoli movimenti franosi e
conseguenti approfondimenti da dilavamento, dalle conseguenze devastanti,
successive alle modalità di apertura di una strada sterrata, oggi in parte
spazzata via. Realizzata con ruspe di grandi dimensioni e automezzi da
trasporto di materiali per la costruzione di tralicci dell’elettrodotto, ma pianificata
sulla carta con la tipica arrogante incuranza burocratica di quel tempo, in
linea retta, anziché rispettare le reali e fondamentali necessità di protezione
del territorio. Basti dire che per effettuare queste opere, la società non
necessitava richiedere autorizzazioni alle istituzioni di competenza. Si
trattava di quel Piano Nazionale di elettrificazione delle contrade rurali, che
anche in quest’area provocò ingenti danni all’antico sistema difensivo del
suolo, rappresentato dalla millenaria rete di terrazzamenti e piantumazioni
arboree opportunamente scelte.